Dedichiamo
questo post ad un carcarese ignoto ai più, anche
se a lui è intitolata la via che va, passando davanti a
quella che fu la sua casa, dalla piazzetta al Collegio.
Il tenente Giovanni Battista Sanguineti nacque a Carcare,
dove il padre era farmacista, il 15 gennaio 1865, e morì a Coatit (Eritrea) il 13 gennaio 1895
durante la battaglia che vide le truppe coloniali italiane agli ordini del gen.
Baratieri contrapposte a quelle tigrine del ras Mangascià, in quello che fu
opportunamente definito come “il nostro sciagurato delirio africano”:
intendiamoci subito, sciagurato non perché fu un’impresa coloniale (dobbiamo
giudicare i fatti storici inquadrandoli nell’epoca, e allora tutti gli Stati
europei avevano le loro colonie, dove spesso si comportarono peggio di noi), ma
perché fu un’impresa scriteriata, decisa in maniera irresponsabile e condotta –
specie a livello politico- in modo altrettanto irresponsabile.
Non è questa la sede per dilungarsi sulle vicende militari
italiane in Eritrea, sulle quali si può trovare abbondantissimo materiale in
rete. Qui ci limitiamo a fornire alcune veloci informazioni sul contesto in cui
avvenne la morte di questo giovane carcarese.
All’epoca il vasto regno “feudale” dell’Etiopia/Eritrea era
in una situazione caotica, dilaniato dalla lotta tra due pretendenti al trono
del defunto re Iohannes. L’uccisione da parte degli inglesi del re etiope Teodoro nel 1868 aveva lasciato il
paese nel caos. Nel 1872 riuscì a proclamarsi re un capo della regione del
Tembien, Cassà, che assunse il nome di Iohannes. Nel 1889 costui morì
combattendo contro i Dervisci. Prese il potere il re della regione dello Scioà,
Menelic, contrastato però dal ras Mangascià, figlio ed erede del defunto Iohannes.
L’Italia,
ondeggiando fra Menelic e Mangascià (nulla di nuovo..) non trovò niente di meglio che andarsi a
cacciare in questa situazione caotica, nella quale fra l’altro soffiava sul
fuoco la Francia, ostile all’Italia per la sua appartenenza alla Triplice
Alleanza.
Sanguineti arriva col contingente italiano in Africa nel 1888. Col grado di Tenente viene inviato nella provincia eritrea dell’Okulé, governata in nome dell’Italia, da un “degiac” (capo) abissino di nome Batah Agos. Sanguineti era lì come “residente”, in pratica rappresentante della sovranità italiana.
Il 14
dicembre del ’94 Agos, si ribellò all’
Italia. Batha Agos avrebbe defezionato sotto l’influenza dei Padri Lazzaristi francesi (la Francia proprio non ci voleva in Africa!9)e prendendo a motivo l’esproprio delle terre d’Eritrea, circa
315000 ettari, e l’incameramento delle terre dei conventi copti (altro grave
errore sintomatico dell’avventatezza della improvvisata politica coloniale
italiana). Sanguineti fu imprigionato.
Il Governatore militare italiano dell’Eritrea
inviò subito contro
Agos tre compagnie guidate dal maggiore Toselli. Costui
intimò e ottenne con pressioni militari alternate a una sorta di trattativa
diplomatica (procedimento normale in quei luoghi) la liberazione di Sanguineti:
“ Sembra che Batha Agos si fosse deciso a un certo punto a restituire
il Sanguinetti e gli altri prigionieri italiani, ma il suo consiglio di guerra
si oppose a questo”, leggiamo in R.
Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi, 1958.
Nei combattimenti
successivi Agos fu ucciso in battaglia.
La guerra
continuò conto il ras Mangascià e il 13
gennaio ’95 ci fu lo scontro di Coatit,
in cui Sanguineti perse la vita.
