venerdì 26 gennaio 2024

LA PESTE DEL 1631 IN VAL BORMIDA

 

Leonello Oliveri

"a bello, fame et peste libera nos Domine!
''per le terre della Diocesi delle tre parti sono morte le due"(1)

 


"A bello, fame et peste libera nos domine”! E la Val Bormida del XVII secolo provò tutti questi flagelli. Cominciamo dal primo, la peste.


Fra il 1618 e il 1648 l'Europa settentrionale fu devastata da una lunga guerra fra Francia e Spagna (e loro alleati), passata alla storia col nome di "Guerra dei trenta anni".
Essa sconvolse anche la Val Bormida, la cui posizione geografica, a cavallo della strada che univa i possedimenti spagnoli della Lombardia con il mare (e quindi con la Spagna) la fece diventare teatro di battaglia e di saccheggi per gli eserciti di tanti stati: non solo Spagna e Francia, ma anche Ducato di Savoia, Repubblica di Genova, Marchesato del Monferrato, Ducato di Mantova.


E furono proprio questi saccheggi e devastazioni (equamente suddivisi per tutta la zona), protrattisi per trenta anni, ad impoverire fortemente la valle, portando i suoi abitanti alla miseria e alla fame.
Fra le conseguenze ci fu anche un crollo delle difese immunitarie della popolazione che favorì il diffondersi di una grave forma epidemica di peste.

Questa terribile epidemia, figlia della guerra, della miseria e dell'indebolimento della popolazione (2), sconvolse tutta l'Europa settentrionale ed arrivò anche nelle nostre terre, dove tracciò un solco profondo di sofferenze e di morte.

Mancano, a quanto mi risulta, ricerche specificatamente dedicate alla caratteristiche ed alle conseguenze dell'epidemia di peste del 1631 nell'area valbormidese. Praticamente ogni libro di storia locale ha comunque le sue pagine, più o meno documentate od immaginifiche, nelle quali l'epidemia di peste viene presentata, talora in verità con un certo indulgere alle tinte forti e ai toni da giudizio universale, con il risultato di calcare le tinte e di presentarla in modo ancor più grave di quanto fu in realtà.


Sovente manca però in tali pagine, ed è questa la lacuna più grave, qualsiasi oggettiva quantificazione numerica del fenomeno e qualsiasi correlazione fra la situazione di paesi diversi ma appartenenti allo stesso ambito geografico.
Ci pare quindi opportuno iniziare una prima ricerca sulle caratteristiche, per l'appunto innanzi tutto quantitative, che l'epidemia assunse in Val Bormida, proprio anche perché, come ricordato, se è vero che sulla peste tanto si è scritto, è altrettanto vero che in non pochi casi si tratta solo di cenni i quali altro non fanno che fissare su carta notizie più o meno reali o fantastiche tramandate da una tradizione orale o folcloristica che ha sovente perso ogni legame con la realtà.
Nell'impossibilità di fidarsi completamente delle tradizioni locali, alle quali va comunque riconosciuta una certa validità come punto di partenza, occorre quindi rifarsi ai pochi documenti rimasti, che sono offerti in prevalenza dagli archivi parrocchiali e dai registri (quelli dei battesimi, dei matrimoni e dei morti) in essi conservati; si tratta però di dati incompleti sia perché, ovviamente, anche i parroci potevano essere colpiti dalla peste - nel qual caso le annotazioni si interrompevano - sia perché molti di tali archivi furono saccheggiati dalle truppe francesi nel 1794-99, e i documenti dispersi o distrutti.
Oltre a questo tipo di documentazione c'è anche, assai minore sia come qualità che come attendibilità, quella costituita da suppliche o relazioni preparate dalle autorità comunali dei paesi colpiti dall'epidemia: meno attendibili, si è detto, perché in esse è possibile che gli effetti della peste, o anche semplicemente le descrizioni della miseria dei singoli paesi, siano stati amplificati nella comprensibile speranza di ottenere non sovvenzioni a pioggia, ma almeno sgravi e facilitazioni fiscali.
In ogni caso i dati di cui disponiamo danno comunque un'idea dell' impatto che la pestilenza del 1631 ebbe sulle popolazioni valbormidesi.


