Leonello Oliveri
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In una lettera di Michele, il savonese che accompagnò Colombo nel suo secondo viaggio, imbarazzante testimonianza sul grande navigatore
Fra i marinai che accompagnarono Cristoforo Colombo nel suo secondo viaggio "alle Indie" c'era anche un altro ligure, anzi, un savonese.
Savonese fu infatti quel Michele da Cuneo (che a quanto pare non sarebbe il Cuneo piemontese capoluogo della Provincia Granda, ma il piccolo insediamento di Cunio, frazione di Segno, comune di Savona) il quale nel settembre del 1493 salpò con Cristoforo nel suo secondo viaggio.
Michele ci interessa non solo perché ligure, ma soprattutto perché di tale viaggio lasciò una relazione, sotto forma di lettera, veramente interessante.
Di lui non si sa molto, e sia la sua persona che la sua opera erano poco note fuori da un ristretto circolo di "addetti ai lavori" colombiani. Dai documenti pare si possa ritenere che Michele fosse figlio di quel Corrado dal quale nel 1474 Domenico Colombo, padre dell'Ammiraglio, comprò quella che sarà considerata, forse un po' ottimisticamente, la "casa dei Colombo" a Valcalda, non lungi da Savona.
Tornato dal viaggio alle Indie, Michele raccontò le sue esperienze di esploratore in una lunga lettera indirizzata a un gentiluomo savonese (o genovese?) altrimenti sconosciuto, tale Hieronimus Annari, che poi in realtà si chiamerebbe (forse) Aimari. La lettera è conservata –in copia e tra altre carte- in un manoscritto chiamato "Manoscritto nero" dal colore della copertina, con la data I novembre 1533, lasciato in dono nel 1780 da tale G. Antonio Zanetti, bibliofilo, all' Istituto delle Scienze di Bologna per finire poi nella Biblioteca dell' Università bolognese, dove è tutt'ora conservata (cod. 4075). Dimenticata fino al 1885 nell'archivio della Biblioteca di Scienze, riscoperta dal Bibliotecario dell'Università bolognese O. Guerrini, nel 1893 fu finalmente risvegliata dal suo sonno di 400 anni da un famoso studioso di Colombo, Cesare De Lollis, che la pubblicò, sia pure con qualche incertezza sulla sua autenticità ("alcune disuguaglianze di stile e qualche inciso di apparente modernità potrebbero far dubitare della autenticità del codice", annoterà scrupolosamente) nel II vol. del Corpus Colombianum edito in quell'anno in occasione del 400° centenario della scoperta dell' America. E' poi merito di Pino Cimò averla riproposta all'attenzione del grande pubblico nel 1991 nel suo libro "Il nuovo mondo. La scoperta dell' America nel racconto dei grandi navigatori italiani del cinquecento", ed. G. Mondadori.
In esso un intero capitolo è dedicato a Michele, definito, con azzeccata espressione, il marinaio "con l'istinto dell' inviato speciale".
Recentemente la lettera, la cui autenticità, forse per la personalità un poco "goliardica" del suo scopritore (basta leggere le sue "Rime di Argia Sbolenfi", pubblicate con lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti), forse – o soprattutto- per il suo contenuto destinato a mettere Colombo in una luce non molto positiva (specie se valutata nell'ottica moderna, il che da un punto di vista metodologico è un errore) aveva come detto suscitato alcune perplessità, è stata oggetto di nuove ricerche: nuovi studi di autori anche savonesi (D. Martini, C. Varaldo, G. Milazzo) hanno intanto dimostrato l'esistenza a Savona, all'epoca di Colombo, della famiglia Da Cuneo, esistenza provata da numerosi documenti individuati dal prof. C. Varaldo nell'Archivio di Stato di Savona, nei quali Michele è citato 44 volte. La famiglia parrebbe poi provenire, secondo lo studio di G. Milazzo, non da Cuneo ma dalla ben più vicina località di Cunio, frazione di Segno (Savona) (1)
Anche il destinatario della lettera troverebbe un'identificazione, secondo G. Milazzo: non un altrimenti sconosciuto Annari, bensì, colpevole un errore di trascrizione, Aimari, famiglia genovese già nota.