Il ten. Sanguineti faceva infatti parte della esigue forze
(66 ufficiali, 105 nazionali, 3684 indigeni) che la mattina del 13 gennaio si
scontrarono con circa 12000 abissini nei pressi del misero villaggio di Coatit.
Sanguineti, insieme ad un altro tenente, Mulazzani, comandava una delle bande
indigene di àscari posta all'estrema sinistra dello schieramento
italiano. Ecco come un testimone oculare, Guglielmo Ferrera, descrive (con
la retorica tipica del periodo e dell'ambiente) l'episodio della morte di
Sanguineti (da G. Novella, Carcaresi
illustri del passato, Savona, 1994, pp. 50- 51): "Mentre
sull'altura fischiavano le palle (..) scorgo gettato per terra il ten.
Sanguineti ferito gravemente all'inguine e al braccio. Spingo di carriera il
mio mulo, urlo il nome di Sanguineti, (..) ci risponde con voce fioca. (..)
Tornai da Sanguineti e pietosamente sforzandolo, fattolo adagiare alla meglio
su un mulo, sono riuscito a ripararlo nella chiesuola di Cotit. (..) Il tenente
Sanguineti dopo due giorni di spasimi atroci, invocando la vittoria per le
nostre armi, da vero eroe, in mezzo al compianto di tutti, la sera del 14
soccombette".

La battaglia era costata ( da Wikipedia) 3
ufficiali morti (i tenenti Sanguineti, Scalfarotti, Castellani: gli abissini
tiravano di preferenza agli ufficiali, perfettamente identificabili grazie alla
divisa: altra dimostrazione dell’intelligenza del nostro Stato Maggiore..),
2 morti fra i soldati italiani, 90 indigeni morti e 227 feriti, nonché
mezzo milione di lire di spesa. Il nemico aveva avuto circa 1500 morti e almeno
3000 feriti ( così
almeno leggiamo, ma si sa che.. le perdite del nemico – specie quando si perde-
sono sempre enormi...)
Sanguineti era un semplice tenente, ma la sua figura viene
ricordata in diverse opere che trattano di quella convulsa e sanguinosa
avventura italiana in terra d’Africa.

Possiamo iniziare con un libro (e una testimonianza) molto interessante: I nostri errori: 13 anni in Eritrea. Note teoriche-considerazioni, Torino 1898. L’opera è anonima, e ciò non deve stupire, visto l‘anno di pubblicazione e le dure – ma documentate- critiche- che l’autore riserva alla gestione italiana dell’impresa coloniale. Scrive così il nostro autore: “Nel mattino del 16 (dicembre 1894) partiva il maggiore Toselli da Asmara con tre compagnie e giunto presso Saganeiti apriva trattative col ribelli per la liberazione del ten. Sanguinetti. Queste trattative durarono due giorni anche perché il maggiore Toselli non le spingeva con troppa alacrità affine di ricevere i rinforzi che attendeva”. E più avanti: “ Sarebbe ingiustizia ed ingratitudine non tributare i meritati elogi al tenente Sanguinetti Giovanni che fu uno degli ufficiali del Regio Esercito -e ne ebbe in ciò non pochi compagni - i quali si resero grandemente benemeriti della colonia e meritano di essere citati ad esempio. Da lungo tempo io Africa, dopo avere appartenuto alle truppe indigene ebbe il comando delle bande dell’Hamazen, nelle quali funzioni diede prova di abilità, giusto tatto e grande attività. Destinato a residente in Saganeiti compii la sua missione con molto zelo e perfetto buon volere. (..).
Al momento in cui Bahta-Agoe lo fece incatenare conservò tutta la sua presenza di spirito e la sua energia dicendogli col massimo disprezzo: ora hai la forza. ma ciò non toglie che tu sia un vile ed un traditore. Sopportò la prigionia, che poteva essere prodromo di ancora ben più gravi sevizie, con la più ammirevole dignità.