La peste nella valle

Nella Val Bormida l'epidemia - che in Italia Settentrionale durò dal 1629 al '33, col suo culmine nel '30 (la famosa peste accuratamente descritta dal Manzoni nei "Promessi Sposi" e prima ancora dal Ripamonti) - arrivò in due ondate, una nel 1630, la seconda, più devastante, l'anno successivo. Nel 1630 furono colpiti, nell'alta Val Bormida, pochi paesi, (Biestro, Altare, Piana) con un numero di decessi significativo rispetto alla media annua ma non elevatissimo; ben più grave sarà invece l'epidemia del '31, che infierì, per di più, anche su paesi in cui era già apparsa l'anno precedente.

La prima località per la quale troviamo dati significativi è il centro montano di Biestro; qui, come si è detto, la malattia arrivò nel 1630, facendo nel solo mese di agosto 32 morti (3): Il dato assoluto di per sé non avrebbe alcun valore, se non si tiene presente che la media annua dei morti era, in quel paese e in quegli anni (1624-1629), di 8/9 decessi, mentre la popolazione ammontava (nel 1654) a 320 persone: la peste eliminò quindi in un mese il 10% degli abitanti!

Altri dati sono disponibili per Altare, al cui riguardo i registri conservati nel locale Archivio Parrocchiale ci forniscono diverse informazioni sull'evoluzione del contagio: i primi decessi si ebbero nel 1630, anno che vide 81 morti contro una media di 27-30 del periodo precedente ([4]). L'accresciuta mortalità non venne però probabilmente identificata con la peste, mancando nei registri parrocchiali ogni annotazione al riguardo.
L'anno successivo non fu invece più possibile farsi illusioni, il contagio era penetrato nel paese e la peste fu riconosciuta come tale: i decessi, concentrati nei mesi estivi, salirono a 106 (in un paese di neppure 800 abitanti) ([5]) e in almeno 57 casi il parroco nel regi-
strare i nomi sul liber defunctorum precisò "mortuus morbo pestis", morto di peste. Il contagio ebbe uno strascico anche nel 1632, quando il morbus pestis è ricordato come la causa di due decessi.

Ad Altare, come in altri centri, la peste lasciò conseguenze sull'andamento sociodemografico: i matrimoni, nel 1631 scesero a 6 contro una media annua di 12-13, le nascite si ridussero a 32 di fronte alle 48-54 degli anni "normali ([6]).
Conseguenze ci furono anche nei rapporti sociali, almeno a giudicare dai tre omicidi che avvennero nel paese, non sappiamo per quale motivo, fra l'aprile e il luglio di quel tragico 1631 ([7]).

In altri centri della Val Bormida la malattia arrivò con un anno di ritardo rispetto a Biestro ed Altare, ma il passare dei mesi non ne aveva certo diminuito l'aggressività.

Un esempio tipico al riguardo è quello fornito da Calizzano, per il quale, fra l'altro, abbiamo informazioni provenienti da un ventaglio di fonti diverse e, talora, curiose.

La peste a Calizzano

Il primo accenno alla peste in Calizzano è riscontrabile in alcuni atti notarili del 1628.
Da essi sappiamo che in questo paese una prima ondata di epidemia arrivò appunto in quell'anno, tra il luglio e l'agosto, allorché morirono "di condizione pestifera" Luigi Gorreto e i due figli di A.Vivaldo, mentre altri abitanti vivevano "accabanati", cioè accampati all'aperto, in quanto "suspecti et confinati propter mortem eorum filiorum" ([8]).