Sembra quindi possibile affermare che Michele da Cuneo è effettivamente esistito a Savona, in cui non risulta presente proprio negli anni del viaggio, e che la sua famiglia era in rapporti tali con Colombo da giustificare la sua presenza nel secondo viaggio verso le Indie. Anche se manca la "prova provata" della presenza di Michele tra gli uomini che costituivano gli equipaggi del secondo viaggio, è quindi ragionevole supporre che la sua relazione debba essere giudicata autentica e non la beffa di un bibliotecario burlone: anzi “i dubbi sull’autenticità del testo sono finalmente scomparsi”, è la conclusione di G. Rebora (2).
"Prendemmo femmine 12 bellissime e grassissime"
Dunque il nostro Michele salpa da Cadice il 25 settembre del 1493
imbarcato su una delle 17 navi che costituiscono la flotta con la quale Colombo affronta il suo secondo viaggio verso il nuovo continente. Michele è sulla nave dell' ammiraglio, la
Maria Galante. Accompagnerà Colombo per tutto il viaggio di andata e ritornerà in Spagna con parte della flotta due anni più tardi, dopo aver tanto osservato e tanto annotato.
"Michele da Cuneo -nota il Cimò- aveva l'istinto del reporter e dell'inviato speciale": ed in effetti la lettura della sua relazione, superato lo scoglio della lingua (la "Lettera" venne scritta a Savona da Michele tra il 15 e il 28 di ottobre del 1495) è avvincente e ricca di annotazioni. Ma lasciamo la parola a Michele, con l'avvertenza che il suo "italiano" cinquecentesco è stato da noi in parte "tradotto" e modernizzato, conservando ovviamente il senso, per rendere il discorso più immediatamente comprensibile.
Michele è preciso e pignolo, perfino impertinentemente pettegolo, come quando ricorda, all'inizio, che appena la flotta arrivò alle Canarie "abbiamo fatto tiri di bombarde a salve e lanci di luminarie in onore della signora di dicto loco, della quale una volta il nostro signor armirante ( = ammiraglio, cioè Colombo) fu tinto d'amore"(!). Lasciate le Canarie, dopo 22 giorni di navigazione la flotta è alle Antille. Qui "giunsimo a una isola grossa la quale è popolata di Camballi (=cannibali) li quali come ci videro subito fuggirono alle montagne". Malgrado i "camballi" i marinai di Colombo sbarcano sull'isola (probabilmente l'odierna Guadalupe) e vengono a contatto con gli usi degli indigeni: "In dicta isola prendemmo -ricorda Michele- femmine 12 bellissime et grassissime di età de anni 15 in 16 e due garzoni li quali haveano tagliato il membro genitale in fino al ventre; et questo iudicassimo ( che i cannibali) lo avesseno facto a ciò non si mischiassero (!) cum loro mogliere o per ingrassarli e poi mangiarseli.(..) Noi li mandammo al re di Spagna come una cosa straordinaria": e così i nostri impassibili conquistatori incominciano a fare una raccolta di prodotti tipici locali da inviare in Spagna, persone e cose insieme.
"Lo tirammo sull'orlo della nave e gli tagliammo la testa cum una scure..".
Dopo Guadalupe la flotta di Colombo trova un'altra isola "bellissima et frugifera". Come vedono le navi gli indigeni "fuggirono sulle montagne abbandonando le case, a le quali andassimo et presimo de quello ne piacque". Con queste premesse era ovvio che l'incontro tra i civili europei e i selvaggi indigeni si tramutasse ben presto in uno scontro. Ed anche questo puntigliosamente e freddamente annotato dal nostro cronista: "Un giorno vedemmo venire una canoa sopra la quale erano camballi tre o quatro cum camballe due et Indiani dui schiavi presi (..). Saltammo a bordo ( della nostra scialuppa) e gli demmo la caccia. (..) I camballi ci colpirono con li suoi archi. (..) Catturammo la canoa con tutti li huomini et uno Camballo che era rimasto ferito lo gettammo a mare pensando che fosse già morto. Et lassandolo nel mare per morto, d'improvviso lo vedemmo nuotare: per questo lo presimo et cum la quarnada (un rampino ) lo tirassimo sopra l'orlo de la nave, dove gli tagliassimo la testa cum una scure".