Ferito alla battaglia di Coatit da due palle, una al ventre e l’altra. che gli sfracellò il pugno destro, seguitò a combattere finché le forze lo sostennero, e ricoverato poscia sotto la tenda destinata ad ambulanza ove poche ore dopo morì, sopportò gli spasimi cagionati dalle ferite con uno stoicismo spartano. Sua cura fu unicamente d'informarsi sull’esito della battaglia, e, saputo della vittoria, esclamò con l'accento di viva gioia: allora tutto va bene. Trovavasi nell'ambulanza vicino a lui un altro ufficiale mortalmente ferito, cui i dolori strappavano qualche lamento il Sanguinetti continuamente lo esortava a soffocarli per evitare che negli indigeni vicini alla tenda potesse anche soltanto nascere un dubbio sulla forza d'animo dei nostri ufficiali.
Un’altra testimonianza è quella di un ex garibaldino, A. Elia, che così scriveva (in Ricordi di un garibaldino dal 1847 al 1900, Roma 1904): “1894: “Ribellione di Batha Agos con arresto a tradimento del tenente Sanguinetti nostro residente a Saganeiti (..) Toselli il 16 dicembre apriva trattative per la sua restituzione. Dopo la morte di Bathas Agos il ten. Sanguinetti poté sottrarsi alla triste fine che i suoi seguaci gli minacciavano per l’assistenza del suo interprete Gare Sghaer, bravo giovane indigeno che gli si mostrò fido fino alla morte. Nello scontro di Coatit (13 gennaio ’95) cadde vicino al generale Baratieri il tenente Sanguinetti colpito tre volte di palle”.
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Il "bravogiovane indigeno che aiutò Sanguineti |
Questa testimonianza ha anche il pregio di ricordare l’aiuto dato a Sanguineti da “un bravo giovane indigeno di nome Gare Sghaer”: una caratteristica che differenziò il colonialismo italiano da quello di altre nazioni furono i buoni rapporti che gli ufficiali (inferiori) italiani riuscirono a costruire con gli “indigeni” arruolati come àscari o “bande”, fedeltà personale di cui ci furono moltissimi esempi.
E “il bravo giovane indigeno” è ricordato anche da un altro autore italiano, E. Ximenes, un “corrispondente di guerra” dell’”Illustrazione Italiana”, inviato sul campo, che così scrisse (in Sul campo di Adua, Trevers, 1897 : “ Il nostro interprete, il bruno Gabrè Sghear, sa tutto, conosce i luoghi (..) Gabré Sghear! E’ un tesoro per noi questo bel giovanotto di poco più di 20 anni, sempre gaio ed intelligente, pronto e fedele. Fu l’interprete del povero tenente Sanguinetti e volle dividere con lui la prigionia quando venne catturato da Bata Agos; al suo tenente procurò la fuga con finezza di diplomatico e con affetto di fratello. Gabré Sghear, come già a Coatit, aveva combattuto ad Adua. (..) Aveva aiutato e soccorso i nostri feriti e i prigionieri”. E di questo bel giovanotto Ximenes, giornalista e ritrattista, ci lasciò anche un disegno, che qui riproduciamo
Probabilmente il corpo di Sanguineti non fu mai traslato a
Carcare, dove però è ricordato da una stele eretta nel locale cimitero, e da
un'epigrafe posta sul muro della casa dove nacque, casa che si affaccia
sulla strada che dal ten. Sanguineti prende il nome.
Al 1901
l’impresa eritrea ci era costata 6000
morti italiani, circa 3000 àscari e mezzo miliardo (di allora!!!). L’ Eritrea
importava merci per 10 milioni e ne esportava per poco più di 1: insomma, un
affare!!!
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Stele commemorativa di Sanguineti nel cimitero di Carcare (Sv) |
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Appendice
Presentiamo a questo punto un documento che ci sembra interessante, il discorso pronunziato dal Barrili in piazza a Carcare, il 15 settembre 1895 per l’inaugurazione di una lapide sulla casa del tenente Sanguineti.