Per trovare traccia della pestilenza del 1631 occorre invece andare in lontani archi vi, addirittura in Francia, a Parigi, dove è conservata, al Musèe de l'Armèe, una di quelle relazioni, risalente al 1808, degli Ingegneri Geografi francesi, citate in un post precedente.
Essa ricorda appunto che nel 1631 "vi fu una peste così terribile in questo luogo che cagionò la morte di 400 e più persone. Molte famiglie si trasferirono in altri paesi". Se gli archivi lontani parlano, quelli locali sono invece quasi muti; l'archivio parrocchiale di Calizzano non offre infatti testimonianze dirette ed esplicite della peste.
Alcuni registri contengono però accenni al "male contagioso che fa progressi nei paesi vicini" ([9]), mentre altri presentano delle lacune fra il maggio del 1631 e il marzo del 1633, che potrebbero essere collegate con sconvolgimenti determinati dalla pestilenza.
Annotazioni risalenti al 1640, "libro degli ordinati", ricordano infine il 1631 come "tempo di peste".

Una testimonianza curiosa ed interessante ci è invece offerta da una mappa acquerellata risalente al 1652. Essa rappresenta il borgo di Calizzano visto a "volo d'uccello": a monte del paese, sulla strada d'accesso, è chiaramente disegnata una sorta di barriera costituita da un'intelaiatura di travi in legno posta di traverso rispetto alla strada. L'iscrizione che correda la carta definisce questa costruzione come "Rastrelli fatti da quelli di Calissano nel loro territorio per il sospetto del contaggio per travazzare (far passare) sicuramente le vettovaglie".
Il "rastrello"  di Calizzano


Si tratta quindi di una di quelle barriere, antesignane dei nostri caselli autostradali, che le autorità sanitarie dell'epoca predisponevano nel tentativo di bloccare la diffusione della peste. Essa era controllata da personale apposito, sistemato nelle vicinanze (e infatti la cartina presenta quattro guardiole alle estremità del "rastrello'') con l'incarico di far passare solo chi avesse l'apposita "bulletta" certificante la provenienza del viandante o delle merci da luoghi non infetti.


Un' altra testimonianza indiretta della presenza della peste a Calizzano, e del suo allargarsi, proprio partendo da questo centro, sui paesi della costa, ci è fornita da un interessante documento riportato dal Silla nel suo studio su Finale ([10]); esso ricorda come in questo ultimo paese la peste fosse stata portata "dal tercio (reggimento) appestato di fiorentini e per il ritorno del Muto di Bardino impestato da Calizzano, ove esso mutto serviva per monatto".
La tradizione locale, poi, raccolta negli anni a cavallo della II Guerra Mondiale dal parroco don Suffia, e nella quale possiamo trovare una labile traccia di quanto successe, indica che a diffondere la peste a Calizzano sarebbe stato un sellaio di Garessio, colto dal male fuori dalla porta di S.Rocco, mentre la stessa tradizione ricorda ancora il luogo dove sorgeva il lazzareto, fuori dall'abitato, "in vicinanza dell'olmo, nella località degli orti'([11]).
Una testimonianza indiretta è offerta anche da un'iscrizione presente su un quadro esistente nella cappella di S. Rosalia (venerata come protettrice dalla peste!): il dipinto raffigura un carro carico di cadaveri mentre altri cadaveri sono stesi a terra. Nel quadro è presente la seguente iscrizione: "1631, mentre la peste assaliva Calizzano,essendo stato fatto dal popolo un voto alla beata Vergine Maria e a S. Rosalia, ed essendo stato liberato (dal contagio), realizzò a ricordo di questa grazia un quadro ed una cappella nel 16..”([12]); il carro carico di cadaveri pare comunque essere un tipico esempio di esagerazione ed amplificazione di una pestilenza che invece probabilmente, non fu così devastante, visto che la stessa iscrizione ricorda che il popolo fu liberato dal contagio.
E altrettanto "improbabilmente catastrofica" appare, come è stato opportunamente notato ([13]), la testimonianza, anche a nostro avviso esagerata, secondo la quale "nell'anno di grazia 1630 in questo borgo di Calizzano scoppiò una terribile epidemia seminando
ovunque la morte. Il letto del Bormida per un quarto di lega era seminato di cadaveri giacenti alla rinfusa. Solo due famiglie si salvarono rifugiandosi nelle montagne e queste famiglie sono la famiglia Nari e la famiglia Ferrando" ([14]): a prescindere da ogni altra considerazione basta osservare che se così fosse la maggior parte dei cognomi esistenti a Calizzano (tranne due e pochi altri eventualmente rientrati dai paesi vicini) avrebbe dovuto estinguersi ed essere sostituiti da altri. È sufficiente invece un semplice controllo incrociato, per esempio fra gli Statuti del 1602 e l'elenco telefonico, per constatare che dei 9 cognomi testimoniati nel 1602 (quelli dei componenti l'allora "Consiglio comunale'') 6 nel 1993 erano ancora presenti sull'elenco ([15]).

