sabato 3 febbraio 2024

Universitari a Genova nell’età della Restaurazione: baffi proibiti, obbligatoria la messa

 


Leonello Oliveri



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Giovanni Ruffini (Genova 1807-Taggia 1881) fu un patriota, carbonaro e mazziniano nel
" Patriota in carcere"
(v. Niccolini 1835)
tormentato periodo degli anni successivi al 1821, quando la restaurata monarchia piemontese, poco sensibile agli ideali di rinnovamento portati dalla Rivoluzione Francese, cercava di stroncare ogni tentativo di rendere più moderna e libera la vita nei territori del Regno di Sardegna.

I bersagli di questa politica repressiva furono rappresentati, oltre che da un ristretto ed illuminato numero di aderenti alle forze armate (in genere ufficiali inferiori, non facenti parte della casta), soprattutto dagli studenti delle Università.



Nel gennaio del 1821 si verificò a Torino un grave fatto: in seguito all'arresto di alcuni studenti che si erano recati a teatro indossando un bonnet rouge, un berretto rosso, che fu visto come emblema carbonaro o giacobino, ci fu una protesta di un centinaio di loro compagni all'interno dell'Università. Contro di loro il governatore di Torino, le compte Jgnace Thason de Revel, inviò addirittura l'esercito, sotto forma di carabinieri e truppa (in gran parte appartenenti al rgt. Guardie) che penetrati nell'Università inseguirono e colpirono con sciabole e baionette gli studenti ferendone una quarantina (1). In seguito a questi fatti l’Università fu chiusa per un certo periodo e gli studenti visti come un potenziale pericolo. (Vedi qui)

I moti del '21, e il loro fallimento, provocarono poi un’ulteriore decisa sterzata reazionaria che portò, tra l' altro, all'occhiuto controllo sul paese da parte di governatori militari e alla chiusura delle Università di Torino e Genova, viste come pericolosi covi di contestazione.

Alla lunga, però, le conseguenze negative di una simile decisione non potevano passare inosservate perfino alla Corte Sabauda che, alla fine, fu costretta a riaprirle.

Ma si cercò di fare di tutto, con pesanti controlli sugli studenti -proibito perfino portare i baffi- (2), affinché le Università fossero organiche al sistema e producessero una futura classe dirigente allineata (3) .

Al sopraricordato Ruffini, studente appunto nell'Università di Genova, poi esule a Londra per la sua fede mazziniana, siamo debitori delle informazioni su come funzionasse la selezione degli studenti. Ruffini durante l'esilio londinese compose infatti, nel 1853, un
romanzo in lingua inglese, Lorenzo Benoni, col proposito di far conoscere ad un pubblico straniero la causa italiana ( o meglio, mazziniana) e le sue giovanili esperienze rivoluzionarie a fianco di Mazzini: da questa opera abbiamo tratto quanto presentiamo in questo post.
Per realizzare gli scopi previsti dalle Autorità fu deciso, così scrive Ruffini, di ridurre al
massimo la possibilità che un gran numero di giovani si incontrassero nello stesso posto: a tal fine le lezioni si tenevano non all'Università ma nelle abitazioni, non sempre idonee, dei singoli insegnanti.

Ma prima ancora si cercò di abbassare il numero degli studenti preselezionandoli a monte, beninteso con una selezione di tipo socio-ideologico e non culturale o attitudinale. Il primo provvedimento, ricorda Ruffini, fu quello di creare due categorie di studenti: quelli i cui genitori potevano provare di possedere una certa sostanza in proprietà fondiarie e quelli i cui genitori non la possedevano; gli studenti della seconda categoria avevano un percorso scolastico più pesante e difficile.

Questa scelta fu forse determinata dal fatto (ma è una mia opinione personale) che le Autorità avevano capito che i cambiamenti politici erano sollecitati dalla borghesia commerciale, imprenditoriale, di liberi professionisti, mentre la vecchia classe dirigente, di tradizioni aristocratiche e politicamente più conservatrice, era economicamente basata su risorse prevalentemente di tipo fondiario: e questa era la classe che doveva essere favorita.