Per un eroe d’Africa
Ogni più umile borgo ha la sua gloria. Questa è particolare fortuna della nostra penisola, privilegiata di tante grandezze, e nei prosperi tempi e nei grami. Troppo lunga stagione il suo popolo giacque infelice e muto, meditando un maraviglioso passato, col dolore, acerbo nell’anima, di non poterlo rinnovare nel cospetto delle genti; e tanto più geloso di esso, quanto più disperato di riaverne la luce. Ma Iddio non abbandona le stirpi che ha di più nobili tempre formate; e un giorno avvenne per prodigio dei cieli ciò che non pareva più dato aspettare da umana virtù. Il passato lontano, con tanta forza di desiderio invocato, si rinnovò: le ombre tornaron a vita. Fu una leggenda di trentacinque anni fa, tanto sembrava miracolosa la rapida progressione degli eventi felici, che i morti gloriosi saltassero in arcione alle spalle dei vivi cavalieri, e li spingessero a vittoria, dove questi confidavano appena di andare ad onorato martirio. La leggenda, chi sappia interpretarla, significa che tutte le virtù italiane di quindici secoli d’oppressione si raccolsero in un esempio, l’esempio in uno stimolo, lo stimolo in una scossa gagliarda, in un impeto poderoso. Il nostro passato, o cittadini, fu davvero il prezioso aroma che doveva preservare d’ogni corruzione il futuro; e quel passato parlava con voce arcanamente efficace in ogni terra italiana, dovunque fosse un’accolta d’intelletti, un consenso di cuori, un focolare di studi, una favilla di speranza non morta ancora tra le ceneri antiche.
Qui, dove il focolare di studi, acceso come fu, e nutrito da gran carità cittadina, non si spense più mai, parlò bene il passato, e meglio Roma coi suoi fasti immortali. Le sue meritate fortune, le sue leggi ammirande, i suoi fatali duelli con le vicine e le lontane nazioni, furono pensiero quotidiano ed assiduo a dodici generazioni avide di sapere; qui sopra tutto si apprendeva con le forme latine il genio tenace della schiatta latina. Così il passato ci preparava il presente; così, nella quiete solitaria dei classici studi si acuiva il desiderio dei classici fatti. Una vigorosa sentenza domina tutta la classicità della nostra stirpe: agere et pati fortia romanum est; forti cose operare e soffrire è romano. La meditava un gentile adolescente tra voi, da quella casa muovendo ogni giorno due volte a quella scuola. Neanche cento passi (riferimento al Collegio delle Scuole Pie, di cui il Sanguineti fu alunno) e c’è la sua vita, la sua morte, la sua gloria. Perché egli, un giorno, il giorno in cui le grandi vocazioni toccano il cuore, gridò: «voglio essere soldato. » E volle, non perché gli piacesse troncare studi inameni e difficili, ma perché li aveva fruttuosamente compiuti. Andò a Modena; ne ritornò con le spalline di sottotenente.
Esser soldato... Perché, con la pace lunga, assicurata, piacente al maggior numero, desiderabile a tutti? La voce arcana diceva qualche cosa di più nel cuore del giovane: « esser soldato, e andare in Africa. » Chiamavano lui, forse, le ombre di Scipione e di Lelio? Rammento che di una parola amica confortai il giovane ufficiale presso Oreste Baratieri (in poche parole: lo raccomandai. Baratieri fu il comandante in 2a - e dal ’91 in 1a, delle truppe italiane in Eritrea.) e mi è triste e caro il ricordo. A compenso di tante lettere vane, che si ricevono, d’uomini vani e per cose più vane, resti nella mente di un insigne guerriero che io, vecchio amico e modesto commilitone d’altri tempi, gli avevo presentato, in cinque versi di scritto, un eroe.