Ci pare quindi di poter concludere che anche a Calizzano è apparsa la peste, ma che essa ha colpito con una forza minore rispetto ad altri centri.

"Circondati dal morbo contagioso ... "
Scendendo da Calizzano lungo la valle, troviamo poi testimonianze del diffondersi della peste a Millesimo.
Qui il locale archivio parrocchiale presenta solo tracce indirette del contagio, mancando il "Registro dei Morti": dal superstite "Libro della nascite e battesimi 1596-1635" veniamo comunque a sapere che anche in questo paese il 1631 fu "tempo di peste"([16]).
Pur non conoscendo con precisione l'ampiezza che il contagio raggiunse a Millesimo, un dato indiretto ci conferma che esso fu comunque diffuso: di fronte, infatti, ad una media annua di nascite oscillante intorno a 25/30, nel 1631 esse furono solo 16 e di queste solo 5 nel periodo aprile/dicembre, quando più infuriava, almeno nei paesi vicini, la pestilenza.

Una labile testimonianza anche a Cosseria, dove la mancanza del "Registro dei morti" non ci offre la possibilità di confronti diretti: ma anche per questo paese il superstite "Registro dei Battesimi" (che, e forse non è un caso, inizia dal 1635) segna un progredire delle nascite man mano che ci si allontana dall'anno della peste: 14 battesimi nel 1635, 24 nel '36, 25 nel '37, 29 nel 1638.

Dati indiretti anche a Murialdo. Qui, infatti, i registri parrocchiali non hanno nessuna citazione diretta della presenza di un'epidemia di peste. Confrontando però il numero dei decessi annuali, si riscontra che, di fronte ad una media di 50, essi salgono a 64 per il 1630 e 1631. Contemporaneamente le nascite scendono dalle 40 del 1629 alle 28 del 1630, per poi risalire addirittura a 67 nel ’32 ([17]). Parrebbe quindi che l'epidemia abbia colpito anche questo paese, ma in modo, tutto sommato, piuttosto blando.

La peste a Carcare
Disponiamo invece di informazioni più precise per Carcare, dove possiamo quantificare l'ampiezza raggiunta dalla malattia grazie alle informazioni fornite dall'Archivio Parrocchiale: in esso esiste infatti una testimonianza scritta lasciataci da don Giò. Giacomo Barbieri, che successe come parroco al suo predecessore vittima della peste. Così lasciò scritto, su un registro dell'archivio parrocchiale, il nuovo

parroco: "L'anno del Signore 1631, restando vacante la chiesa della Carcare per la morte del p. Francesco Berruti, curato, che se ne morì di peste nel mese di luglio - periodo circa il quale tutte le informazioni concordano nel riscontrare il maggior picco dei decessi - ci andai al (parola incomprensibile) e ne ebbi l'approvazione e ne spedii le bolle pontificie prendendo il possesso in vista d'esse il dì ... di marzo del anno 1632 restando il loco purgato e ben netto dal contaggio dell'anno 1631 antecedente, per il quale sono morti tra grandi e piccoli (?II?)cento settanta persone in circa. Giò. Giacomo Barbieri Curato"([18]).