"mi venne voglia de solaciarmi cum lei ma mi graffiò con le unghie"
Dopo aver illuminato con rapidi flash i primi incontri tra europei e indigeni, Michele apre interessanti squarci anche sui primi contatti fra marinai e le donne delle Antille. Il nostro cronista ne ricorda in particolare una, "una Camballa bellissima la quale il signor admirante mi donò". Il "signor admirante" sarebbe Colombo, che dopo aver regalato al mondo un nuovo continente, estese la sua generosità, secondo il racconto di Michele, fino a regalarne le abitanti ai suoi compagni. Michele era un marinaio, e i marinai, si sa, avevano una sorta di reputazione da difendere: cosi, mentre era in cabina con lei,"essendo nuda secondo il loro costume, mi venne voglia de solaciarmi (di divertirmi) cum lei". Peccato che la "camballa bellissima" di solaciarsi non ne volesse sapere: "volendo mettere ad executione la voglia mia, ella non volendo, me tractò talmente con le ungie (=mi graffiò con le unghie) che alhora non voria havere incominciato".
Ma Michele, assai navigato, sa perfettamente come si deve trattare una signora: "per dirvi la fine di tutto, scrive candidamente il nostro cronista, presi una corda et molto ben la strigliai, per modo che faceva cridi inauditi che mai non potresti credere"
E come finì la faccenda? E' lo stesso Michele a ricordarlo, immaginiamo compiaciuto: " alla fine fussimo d'accordo in tal forma che vi so dire che nel facto pareva amaestrata a la scuola de bagasse". E con questo termine così tipicamente ligure cala il sipario sulle doti di conquistatore del nostro Michele e sui primi contatti dei rappresentanti della cristiana civiltà europea con i selvaggi indigeni centroamericani.
La flotta arriva infine ad Monte Santo (=Haiti) dove, nel primo viaggio, Colombo era stato costretto a lasciare 38 uomini, l'equipaggio della Santa Maria ivi perduta il giorno di Natale del 1492: appena sbarcati, però, Michele e i marinai trovano i loro compagni "tutti morti stesi ancor per terra senza ochi; li quali stimammo li havessino mangiati per ciò che come hanno decollato qualcuno di subito li cavano li occhi et li mangiano ": colpevoli di ciò erano gli indios " del signore delle montagne chiamato Goacanoboa, il quale li ha morti et robati per suo dispecto".
"Una nave carica di schiavi"
Intanto per una parte della flotta di Colombo si avvicina il momento di tornare in Spagna. Ma non torna con le stive vuote: l'oro, bramosamente cercato da Colombo, "per lo quale maxime havea intrapreso tanto viazo pieno de tanti pericoli", non era stato trovato che in quantità irrisoria. Occorreva fare un carico che in qualche modo compensasse la spedizione delle spese sostenute. In mancanza di meglio, anche gli schiavi andavano bene. Ed ecco il freddo resoconto della prima tratta di schiavi effettuata dai bianchi a danno degli indigeni centroamericani: "Radunammo nel nostro villaggio, ricorda Michele, 1600 persone tra maschi e femmine de quelli Indiani, dei quali tra maschi e femmine dei migliori caricammo suso dicte caravelle, a lo 17 de febraro 1495, 600 anime ("anime": quale inconscio substrato psicologico può aver spinto il nostro Michele a usare comunque questo termine per definire degli schiavi-oggetti strappati al loro mondo?): del resto che avanzavano andò un bando (=fu fatto un ordine) che chi ne voleva ne prendesse a suo piacere".
Prima della partenza delle navi tre indigeni riescono a fuggire, malgrado i ceppi che bloccavano loro i piedi: " la notte tra loro si seppero così bene rodere l'uno l'altro le calcagne cum li denti che uscirono da dicti ceppi et se ne fugirono", ricorda con una indifferenza che forse cela l'ammirazione il nostro cronista.