Che cosa è un eroe? Per gli antichi, fu l’impeto d’un sangue più caldo dell'usato, a servizio di membra più robuste e più agili, esercitate dalla prima adolescenza a colpire. S’aggiungeva, crescendo i meriti dell’eroismo, una bella armatura foggiata e temprata da Vulcano; la protezione assicurata d’un Dio, o d’una dea; talora perfino, come ad Achille, il dono della invulnerabilità. Eroi a buon patto, costoro; non li intendiamo più, noi. Se qualche volta li ammiriamo in Omero, ciò accade soltanto per alcuna parte di umano, che, grazie all’ingegno del poeta, in essi apparisce. Ma l’uomo deificato ci lascia freddo il cuore e lo spirito: meglio intendiamo e sentiamo il Dio umanato, che scende a morire della nostra morte, a soffrire del nostro martirio. Ed oggi l’eroe è vulnerabile; eroe, quando per un’idea non voluta sacrificare ai potenti, geme i vent’anni, la sua gioventù, la sua virilità, nel profondo d’un carcere; eroe, quando per un’audace parola proferita o divulgata ascende il patibolo, con assai più saldezza nell’animo che non n’abbiano nel braccio coloro che gli girano al collo il capestro; eroe, quando alla voce dell’onor della patria, fatto onor suo, corre al pericolo certo e lo vince, o nobilmente cadendo afferma l’onore della sua gente. Oggi l’eroe ritragge la sua forza maggiore dalla freddezza, non dall’ardore del sangue. Soldato, ha da intendere il dovere e da tenere il posto assegnato; ufficiale, ha da aggiungere all’obbligo della obbedienza la intelligente malleveria del comando; e ufficiale o soldato ha da aver forte e profondo il sentimento della patria, della sua incolumità, della sua grandezza, e più intimamente viva nell’anima l'immagine dei benefizi che il sacrificio suo recherà al nome italiano, a quella cosa augusta, effigiata in un drappo di seta, che, quanto è più stinto e più lacero, tanto è più bello, più luminoso, più eloquente, più sacro.
Con questo sentimento nel cuore, con questa immagine negli occhi, va oggi l’eroe, cerca il pericolo che ordinariamente si sfugge, quando è millanteria ostentare dispregio della vita, quando è irriverenza a Dio gittarla senza ragione. Egli va, e c’è la morte che imperversa in torrenti di fuoco ; e va incontro a quella morte, la sfida, la debella, o ne è debellato. Che importa ciò all’eroe? Anche morendo, egli sa che tanti altri, guidati, o animati col fortissimo esempio da lui, ascoltando la voce dell’istesso dovere, vedendo l'immagine della medesima patria, coglieranno i frutti della vittoria. Egli beato, ne ha sentiti nell’aria gl’inebrianti profumi. Un’idea, dunque; ecco la forza dell’eroe moderno. Ma perché quella idea si formi in noi, cresca vigorosa e trionfi sui più miseri istinti dell’essere, è mestieri che l’anima nostra le sia casa e tempio ed altare. E perché la casa si foggi, il tempio si elevi, e l’altare fumi il più puro degli incensi, quanta preparazione, quanta educazione non è necessaria! Si è detta un prodigio la macchina umana: ma quale altro prodigio, e maggiore, l’anima di un valoroso! Io m’inchino a quell’anima; saluto te, o Giovan Battista Sanguineti; e sento che in te, anima indistruttibile, vive ancora, e vibra ardori, e raggia amori la patria. Ed ho lagrime al ciglio che non sono di debolezza; brividi al cuore, che non son di viltà.