L'epidemia di peste dovette esaurirsi, a Carcare, nel 1632, e questo dato è confermato anche da una annotazione del "Libro dei Matrimoni"([19]).
Lasciò però, oltre ai morti (170 o 270? su una popolazione di ca. 750 ab.), una popolazione stremata, sulla quale si .ripercossero per anni le ripercussioni della malattia: ancora nel 1634 i matrimoni furono 3, nel 1635 uno: prima del contagio, i "fiori d'arancio" erano almeno una ventina all'anno.

Le gravi conseguenze dell'epidemia a Carcare sono indirettamente confermate da un documento concernente Pallare, dal quale apprendiamo le preoccupazioni esistenti in quel paese per il possibile diffondersi in esso della peste.
A Pallare, il 28 luglio 1631, si radunano tutti i capi famiglia i quali "vedendosi in pericolo grave e circondati dal morbo contagioso, il quale per sua crudeltà horamai ha estinto il luogo delle Carcare" e non sapendo cosa fare, decidono di ricorrere all'intercessione divina, ricostruendo la cappella di S. Sebastiano, precedentemente distrutta da un'inondazione, essendo detto Santo" protettore sopra il morbo contagioso" ([20]): che poi tale misura profilattica abbia funzionato, non è detto a sapersi; certo non poteva fare più male di altre.

La peste a Cairo
Dati precisi anche a Cairo, in grado di quantificare in tutta la sua drammaticità il fenomeno: di fronte a una media annua di decessi compresa fra 50/70 ([21]) si arriva, nel 1631, alla eccezionale cifra di 503 (!), annotati, con nome e cognome, dal parroco.
L'essere giunto fino a noi il lungo elenco dei morti cairesi ci permette di cogliere l'angoscia di quei momenti, vedendo come intere famiglie venivano spazzate via, prima i figli più piccoli, poi via via tutti gli altri, fino ad arrivare ai genitori ([22]). Ad un certo punto la situazione sfuggì totalmente di mano, tanto che per molti decessi non poté essere presa nota con esattezza non solo del giorno, ma neppure del mese.

Sull'atmosfera che si respirava in paese durante il contagio il già citato manoscritto del Buffa ci fornisce particolari precisi ed interessanti. Veniamo così a sapere che il 27 aprile di quel terribile 1631 i soldati allemanni ( come se non bastasse la peste, in quegli anni la Val Bormida era anche percorsa da soldatesche francesi, spagnole, imperiali e sabaude per la Guerra dei 30 anni) abbandonarono finalmente il paese. Malgrado l'infuriare del morbo la popolazione tira un sospiro di sollievo: "all'invito del banditore tutto il popolo, scrisse il Buffa, uscì fuori dal Borgo per la porta sottana ed ivi all'aperta campagna, discosti gli uni dagli altri per non comunicare il contagioso morbo formassi un generale consiglio (…). Esultanti a cagione della partenza de' tedeschi loro oppressori e tristi per tanti mali sofferti e per tanti morti che avevano a piangere e pel grave pericolo in cui si trovavano di perire essi stessi dello stesso morbo, ringraziando Dio che gli avesse finalmente liberati dall'oppressione de tedeschi e pregandolo di allontanare da loro quel terribile flagello della pestilenza, tutti d'accordo ed unanimi fecero i seguenti voti ( .. )".

Cairo nel '600

Quanto essi servissero, bastano le righe successive a chiarirlo: "nonostante le preghieree i solenni voti continuarono per più di due mesi ad essere afflitti dalla peste, anzi la contagiosa influenza andò di giorno in giorno più che l'altro dilatandosi, non solo più frequente, ma anche più micidiale diventando".