Poi le navi salpano (mentre Colombo rimane nel Mare delle Antille col resto della flotta) e iniziano la lenta navigazione che le avrebbe riportate in patria. Ma il tempo era pessimo, i venti contrari. Per tre volte le navi pendolano con il loro carico dolente fra le isole centroamericane, prima di poter puntare la prua sull'isola di Madera: "essendo noi pervenuti nel mare di Spagna, morirono de li dicti Indiani, credo per lo insolito aere più fredo che il loro, persone circa 200, li quali getassimo nel mare. (..) Tosto poi intrassimo in Cadexe (Cadice), nel qual luogo discaricassimo tuti li schiavi, li quali erano mezo malati".
Così Michele ricorda l'esito di quel viaggio e così era finito il secondo incontro tra l'uomo bianco europeo e quegli indios che pure, come scrisse Michele Da Cuneo,"venivano a trovarci como se fussimo stati loro fratelli, dicendo che eravamo homini de Dio venuti dal cielo". “Selvaggi” che, di fronte alle violenze del bianco, trovavano la dignità di ricordare "al signor armirante", "mostrandoli col dito il cielo, che Dio era in cielo, lo quale faceva ragione a ogni homo et che chiamava iusticia davanti a lui con il tempo".
E così Colombo nel secondo viaggio si trasforma, nel reportage di Michele da Cuneo, da esploratore a razziatore e mercante di schiavi: e anche se l'Ammiraglio non era sulle navi che tornarono in Spagna cariche di schiavi, è difficile pensare che ciò sia stato fatto a sua completa insaputa. Tale fatto, non sempre ricordato dagli agiografi colombiani, non era comunque ignoto agli studiosi: già nel 1964 R. Konetzke (Scoperte e conquiste nelle terre d'oltremare, I Propilei, Grande storia universale Mondatori, VI, 616), aveva scritto che "effettivamente Colombo inviò più volte gruppi di indigeni americani in Spagna affinché fossero venduti come schiavi". Del resto lo stesso Colombo, nel memoriale redatto dall'isola di Isabela il 30 gennaio 1494 e consegnato al comandante Torres incaricato di informare i reali di Spagna sul suo secondo viaggio nelle Indie, suggerisce espressamente la possibilità di catturare gli indigeni nelle isole delle Antille ed esportarli come schiavi per pagare le merci necessarie ai coloni.
Se la relazione è –come ormai pare - autentica, e a meno che Michele da Cunio non si sia inventato tutto, quella di Colombo "schiavista" sembra quindi essere tutt'altro che una favola. Sarà forse per questo che “rimane inspiegabile il fatto che (la relazione di Michele) sia rimasta sconosciuta per secoli e secoli”, come nota P. Cimò (3). Ciò non basta certo a demonizzare la figura di Colombo, il cui agire deve essere giudicato non con la nostra mentalità ( ed è questo l’errore fatto in alcuni commenti recenti) ma secondo gli standard dell'epoca, quando ancora nella sua città c’erano schiavi ) (4), ma forse non è proprio il caso di proporne - come talora si lesse- la canonizzazione (5).
Occorre comunque ricordare che già nel 1496 i monarchi spagnoli fecero sospendere il commercio degli schiavi americani e nel 1500 ne vietarono legalmente il trasporto in Spagna o in altre regioni. Infine nel 1542, con le Leyes Nuevas promulgate da Carlo V, forse anche in seguito alle continue sollecitazioni di alcuni domenicani, tra i quali Bartolomè de Las Casas, la Spagna chiuse l'infame commercio di carne umana. Però in seguito all' opposizione dei coloni, tre anni dopo la parte più importante della legge, quella che proibiva il famigerato procedimento dell'encomienda,( struttura organizzativa agricola fondata su un sistema schiavistico-feudale, principale causa dello sfruttamento dei nativi) verrà eliminata: nel 1552 arriveremo così alla più forte denunzia delle atrocità commesse dagli spagnoli contro gli indios, la pubblicazione della “Historia o Brevisima relacion de la destruccion de las Indias", diBartolomeo de las Casas, “ la più tragica e la più orribile Istoria, che da occhi humani, nella grande scena del Mondo, fosse veduta giamai” (6) A questo frate domenicano spagnolo, che tanto, ma invano, si prodigò per mettere un freno alle uccisioni, dobbiamo testimonianze agghiaccianti sulle violenze dei suoi compatrioti contro gli indios.
