Riproduzione vietata
In un'epoca di chiuso provincialismo, lui, legato d'amicizia con seguaci del giansenismo, scoprì inoltre l'importanza dei contatti con altre realtà scolastiche, con viaggi sia nel più avanzato territorio del Lombardo - Veneto sia in Svizzera e Germania
.Nato a
Varazze il 22 sett. 1778, a 18 anni entrò nella Congregazione delle Scuole Pie
nel collegio di Ovada. Dopo una breve permanenza nel collegio di Carcare, nel
1798 studiò teologia a Genova sotto la guida dell'Assarotti e del Molinelli,
entrando quindi in contatto con gli ambienti giansenistici genovesi che saranno
poi alla base della sua “religiosità antiformalistica e austera”. Come
altri Scolopi, vide con favore l'instaurazione della Repubblica Democratica
Ligure nel '99, anno in cui, ancora chierico, uscì dall'Ordine “pensando
così di poter svolgere più liberamente quella missione di educatore cui si sentiva chiamato” (G. Sarra, Buccelli,
in Dizionario Biografico degli Italiani, pp. 754-756). Nel 1804 “ espresse
il desiderio di rientrare tra gli Scolopi, ma in parte alcune perplessità dei
superiori, in parte gli stessi suoi dubbi” ( ibidem) gli fecero
rinviare l’attuazione del suo proposito: comunque in anno imprecisato e fino al
1809 riprese l'insegnamento nel collegio di Carcare. Dopo la soppressione
napoleonica si trasferì in Toscana,
perfezionandosi nella lingua italiana. Nel 1812, invitato dal Carosio, rettore
del Collegio, “facendo forza sulla sua natura irrequieta” ritornò a
Carcare restandovi per molti anni, intervallando la propria attività di
pedagogo con diversi viaggi, anche all'estero, per conoscere le diverse
metodologie di insegnamento: nel 1820 fu a Friburgo, presso l’Opera della
Gioventù fondata da G. Gerard, allo
scopo di apprendere quella metodologia
scolastica.
Nel 1815 rientrò ufficialmente nell'Ordine “pur
evitando sempre di prendere gli ordini sacri”. Nel '27 il Buccelli sarebbe
stato, probabilmente, il redattore del Prescritto, lettera
circolare “che si richiamava a molte delle istanze teologico-morali del
giansenismo settecentesco”, (Sarra, cit., 755) con la quale l'allora
provinciale degli Scolopi in Liguria, il p. Carosio, voleva ricondurre
l'ordine alla primitiva osservanza delle costituzioni. Il Prescritto suscitò
però l'opposizione di religiosi di Savona e fu ritirato.
Nel '34 “ per desiderio di tranquillità” si ritirò dall'insegnamento trasferendosi ad Ovada dove si interessò al locale ospedale come amministratore, organizzatore ed assistente sanitario. In questa località morì il 18 marzo del 1842. E’ sepolto nel sepolcreto dei domenicani sotto l’abside di S. Maria Delle Grazie e di S. Domenico (Ovada Al.)
Una biografia quindi piuttosto articolata ([1]).
Tra gli allievi del Buccelli ( e quindi dell Collegio di
Carcare) ci fu quel Giuseppe Elia Benza
“che fu tanto vicino negli anni giovanili a Giuseppe Mazzini” (G. Sarra,
op. cit.)
Frutto delle sue moderne concezioni pedagogiche sarà la sua
opera più importante, quella Ragion della lingua per le prime scuole
esposta da un individuo delle Scuole Pie, qualcosa di molto di
più di una grammatica italiana, che vide la luce nel 1824. Lo
spessore e la modestia del Buccelli, ben diverso da tanti "venditori di sé
stessi", si vede già nel titolo in cui non compare il nome dell'autore,
sostituito da un umile "individuo delle Scuole Pie". Eppure
era un'opera veramente nuova, scritta non per esibizione di sapere ma per
offrire un valido strumento a insegnanti e studenti.
Già il punto di partenza (p.10) era assolutamente moderno: la lingua ( ovvero il suo possesso) non deve essere considerata un fine, ma un mezzo: un mezzo, (o almeno, uno dei mezzi) diremmo noi, per una realizzazione -anche sociale- di se stessi: quante più parole possiedi, tanto più precisa sarà la tua possibilità di comunicare (il che oggi, nell’età degli slogan e dei messaggini a 280 caratteri max., non è detto che sia garanzia di successo…).