Ma questo ostacolo fu superato da molte famiglie (agiate) della borghesia, che trasferirono parte dei loro capitali dal commercio e dall'industria nelle proprietà terriere, al fine di permettere ai loro figli l'iscrizione all'Università e, in prospettiva l'accesso alle libere professioni (principalmente medico, avvocato, notaio). L'unico risultato che fu quindi ottenuto dagli intelligenti strateghi della corte sabauda fu quello di sottrarre capitali al dinamismo delle imprese commerciali ed industriali per immobilizzarlo nei beni fondiari.

Ruffini ricorda poi un secondo provvedimento preso per "garantirsi" una classe di studenti allineati e ossequienti (4): dovevano essere tutti cattolici praticanti.

Nel suo romanzo Ruffini riporta infatti un elenco dei documenti che un aspirante studente universitario doveva a quanto pare presentare per potersi iscrivere all'Università.

Fra questi:
Certificato di battesimo
Certificato di buona condotta rilasciato dal prete della parrocchia dell'aspirante universitario
Certificato di "assiduità agli uffizi religiosi della parrocchia tutti i giorni festivi nel corso degli ultimi sei mesi"
Certificato di confessione mensile durante i sei mesi precedenti
Certificato di confessione e comunione pasquale "secondo il comandamento della Chiesa, all'ultima solennità di Pasqua".

Il certificato di confessione e di assiduità ai doveri religiosi doveva essere rinnovato ogni trimestre.

Tutti i documenti ecclesiastici dovevano esser legalizzati, scrive Ruffini, dalla Curia Vescovile. Ciò si otteneva mediante pagamento, alla stessa Curia, di una tassa di 18 soldi per ogni documento: in totale 4,5 lire (pari al guadagno medio di due giornate di lavoro di un operaio): "quel piccolo tributo, levato su più centinaia di studenti almeno quattro volte all'anno, faceva una somma sufficientemente considerevole di beneficio netto per la Curia Vescovile": così ricorda Ruffini.

Ruffini cita anche l’introduzione del cosiddetto obbligo della Congregazione, cioè "la riunione degli studenti per udire la messa e pregare in comune tutte le domeniche e i giorni festivi"; bastavano due assenze in un trimestre, scrive Ruffini, per non ricevere più l'admittatur che permetteva allo studente la prosecuzione della frequenza: e proprio per motivi legati alla frequenza della Congregazione il protagonista del romanzo fu sospeso per un anno dall'Università.

L'elenco presentato dal Ruffini ben sottolinea l'utilizzo, che non risulta contrastato dall'altra parte, della religione come instrumentum regni: l'istruzione universitaria – e le carriere che ne sarebbero seguite- doveva essere possesso esclusivo di benpensanti praticanti.

Quanto ricordato da Ruffini trova conferma nelle disposizioni prese contro gli studenti delle
Giovanni Ruffini
Università dopo i ricordati fatti di Torino del gennaio 21.

Il regolamento allora promulgato stabiliva infatti severe disposizioni riguardo ai doveri “religiosi” degli studenti: “Anche riguardo ai doveri di religione si presero severe disposizioni e con grande rigore questi si facevano osservare, infliggendo non lieve pene a coloro che mostravansi restii del loro adempimento: il dovere di religione, già considerato dalle costituzioni (universitarie) come il primo ed il più necessario per ottenere l’admittatur, conservò per molto tempo questa capitale importanza e nel 1822 il nuovo regolamento ribadiva le condizioni imposte ai singoli studenti; escludendo inesorabilmente dall’università chiunque fosse mancato agli esercizi spirituali o che avesse tenuto un contegno irriverente.

Si ordinò pertanto che “ogni studente dovesse accostarsi mensualmente al sacramento della Penitenza, adempiere al precetto pasquale e fare nei giorni che venivano assegnati gli esercizi spirituali nell’oratorio dell’Università. Gli studenti dovevano perciò presentare in ogni bimestre al Prefetto dal quale dipendevano le fedi dell’adempimento al dovere della confessione mensile ed a suo tempo far pure constatare dell’adempimento al precetto di Pasqua e di aver fatto gli esercizi spirituali" (art. 14, 31).