Due volte ne' suoi sett’anni d’Africa, il giovane tenente, ornai veterano, venne in Italia a rivedere i suoi, a ritemprarsi nella verde terra Aleramica; la terra delle dolci carezze materne. E gli fu caro il viaggio, che in breve spazio gli compendiava molti anni di vita e di pace studiosa; ma aveva sempre l’Eritrea nella mente e sul labbro. L’Africa non ha soltanto miraggi di acque correnti nelle sue arene infuocate; ha pure bei miraggi di gloria. Sentono per istinto gl’italiani che la gloria è tutto, poiché in essa è la ragione di tutto, e può dar lutto ella sola? Parlava poco, e bisognava saperlo stimolare, toccandogli de’ suoi àscari e della sua residenza. Così giovane, era a capo di una banda indipendente; onde a lui grande malleveria di comando. Inoltre, aveva ufficio di residente, come a dire di ambasciatore armato, fra gente mezzo barbara, amica oggi ed ossequiosa, che poteva esser nemica e ribelle al domani; onde l’obbligo di vigilare, di sventare, di provvedere, usando in pari tempo dolcezza e fermezza, mano di acciaio in guanto di velluto; sopratutto facendo amare l’ Italia, facendola all’uopo temere. Buon ufficio perché utile alla terra natale; ma quante volte non ne desiderò egli un altro, in cui fosse da gittare il guanto e da esercitare la mano! In Agordat era accorso dalla sua lontana residenza di Saganeiti, tardi pel grosso della mischia, in tempo per le ultime fasi della giornata, e meritandovi la sua croce di cavaliere. Ma voleva dell’altro; l’occasione, voleva, la grande, la bella occasione; e allora....
Me lo aveva detto, su questa medesima piazza, abbassando un po’ il lume dei neri occhi lucenti, con la sua voce di fanciulla, improntata in quel punto di tanta risolutezza d’accento; e allora, la medaglia, o la morte. Ebbe l’una e l’altra, del massimo grado; quella d’oro; questa, di due belle ferite. Parli qui, meglio di me, d’ogni più eloquente oratore, la ignuda e solenne verità d’un brevetto d’onore : « Catturato dal ribelle Bata Agos, sostenne fieramente la prigionia; liberatosi, coadiuvò efficacemente alla occupazione di Adua e alla sottomissione dell’Oculè Cusai. A Coatit (13, 14 gennaio 1805) sostenne con slancio e bravura 1’ attacco al fianco sinistro della posizione. Ferito mortalmente volle rimanere sul campo, e mori all’indomani, lasciando in tutti ammirazione pel suo sereno eroismo. » Doppia ragione al massimo onore, vedete? E non han potuto rallegrarsene gli occhi di un valoroso morente; se ne offuscano i nostri, sette mesi dopo la memoranda giornata.
Coatit, sorriso di larga vittoria ! Il Sanguineti, coi suoi àscari che l’amano, tien l’ala sinistra, dove il Baratieri farà perno ad un cambiamento di fronte sotto il fuoco. Il nemico reso insolente dal numero, ingrossa smisuratamente di là, vuol traboccare, dilagare, accerchiare. Bisogna ricacciarlo ad ogni costo. Eccola, l’occasione aspettata, l’occasione invocata. Dentro, c senza risparmio; dentro, com’è necessario; non bisogna egli vincere ? Ferito, non bada alla sua ferita ; « avanti! » Ferito ancora; “ avanti, avanti sempre, Savoia!”. Caduto, non vuole soccorsi; « lasciatemi qui, andate, e dentro più che mai. » Ma quando tornano i suoi dalla carica vittoriosa, ch’egli aveva già così innanzi condotta, quando un grido alto per tutto il dorso del monte gli annunzia il trionfo della bandiera, « ora morirò contento » esclama; e solo allora si lascia trasportare dal campo. Il suo riposo d’un giorno in lenta agonia non sarà costato l’allontanarsi di due uomini dalla fronte di battaglia, ov’erano necessarie le forze di tutti. Questo il suo primo pensiero. E ben poteva ripetere: « ora muoio contento,» mentre al suo sguardo languente sorrideva una forma di bellezza celeste, la bellezza del vincere; per cui, penso, non si faranno mai tanti sacrifizi che bastino.