Nel suo libro la lingua italiana era presentata "sostituendo
il ragionamento alla nuda e inintelligibile autorità". Buccelli
voleva "combattere la noia degli alunni, tarlo mortale delle scuole",
far sì che le regole grammaticali divenissero una scoperta e
quasi una creazione degli allievi: "io ricordar non posso
senza fremito gli amari anni miei puerili sotto la barbarie di quell'
insegnamento dove l'educazione, guidata dal solo timore, consuma il corpo,
affoga l'ingegno e spegne il cuore"… E più avanti "l'idea di far
ragionar il fanciullo è ciò che imprendiamo nel presente metodo, l'unico
mezzo di riconciliarlo della sua antica iracondia colla scuola”. Quello di
far ragionare gli studenti veniva allora considerato pericoloso in molti
ambienti: “Non ignoro, scrive Buccelli a p. 9 ) che ci hanno non poche persone, di cui però si fa
grandissimo conto, le quali (..) stimano per avventura di troppo pericoloso il
principio di far ragionare i fanciulli, siccome quello che includer possa
conseguenze perniciose ed anche fatali per essi”: siamo nel Piemonte della
Restaurazione, tetragono ad ogni istanza di cambiamento..
La sua concezione
della lingua come sistema precorse i tempi: "Generalmente si considera
la lingua come fine e non come mezzo. Occorre invece rintracciare questo filo
che lega la lingua, onde nasce un sistema di idee che si
comprende sotto il vocabolo di grammatica", e altrettanto moderna
fu la consapevolezza (nel 1824!) che gli studenti non sono spugne da riempire,
o spettatori cui esibire la propria cultura, ma persone con tempi e interessi
che devono essere rispettati:" uno degli inconvenienti delle
scuole è obbligare il fanciullo a lavori
generalmente troppo lunghi: occorre un'istruzione fondata sulla
varietà, 1/2 ora leggere, 1/2 dettare, 1/2 analisi etc.". Chissà cosa penserebbe vedendo certe scuole
di oggi, nelle quali gli studenti entrano alle 8 del mattino per uscirne spesso
al pomeriggio!
E ancora (p.11): “ Si osservi i libri che loro pongonsi
in mano e quelli specialmente
fatti per l’erudimento loro: si vedrà che sono composti quasi tutti d’idee
astratte, o, che è lo stesso, fondati
sulla sintesi: tali sono le definizioni e le regole che essi contengono (..)
le quali necessariamente inchiudono una
serie conglobata di giudizi che impossibile è che possa un fanciullo
comprendere: quindi è necessario che ei non intenda”
L'opera suscitò ovviamente un'accesa polemica, tanto da
essere proibita in tutto il Regno di Sardegna) perché conteneva "massime
(..) tendenti ad insinuare nei fanciulli la disobbedienza al Governo, il
disprezzo dei genitori nonché l'insubordinazione e il disprezzo dei maggiori"
(Casati, cit, p. 57), mentre gli Scolopi furono diffidati dal
Magistrato della Riforma degli Studi G. Carlo Brignole Sale dal "continuare
ad applicare nelle loro scuole i metodi del Buccelli, giudicati troppo difformi
da quelli tradizionali in uso nel resto del Regno" (Diz. biogr. degli
Italiani, cit. p. 755). E non c’è da stupirsi per ciò, in quanto siamo negli anni più grigi della
Restaurazione, in uno Stato che era tornato ai tempi, e alle concezioni, precedenti la Rivoluzione francese ([2]),
reduce da poco dalle repressione dei moti
del ’21.
Il Buccelli fu anche autore di una tragedia, Ester¸
che a quanto pare provocò tra l'altro
l'intervento del Vescovo di Savona e del Ministero dell'Interno per aver
portato in scena una donna.