Guardiamo per es., cosa fecero i conquistadores a Hispaniola, Haiti.
"Li legavano
su graticole fatte di pertiche e accendevano sotto un fuoco lento"
Gli Spagnoli “[5]Facevano scommesse à chi con una cortellata fendeva un uomo in due
pezzi, ò gli tagliava la testa d'un colpo: ò gli discopriva le viscere.
Pigliavano le creature dalle tette delle madri per li piedi, e le percotevano
con la testa nelle rupi. Altri le gittavano con le spalle ne i fiumi,
ridendosi, e burlando, e mentre cadevano nell'acque dicevano, bollite corpo del
tale. Altre creature mettevano à fil di spada, insieme con le madri, e con
tutti quelli, che si trovavano innanzi.
[6] Facevano alcune forche cosi lunghe, che arrivassero quasi à terra
con li piedi, e di tredici in tredici in honore, e riverenza del nostro
Redentore e delli dodici apostoli, mettendovi sotto legne, e foco, gli
abbruggiavano vivi.
[7] Ad altri circondavano tutto il corpo di paglia secca legandovegli
dentro, e attaccandovi il fuoco; e cosi gli abbruggiavano. Ad altri, &
erano tutti quelli, che volevano pigliar vivi, tagliavano ambedue le mani; e
gliele facevano portar attaccate; e dicevano: andate à portar lettere: cioè;
portate le nuove à quelle genti, che sono fuggite ne i monti.
[8] Per ordinario uccidevano li Signori, & la nobiltà in questo
modo. Facevano alcune graticole di legni sopra forchette, e ve gli legavano
sopra, e sotto vi mettevano foco lento: onde poco à poco, dando strida
disperate in quei tormenti, mandavano fuori l'anime.
[9] Io vidi una volta, ch'avendo sopra le graticole quattro, ò cinque
principali Signori ad abbrugiarsi, & anche penso, che vi erano due, ò tre
paia di graticole, dove abbrungiavano altri, & perche gridavano fortemente,
e davano fastidio, ò impedivano il sonno al capitano, (non è Colombo, siamo anni dopo) commandò che gli strangolassero: & il
bargello, che gli abbruggiava, il quale era peggiore, che un boia; & so come si chiamava, e conobbi anco i
parenti suoi in Siviglia, non volle affogarli: anzi, con le sue mani pose loro
alcuni legni nella bocca, perche non si facessero sentire, & attizzò il
foco finche si arrostirono pian piano, com'egli voleva. Io vidi tutte le cose
sopradette, & altre infinite.

[10] E perche tutta la gente, che poteva fuggire, si serrava nelle
montagne, & ascendeva nelle ruppi, fuggendo da huomini tanto privi
d'humanita, così empij, e così feroci bestie, estirpatori, e capitali nemici di
tutto il genere humano, avezzarono, & ammaestrarono alcuni cani da porci
ferocissimi, che vedendo un Indiano in un credo lo facevano in pezzi: & più
volentieri l'assaltavano, & se lo mangiavano, che se fosse stato un porco.
Questi cani fecero straggi, e becarie grandi.
11 Et perche alcune volte, se ben rare, e poche, gli indiani
ammazzavano alcuni Christiani con giusta ragione, fecero una legge frà loro,
che per un Christiano, che gli indiani ammazzassero, li Christiani dovessero
ammazzar cento Indiani. (7)
Una pagina interessante di un libro atroce, la cui lettura riteniamo non inutile a quanti sostengono sempre e comunque l'identificazione dell'Occidente con la civiltà (e ovviamente il resto come mondo da assimilare e incivilire)!
Nel gennaio del 1992, in occasione del quinto centenario della scoperta dell'America, una delegazione del Comitato Colombiano Savonese si è recata nell'isola di Saona, ora appartenente a Santo Domingo, per celebrare un gemellaggio tra le due Savona: nell'occasione è stato donato all'isola (lunga 22 km. e larga 5) un generatore di corrente. Fra la popolazione dell'isola non c'erano però discendenti dei Taino incontrati da Colombo, tutti sterminati, con uccisioni, maltrattamenti e malattie, dagli spagnoli: in compenso i suoi attuali 500 abitanti discendono, in buona parte, da un'altra vittima della "civiltà" dell'uomo bianco: gli schiavi neri importati fino al XIX secolo.