Durante le vacanze autunnali di ogni anno scolastico dovevano frequentare con assiduità le funzioni parrocchiali ed accostarsi eziandio in ogni mese al sacramento della Penitenza e far constatare l’adempimento a tal dovere in principio dell’anno scolastico successivo presentando il relativo certificato del Parroco legalizzato dalla curia ecclesiastica (art. 29)”: così scriveva nel 1906 Efisio Giglio-Tos, nel suo libro dedicato ai fatti di Torino (5)).

E perfino al bar gli studenti non erano lasciati tranquilli: “La polizia nei giorni di domenica andava nel caffè delle Indie dove si riunivano gli studenti ed imponeva che cessassero i giuochi leciti per andare in chiesa” (6) come negli statuti medievali!


E così quanto narrato da Ruffini nel suo romanzo trova una conferma (7).

Che poi questi provvedimenti concorressero veramente ad instillare nei giovani autentici sentimenti religiosi, è tutto da provarsi.





Leonello Oliveri



Propr. Lett. riserv.
Riprod. Vietata




1 ) Dott. Efisio Giglio-Tos Albori di libertà Gli studenti di Torino nel 1821 Casa ed. R. Streglio Torino 1906, p. 82. Nel 1871 la figlia di Thaon de Revel pubblicando le carte del padre (Mémoires sur la Guerre des Alpes), alle pagg. XLI-XLII, ricordando questo fatto, scrive che al momento dell’irruzione dei militari nei locali dell’Università ”plusieurs ètudians, voulant fuir, se précipitèrent sur les baionnettes des soldats qui entraient, et se blesserént d’eux mèmes” .

2) La proibizione dei baffi è ricordata anche da G.C. Abba che (in I baffi e il cuore del sig. Saul) ricorda la disavventura capitata ad Alessandria nel 1834 ad un savonese che, passato davanti al palazzo del Governatore sfoggiando appunto un bel paio di baffi, fu convocato all’interno da Sua eccellenza (il famoso Galateri, ricordato anche nelle pagine di Ruffini) che lo fece radere  seduta stante da un barbiere convocato per l’occasione. Nell’800 i baffi, negli anni ’60 (del 900), i capelloni…

3) Per uno di quegli strani collegamenti che fanno, a volte inconsciamente, le nostre sinapsi cerebrali, mi è venuto in mente un brano di N. Chomsky (Chi sono i padroni del mondo, Salani Editore, Milano 2016, pp. 113-14): “In tempi più recenti la militanza degli anni Sessanta indusse le èlite a temere per “l’eccesso di democrazia” e a invocare misure che imponessero una “maggiore moderazione”. Ciò che interessava, in particolare, era introdurre un più severo controllo sulle istituzioni “responsabili dell’indottrinamento dei giovani”: le scuole, le università (..). Uno degli esiti di quest’ansia di controllo è stato il notevole incremento delle tasse universitarie (..). Questo stratagemma consente di intrappolare e disciplinare i giovani facendo leva sul debito che devono sobbarcarsi”.

4)  Mi viene in mente un proverbio giapponese, che recita pressappoco così: “ogni chiodo che spunta va ribattuto”. Ovvero, …tutti allineati e coperti..

5 )   Efisio Giglio-Tos, Albori di libertà Gli studenti di Torino nel 1821 Casa ed. R:Streglio Torino 1906 p. 182 sgg.

(6) ibidem, p. 202.

7 )  C’è da tener presente che Cesare, il fratello di Giovanni, arrestato dalle autorità piemontesi a Genova in quanto mazziniano, si era suicidato in carcere forse per paura di
Stampa raffigurante il suicidio in carcere
del fratello di Giovanni Ruffini
essere costretto a tradire i compagni. Comprensibile quindi che Giovanni, alias Lorenzo Benoni, avesse, per così dire, il “dente avvelenato” nei confronti delle istituzioni sabaude.
Analogamente l’ osservazione di G. Merla, (O bravi guerrieri, Pisa 1988, p. 98 sgg.)) per il quale il romanzo, trasudava “ un feroce anticlericalismo” e non ne condivideva l’impostazione, per così dire, “antipiemontese” (“Il Lorenzo Benoni raffigura la società piemontese coi colori più cupi”) ci pare nel complesso – ma è un’opinione personale- poco condivisibile.