La stessa necessità di un libro di testo pensato per gli studenti si riscontra nell'altra opera
fondamentale del Buccelli, la Gramatica ad uso del Collegio delle Scuole Pie in Carcare per servire spezialmente allo studio della lingua latina, stampata a Torino nel '23. L'affermazione con cui si apre ("sia principal cura del maestro eccitare prima e sempre esercitare nei giovani l'interesse e la curiosità di quegli studi") era necessaria allora ma non inutile anche oggi, considerato quanto spesso in moderne grammatiche i ragazzini quattordicenni vengono scaraventati fin dalle prime pagine in un vortice di isoglosse, sintagmi, lessemi, apofonie etc. "Due sono a nostro avviso - ricordava il Buccelli nel 1823- i difetti dai quali sembra non vada esente niuno dei metodi comunemente usati (nell'insegnare il latino): l'uno è l'esser le grammatiche di troppa mole e farragine, l'altro che in esse non si danno le cose se non per definizioni (..). Si crede generalmente il fanciullo incapace di ragionamento; quindi gli allievi, in fatto di grammatica, si fanno esseri meramente passivi”. E quanta modernità c’è in questa frase (La ragione della lingua, p. 13), che potrebbe suggerire utili riflessioni ad autori di moderne grammatiche: “Quanto irragionevole è il linguaggio delle comuni grammatiche (di latino), i vocaboli delle quali non presentano veruna idea (cioè non significano nulla) al fanciullo (..) ma sono tali che quasi mai nessuno di essi illumina giammai e perciò non è insegnativo. Si prendano per es. i nomi genitivo, dativo, accusativo ablativo e dicasi se in essi il vocabolo illumini e se insegni”.,
Spiegazione
della frase oggettiva
Ecco un esempio del metodo usato dal
Buccelli durante le lezioni, basato su un coinvolgimento continuo degli allievi
in modo che gli stessi arrivino a formulare le definizioni. Siamo a pag. 87,
lezione XII dedicata al "pensiero oggetto" o, come si direbbe
oggi, alla frase oggettiva. La lezione è strutturata in domande e
risposte fra il maestro (M) e gli studenti (S):
M.: attenti, voi, "I fanciulli ben
costumati sanno che non si deve mai fare male a nessuno": quanti
pensieri vi sono in questo discorso? (I fanciulli rispondono). Se io
dicessi "i fanciulli ben costumati sanno" sarebbe compiuto il
mio discorso?
S.: no, non sarebbe compiuto.
M.: perché non sarebbe compiuto?
S.: perché non si saprebbe qual cosa
facciano.
M.: volete dire che mancherebbe l'oggetto
dell'esprimente (= verbo, n.d.A.) sanno
S.: si
M.: adunque quello che sanno è che
non si deve far male a nessuno. E' vero?
S.: si
M.: Adunque l'oggetto
dell'esprimente sanno è un intiero pensiero, non è egli vero?
S.: si
M.: qual è?
S.: che non si deve mai far male a
nessuno
M.: dunque che non si deve mai fare
male a nessuno lo chiameremo pensiero oggetto". Lo
intendete?
S.: Sì, lo intendiamo.
Come si vede , al di là di una
terminologia ovviamente datata ("esprimente" al posto di
"verbo": ma siamo sicuri che fosse peggio?) la spiegazione è
lucida e soprattutto coinvolgente: possiamo assicurare che alcune grammatiche
moderne non sono certo altrettanto chiare.
Ora un
altro esempio: spiegazione della frase causale (p. 71 sgg.)
La
spiegazione parte da lontano, spiegando la differenza fra pensiero semplice e composto,
ovvero, diremmo oggi, fra coordinazione e subordinazione, fra frase principale
e dipendente.
Ecco la
sua “Lezione”.
M. Attenti
fanciulli. Voi parlando potete esprimere una sola cosa, come “non bisogna toccare le spine” oppure due o più cose, come “ Non
bisogna toccare le spine; le spine pungono”. Quante cose dico in questo
discorso?
S. due
cose
M. ditemele
S. Le
spine pungono – le spine non si devono toccare.
M Ora
questi sono due pensieri della mente: le spine pungono è un pensiero,
le spine non si devono toccare è un altro pensiero. Comprendete che sono
due pensieri?
S. Sì
M. Perciò d’ora
innanzi invece di chiamarli due cose, li chiameremo sempre pensieri.
M. Ora
attenti: io non voglio leggere; il
libro è brutto: ditemi; quanti pensieri sono in questo discorso?
S. Due
M. Vi pare
che siano giusti?