E la prossima volta che si vuole festeggiare il Columbus Day ricordiamo che quella data, se per l'occidente segna la scoperta di un nuovo mondo, per i suoi abitanti segnò l'inizio del genocidio.
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Statua di Colombo abbattuta nel Wisconsin nel 2020:
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1) G.
Milazzo, Michele da Cuneo e l'isola
di Saona, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova, fac. di Lettere, a.a. 92/93, pp.67: " anche
se non è provato da documenti originali che un Michele da Cuneo, Savonese,
abbia fatto parte dell'equipaggio che partecipò al secondo viaggio di Colombo
(non essendoci pervenuta la lista dei marinai componenti quella spedizione), è altresì certo che attorno agli
anni compresi fra il 1448 e il 1503 visse a Savona un Michele da Cuneo, figlio
di quel Corrado che nel 1474 aveva venduto una casa al padre di Cristoforo
Colombo, Domenico: le probabilità che Michele da Cuneo abbia effettivamente
preso parte alla spedizione del 1493-96 sono dunque elevatissime".
Nell’articolo vengono citati nuovi documenti pubblicati da C. Varela e I. Aguirre, La caida de Cristobal Còlon, Madrid 2006 al cui riguardo leggiamo, nell’articolo di F.Tortora pubblicato il 21 luglio 2006 del Corriere, (http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/07_Luglio/21/colombo.shtml) “ Dalle 46 pagine di questi documenti, non solo Colombo, ma anche i suoi fratelli Diego e Bartolomeo, appaiono sanguinari tiranni, senza alcuno scrupolo morale. Tra le altre cose essi vietavano che i nativi del luogo fossero battezzati, così come i figli degli schiavi. «Il nuovo ritratto del navigatore», conclude Varela, «mostra un uomo fortemente avido e ingiusto e che purtroppo per sette anni inflisse dure pene ai suoi sottoposti e che fu destituito giustamente dal suo incarico di governatore delle Indie occidentali».
6) G. Castellani,
nella sua traduzione a Bartolome de las Casas (1474-1566), Istoria o
Brevissima relatione della distruttione dell'Indie Occidentali conforme al suo
vero originale spagnuolo gia stampato in Siviglia di Bartolomeo dalle Case, o
Casaus tradotta in italiano dall. eccell. sig. Giacomo Castellani già sotto
nome di Francesco Bersabita. In Venetia : presso Marco Ginammi, 1643
(reperibile in Internet, Liber Liber, progetto Manunzio.G. Castellani,
nella sua traduzione a Bartolome de las Casas (1474-1566)
7 ) ibidem. Riteniamo
interessante presentare anche alcune righe che l’ eccell. sig. Giacomo
Castellani antepose alla sua
traduzione:
(..) Vederanno i Sommi Pontefici, come sotto il
pretesto delle giuste concessioni, da' loro predecessori fatte alli Rè di
Castiglia, accioche procurassero la conversione de gli Indiani alla fede di
Christo, per riempire le sedie vacanti del Cielo, siano state precipitate
migliaia, e millioni d'anime nel baratro dell'Inferno(..).
Impareranno coloro, che persuadono i Prencipi à volere,
con gli esserciti, e con l'armi, tirar per forza i popoli alla religione
Christiana, quanto sia perniciosa questa loro dottrina. (..)
Non sia alcuno, che si scandalizi per sentir ad ogni
passo à dire:gli scelerati Christiani ammazzano, distruggono, abbruggiano,
rubbano, assassinano, ò cose tali, quasi che ciò sia detto in onta, e
dispreggio della Christiana religione; perche l'auttore pijssimo, e
religiosissimo non hebbe giamai tal pensiero; mà solamente di detestare le
pessime operationi di quei tristi, solo di nome Christiani, che, contra tutte
le leggi della Santa Christianità, distrussero quei paesi dell'Indie (..).
Leonello Oliveri