So bene: c’è chi fa i conti, con penna e calamaio. Sorrisi di vittoria, tanto; raggi di gloria, tanto; preparazione di quei sorrisi e di quei raggi, tanto; somma totale, quattrocento milioni. E’ troppo, gridano i signori abbachisti. Hanno ragione: quattrocento milioni, sian pure da spartirsi in dieci o dodici bilanci, son la fortuna, e stavo per dire la gloria, di dieci o dodici tra le moderne incarnazioni di Mida. E meglio sarebbe poter fare altri conti, non è vero? Negata alle nuove generazioni l’aspra ed inutile educazione del combattere, tanto; lasciati vuoti i magazzini e sguarnite le fortezze, tanto; offerta amabilmente la pace fraterna a quanti ce la ricusano, tanto; fatte le debite scuse e voltatici sull’altro fianco a dormire, tanto. Vedete che bellezza! A mala pena la spesa dei guanciali : tutto l’altro è risparmio, e va oltre, ben oltre i quattrocento milioni. Ma ecco, a forza di risparmiare, noi resi inetti ad ogni di fesa legittima ; e poveri per giunta, più poveri che non fossimo stati mai, poiché gli sbocchi della produzione, i mercati del lavoro umano appartengono solo ai vigilanti, ai previdenti, ai perseveranti ed ai forti. E un giorno, che noi vogliamo dolerci del danno irreparabile, o che altri venga con arte a suscitare i pericolosi lagni e le pazze offese tra noi, ecco, giustamente irritato, e non come noi disarmato, uno od altro nemico alle porte, eccolo in casa. Altri conti da fare, quel giorno; non più milioni, miliardi; spogliati i vostri musei, le vostre chiese, i vostri archivi, le vostre biblioteche, popolo d’artisti, di dotti e di poeti; il soldato straniero trascinante la sciabola sui vostri selciati, popolo di filosofi umanitarii; e a voi, padri, si fa grazia del resto.
Ma io parlo in mezzo a tali,
che non hanno mai fatto i conti, e non vogliono incominciare quest’oggi. Qui,
dove in un borgo d’antico confine si saldano due genti nobilissime, rampollate
da un medesimo ceppo di Liguri; qui, dove per insensibil trapasso Alpe diventa
Appennino, qui siam macigni di fede. Ridateci la gloria, o uomini delle sante
congiure e delle pugne memorabili ond’è uscita la Italia nuova; ridateci la
gloria, in cui ogni buon seme germoglia ed ogni bel frutto matura. Pace, sì,
pace amiamo e vogliamo; ma colla certezza di poter dire col gesto : « guai a
chi ci tocca ». Così quei cavalieri d’altri tempi, che parlavan soavi come
fanciulle, avendo sempre sicuro nella mano il colpo di spada per chi ne
offendesse la dignità, o ne insidiasse l’onore. Ogni più umile borgo ha la sua
gloria. E ce n’è tanta qui, nuova ed antica; qui, dove nacque Giuseppe Bolla,
morto da prode a Vicenza, dopo aver combattuto da prode a Velletri e a Roma;
qui dove il mio Cesare Abba, poeta e soldato, studiò adolescente, meditando
nelle cantiche dell’Alighieri e nelle pagine del Machiavelli le necessità della
patria; qui, dove studiò, dove ha posto dimora il mio Felice Caravadossi,
progenie di bei soldati, che porta i segni della gloriosa ferita tirolese,(1)
e ne han danno le membra, ma non l’anima invitta (dovrebbe trattarsi del
padre del sacerdote carcarese Cesare Caravadossi, ucciso in Francia nel 1928 da
un anarchico perché sospettato di essere una spia fascista nell’ambiente degli
immigrati). Qui, tra le forti difese del futuro e le forti memorie del
passato, a un’ora dal valico d’Altare, a tre dal valico di Melogno, fra
Montenotte e Cosseria, non si conosce viltà. L’onore anzi tutto. « E si muoia
pure » grida di lontano una voce a noi cara. « Perché siam nati? forse per
vivere ad ogni costo? e non per vivere a patto d’onore? Bello eleggere a noi di
morire per te, Italia madre; per te, Umberto, suo primo magistrato, suo custode
e suo vindice». Inchiniamoci; così parla dal suo lontano sepolcro l’estinto di
Coatit. E voi scoprite il marmo che qui rammenti ai vostri figli l’eroe; e lo
saluti, squillante agli echi delle balze natali, la marcia guerriera del Re
Abbiamo qui un perfetto esempio del Barrili oratore, dalla prosa facile e scorrevole.