S. Si che
sono giusti.
M. Vi pare
che siano bene uniti, ossia vi pare che manchi qualche parola la quale unir
debba questi due pensieri? E sapreste voi trovarla?
S. Io
non voglio leggere, perché il libro è brutto
M. Bravissimo, ora se vi dirò
quale è la causa che voi non volete leggere, che mi risponderete?
S. La causa
che non voglio leggere, è che il libro è brutto.
M. Perciò
chiameremo il secondo pensiero “perché il libro è brutto”, pensiero causale,
perciocché dice la causa, che non voglio leggere: E quale è la parola che
unisce i due pensieri sopraddetti?
S. E’
perché.
M. dunque
nomineremo perché parola unitiva”.
Ecco che, ancora una
volta, gli scolari sono portati, guidati per mano, passo dopo passo, dal
meno al più (p.171) all’acquisizione di concetti logici astratti: da
“cosa” a “pensiero” da “parola che unisce” a “unitiva” (
oggi si chiama congiunzione). Il tutto semplicemente, perché la lingua è,
appunto, ragione ( e la ragione –p. 8) è un “beneficio della
Provvidenza”).
Non si parte dalla regola,
o da definizioni che non appartengono al mondo dei fanciulli, illustrata poi da
esempi, ma si parte da esempi “ quotidiani” per arrivare alla definizione della
regola.
E al riguardo mi viene
spontaneo un confronto con il modo in cui la “proposizione causale” viene
spiegata in grammatiche della fine del secondo millennio: “”Le proposizioni
causali spiegano la causa, il motivo, la ragione reale o pensata di
quanto si afferma nella proposizione reggente es sono introdotte alle
congiunzioni perché, poiché etc”. Nella spiegazione si ricorre a termini
che sottintendono (ma sarà vero?) una pregressa conoscenza del loro
significato: proposizione, reggente, congiunzione. Nella “spiegazione”
di Buccelli questi termini (o i loro corrispondenti) vengono invece
“introdotti” e illustrati direttamente. Un esempio che viene poi utilizzato per la spiegazione: “Poiché
sono in noi senno, ragione e prudenza, è necessario che queste stesse qualità
gli dei abbiano in grado maggiore”, sarà anche ciceroniano, ma ci sembra più lontano dal mondo del fanciullo
rispetto a quelli usati dal Buccelli.
Interessante una sezione
del libro (parte terza, esercizio primo “Per formare il criterio
morale del fanciullo”) dove sono
presentate una serie di domande rispetto alle quali l’alunno deve dire non solo
se “è bene o è male” ma anche, cosa ancora più importante, “perché?”
. Eccone alcune:
M: Mangiare e bere
S: bene
M: perché?
S: perché è necessario
per vivere
M: Mangiare e bere
troppo
S: male
M: perché?
S: perché è peccato e
perché fa male
Ecco altre domande cui
rispondere : bene/male
-
cercare il proprio bene
con danno altrui
-
farsi beffe dei difettosi
-
non pagare il proprio
debito
-
non esser pronto ad
ubbidire ai genitori
-
non ubbidire volentieri al
proprio sovrano
-
tirar su da terra il
bastone ad un vecchio
-
percuotere una bestia, la
quale non ci fa alcun male
Etc. etc.
Un’altra sezione del libro è dedicata a quella che
potremmo definire “educazione civica”, o molto più semplicemente “norme di
buona educazione”, che allora venivano insegnate.
Eccone,
fra le oltre 20 pagine dedicate all’argomento, uno stralcio, con i comportamenti divisi in “meritevoli di trista menzione” e di “buona menzione”.
-La
giustizia altro non è che l’amore che
noi abbiamo verso il prossimo.
E’
meritevole di triste menzione:
-
Rispondere
prima di aver ascoltato
-
condannare
i detti o fatti altrui senza necessità
-
biasimare
alcuno prima di averlo udito
-
dir male
di una persona assente
-
manifestare
senza necessità i difetti altrui
-
fare un
contratto di modo che il compagno dia più di quanto riceve
-
dire
bugie per sembrare più di quel che si è
-
Ingannare
in qualunque modo il prossimo
-
fare con
precipitazione le proprie cose
-
vantare
le proprie ricchezze
-
parlar
troppo
-
impedire
che altri parli
-
dire cosa
per sé inutile
E fra i comportamenti “fisici” da evitare:
-
fare i
bisogni naturali in luoghi pubblici,
massime ai muri dè luoghi sacri,
-
lasciare
di soffiarsi il naso al bisogno
-
aprire il
moccichino dopo soffiato il naso e guatarvi dentro
-
grattarsi
la testa
-
comparire
colla faccia o mani sporche
-
sputare
innanzi ad altri
-
tagliarsi
le unghie davanti a persone oneste
-
guastare
co’ temperini i banchi e le seggiole
************************
Ovviamente il Buccelli era anche figlio del
suo tempo ( e della sua condizione e del suo ambiente, in cui forse non sempre
si trovava a suo agio). Per lui l’istruzione e l’educazione dovevano avere una
componente non solo civile ma anche morale (nel senso di religiosa): “l’istruzione
principale era quella religiosa, e per tutta la vita lottò affinché il modo di
pregare e di insegnare il catechismo fossero secondo le capacità di ogni età”
(Casati, 122). “E’ essenziale, per la Religione - scrive a p. 22 de La
ragione della Lingua - lo incorporare, direi, l’istruzione
religiosa nell’istruzione letteraria. Così veggiamo (parlando di giovani dati
agli studi) che la prima ordinariamente non ha effetto, dove disgiunta vada
dalla seconda, ché dove si insegni pietà da una parte, e lettere da un’altra, mai si insegna pietà ai giovani.
Questo è pertanto il segreto della
scuola cristiana: comporre l’insegnamento per modo che tutto rientri nel religioso interesse”:
del resto era un’esigenza logica
per chi era pur sempre un insegnante di un ordine religioso. Che poi il tutto
portasse ad una maturazione di una vera Fede, è un altro discorso.
Questo concetto viene
ribadito in un’altra operetta del Buccelli, Uno Institutore di belle lettere
a suoi Alunni intorno i libri più usitati di nostra favella, e del modo di
usare il teatro ne' Giovani. Torino, 1829, che così’ viene recensita nel Giornale Ligustico del 1829: ”Autore
di questo lodevolissimo scritto, è un valente Religioso delle Scuole Pie, il P.
Buccelli, Prof. di Rettorica nel Collegio delle Carcare (Provincia di Savona).
I giovinetti scolari, che sono la
speranza della Chiesa e della civil società , vogliono essere
ammaestrati per si fatto modo , che le lettere giovino a farli migliori raddrizzandone i non retti principi , e
correggendo in essi ogni prava inclinazione. Ma questo non può farsi, salvo se
pigliando a guida la dottrina di Gesù Cristo , che sola ò scevra d' errore, e
sola, non distruggendo, sì purificando la natura,, può dare la vera sapienza, e
quella rettitudine, che mai non si apprende perfettamente dalle umane dottrine.
A questo mira l'opuscolo del P. Buccelli ; né argomento più vantaggioso poteva
esser trattato da un savio Institutore” ([3]).
Il profondo e imprescindibile collegamento che esisteva nel Collegio delle Scuole Pie (che era come detto un Ordine religioso) tra istruzione e Religione (la prima doveva essere assolutamente subordinata e delineata nella sua fisionomia dalla seconda) è a mio avviso evidente, per es. da un particolare, esplicitamente illustrato da un provvedimento preso nel 1821 (proprio negli anni del Buccelli) da p. Carosio, rettore del Collegio di Carcare per 38 anni, dal 1798 al 1836. In quell’anno “avendo per l’esperienza di molti anni conosciuto che i giovani dopo le ferie autunnali rientravano di mala voglia in Collegio e che per il troppo prolungato riposo e per la soverchia indulgenza dei genitori, svogliati non potevano più adattasi al cibo (! particolare indicativo?) e alla disciplina e che ingeneravano l’orrore del Collegio a quelli che vi erano rimati, con lettera circolare spedita a tutti i genitori li avvisò che senza grave e comprovato motivo per l’avvenire non avrebbe più permesso ai giovani di passare le vacanze fuori collegio” (p. F. Isola, cit. p. 100). In parole povere ciò significava per i giovani, quasi bambini, diversi anni, nell’età più fragile e importante, in un ambiente che non era quello della famiglia.