E’ un brano oggi diremmo politicamente corretto, con un Barrili perfettamente allineato all’epoca e al momento.
E ciò non tanto per la retorica
che gronda in ogni riga (ci verrebbe da chiederci quanto di questo discorso,
pieno di mitologia e citazioni dotte, abbiano capito e gustato gli uditori,
popolo carcarese non certo di esimi letterati; ma certe prose scritte o orali
di certi giornalisti e corrispondenti contemporanei non son da meno) ma anche e
soprattutto per la perfetta coincidenza
con quelle che erano le idee di un uomo di successo che certo non poteva
mettersi “contro”.
Del resto per lui che, ex
garibaldino, entrato in Parlamento nel ’76 “prese posto sui banchi della sinistra, ma ben presto,
disgustato dalla mancanza di coesione del partito, finì per avvicinarsi alla
destra”, questa era una
posizione logica.
E così in un momento in cui tante
voci si levavano contro l’assurdità di un’impresa che la Nazione non chiese e non volle -come dirà
coraggiosamente dopo Adua in parlamento l’on. Cavallollotti (2)-,
un’impresa costosa mentre ben altre erano le priorità del popolo (ricordiamo
che mancano solo cinque anni ai tumulti di Milano, dovuti all’ aumento del
prezzo del pane), lui ironizza soavemente sugli abbachisti che “ fanno i conti, con penna e calamaio”
e lamentano l’assurdità e inutilità dei quattrocento milioni spesi per la
guerra, agitando lo spettro del “soldato straniero trascinante la sciabola
sui vostri selciati”.
Ma era lo scotto che doveva
pagare l’uomo di successo per restare tale nel suo ambiente.
E i figli degli abbachisti partivano
e spesso morivano in terre
lontane…(3)
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Monumento ai Caduti a Carcare Ten. Sanguineti -Coatit
|
Leonello Oliveri
Propr. Letteraria riservata
Riprod. vietata
2 ) Può essere utile per evidenziare la distanza fra il
modo di vedere del Barrili e quello dei suoi ex compagni della sinistra
parlamentare ricordare alcuni stralci di questo discorso del Cavallotti tenuto
alla Camera il 15 dicembre del 1895: “Ma in un'impresa che la Nazione non
chiese e non volle, ma siamo andati a cacciarci proprio alle costole delle sole
due potenze militari serie che in tutta l'Africa si trovino: la Mahdista e
l'Abissinia. L'Inghilterra, che è l'Inghilterra, aveva trovato di averne
abbastanza dell'aver che fare con una sola. Per noi, che le cose le vogliamo
fare più in grande,non ce ne volevano meno di due !(..)
Oggi la patria non è in
pericolo: oggi Annibale non è alle porte, né oggi noi siamo di fronte a una
sventura che sia figlia del caso.
(..)
E quando sento dirmi,
che è carità di patria stringerci oggi attorno a voi; no, io rispondo: carità
di patria oggi è il dire che di ordini a quei generali ne avete mandati da Roma
abbastanza ! Troppi più del bisogno ! Ed è carità di patria il mettervi
nell’impossibilità di mandarne loro degli altri! (..).
Maledetta la retorica
che circondava un giorno di inni le
truppe imbarcantisi, versando dileggio sugli onesti ammonitori e che ora
soltanto invoca la calma e «il patriottismo«.”
3 ) E fra questi, anche due provenienti dalla Val
Bormida: uno, Pio Nicola Bonetti di Muraldo, deceduto a Dogali, medaglia
d’argento al valor militare, l’altro, Giuseppe De Rossi di Calizzano, medaglia
di Bronzo al Valor Militare ad Adua: più fortunato riuscirà a tornare a casa.)