Il provvedimento rimase in vigore per una trentina d’anni, poi fu abrogato all’epoca dell’epidemia di colera dopo la guerra di Crimea: “ e così ora purtroppo anche noi, come tutti gli altri convitti, dobbiamo deplorare gli stessi inconvenienti, dei quali lamentavasi il P. Carosio”, scriveva ancora nel 1897 il p. Isola…
E’ un brano che ben illustra quali fossero all’epoca le idee – e i metodi- circa l’educazione dei giovani anche nel Collegio di Carcare. Che poi ciò fosse davvero utile alla maturazione e alla formazione ( anche religiosa) dei giovani, è tutto da dimostrare…
******************
Pedagogo
quindi per certi aspetti precursore, il Buccelli, ma anche uomo che capì che
l'insegnamento "è un esercizio di intelligenza ed amore" ([4]), “ stringere
quasi un nuovo vincolo di parentela che leghi il maestro allo scolare e questo a quello è il secondo bene
che nasce dal metodo divisato”(p. 16), esercizio
nel quale l'insegnante non deve dimostrare ai colleghi quanto è
bravo, ma condividere con gli allievi : amore verso i propri allievi, siamo
nel 1823 e sembra di leggere D. Pennac del 2007, Diario di scuola, 2007, p. 239: “ C’è
un metodo (per insegnare)? Non mancano certo i metodi, anzi, ce ne
sono fin troppi. Passate il tempo a rifugiarvi nei metodi, mentre dentro di voi
sapete che il metodo non basta. Gli manca qualcosa.” “Che cosa gli
manca?” “Non posso dirlo.” “Perché?” “E’ una parolaccia, (..) una parola che
non puoi assolutamente pronunciare in una scuola, in un liceo (..).” “E cioè?”
“No, davvero non posso..” “ Su, dai!” “Non posso, ti dico! Se tiri fuori questa
parola parlando di istruzione, ti linciano.” (..) “L’amore.”
Bibliografia
P. D. Casati,
Il Collegio di Carcare, Grifl, 2007, pp. 113-125
B.T.
Delfino, Buccelli, in Dizionario biografico
dei Liguri dalle Origini al 1990, Consulta Ligure, Genova, 1994, vol. II pp.
292-294;
G. FARRIS, P.
Domenico Buccelli precursore della scuola elementare ed anticipatore della
linguistica moderna, in "Miscellanea duemila", Com. Mont. Alta
Val Bormida, Millesimo, 2000, pp. 41-45;
P. F. ISOLA, Carcare
e le Scuole Pie- Memorie raccolte e ordinate da p. Ferdinando Isola delle Scole
Pie, Savona, 1897;
P. L. Picanyol, Un pedagogista insigne:
P. Domenico Buccelli, Roma 1943;
G. Sarra, Buccelli,
in Dizionario Biografico degli Italiani, pp. 754-756) .
Riproduzione vietata
[1]) Zio di Domenico Buccelli fu il sac. Piero Buccelli, ricordato a Carcare anche perché sulla collina ancor oggi chiamata Buccellina costruì una piccola casa “dalla quale si volle bandito assolutamente il ferro.(..) Per stuzzicare poi la curiosità di chi passasse per quel luogo ed eccitarne l’ingegno all’interpretazione sull’arco della porta scolpì egli stesso queste parole: Parvo Parvi Parva 1815” (P. Isola, Cit., p.47) (e io sadicamente non traduco…)
[2] ) “Il Piemonte, rude come le rocce delle sue montagne, si mostrava particolarmente refrattario ai principi illuminati del sec. XVIII circa l’istruzione elementare (e non solo verso quella, verrebbe da dire). Vittorio Amedeo III non si curava che d’armi e d’armati (per altro con scarso successo..) e si gloriava di stimar maggiormente un tamburino che un letterato: le larve di scuole, che sorsero in questa regione si riducono quasi esclusivamente all’insegnamento del catechismo. il Collegio di Carcare costituì una fulgida eccezione a questo processo oscurantista” (G.Farris, cit., 43)
[3] ) Giornale Ligustico –Scienze, lettere ed arti, anno III, fasc. I, Genn. Febbr. 1829, Genova, p. 586
[4] ) P.F. Isola, cit., p. 160