Lo stesso Buffa ricorda anche che in tanto infierire della pestilenza una piccola borgata di Cairo riuscì a restare immune per le rigorose misure di isolamento che seppe imporsi. Si tratta della frazione di Carnevale, discosta dal paese. "La villa di Carlevaro, scrisse il cronista nella sua ricercata e ciceroneggiante prosa, non fu tocca da quel morbo pestienziale. Gli abitatori della medesima non altrimenti che fatto avrebbero quelli di una ben regolata villa o terra, seppero in tempo provedere e premunirsi e per non patir disagio per mancanza di viveri e per impedir l'ingresso del morbo soccorrendosi vicendevolmente e facendo giorno e notte le guardie per impedirne l'accesso a chichessia. Per tale maniera i Carlevaresi camparono da sì grave pericolo mentre loro d'ogni intorno infieriva l'influenza mortifera ( ... ) neppure uno in Carlevaro perì di contagio"; e così questa frazione contadina, dando prova di quelle capacità organizzative che centri ben più grandi non seppero imporsi ed imporre, uscì incolume dalla peste.

Ovunque intorno infieriva invece la morte.

Altare, Carcare, Cairo, Murialdo e Biestro sono gli unici paesi dell'alta Val Bormida al cui riguardo siano al momento noti coevi documenti d'archivio dai quali si possa appurare con sufficienti particolari la diffusione della peste, quantificandone le conseguenze dell'impatto sulla popolazione.
Per altri paesi i dati disponibili sono invece più indiretti, ma comunque sufficienti a farei intuire che ovunque la peste colpì con durezza.

Lacunoso è, per esempio, l'archivio parrocchiale di Dego, che comunque ci fornisce una conferma indiretta della presenza del contagio, considerato che il registro dei battesimi ([23]) presenta un'ampia lacuna proprio nel periodo di massima diffusione del contagio; l'ultima registrazione risale infatti al 5 febbraio del 1631 e poi c'è il vuoto fino all'anno successivo, allorché l'annotazione "Descrizione nuova fatta da me infrascritto Gasparo Sicho, moderno (nuovo) arciprete di Dego, incominciando l'anno 1632" ci lascia intuire che anche qui la peste fu presente, forse portando via, fra gli altri, il parroco e determinando, di conseguenza, la fine di ogni registrazione fino all'arrivo, cessato il contagio, del successore.

La peste a Piana e Spigno
Maggiori informazioni sulla diffusione della peste abbiamo per un paese posto ai margini della zona oggetto della presente ricerca, Spigno.
Pur essendo fuori dall'ambito territoriale che ci interessa ( ma è sempre Val Bormida!) riteniamo comunque utile presentarle sia perché il quadro che ci offrono, grazie a documenti conservatisi in un archivio particolarmente ricco, può certamente farei meglio capire quale poteva essere la situazione anche in alta Val Bormida, sia perché da tali informazioni possiamo finalmente avere un'idea più precisa sull'andamento dell'epidemia in un piccolo paese, sui provvedimenti presi dalle autorità per fronteggiarla e sulle reazioni della popolazione.

Come a Biestro e ad Altare, anche a Spigno il contagio si diffuse, non sappiamo in quale misura, fin dal 1630. Alla fine dell'anno, coi mesi invernali, la malattia ha una pausa, che viene interpretata come la cessazione del morbo: “ a Spigno, scrive il parroco d. Verruta al Vescovo il 3 gennaio '31, si sono purificate le case infette, si fa la quarantena generale nel borgo con la diligentia et il modo havuto da Milano nè più more alcuno, et sono più di 25 giorni che non è morta persona alcuna".
Si fa anche il conto dei danni e dei lutti, non indifferenti: "Sulle fini di Montechiaro sono rimasti pochi huomini, il prevosto di Montaldo è scappato per timore della peste, a Turpino, per grazia di Dio, non vi è successo male se non in una famiglia". L'illusoria speranza che la peste sia finita si avverte anche in una lettera di poco posteriore, inviata dallo stesso arciprete al Vescovo alla fine di gennaio: "Nella cascina (del Vescovo) le cose vanno male, et il difetto consiste nel male del contagio, per esservi morta gente nella cassina, qual si farà nettare et purificare come si conviene, per sicurezza di tutti. A Spigno le cose passano bene, sono più di un mese che non è morto alcuno e non vi è alcun malato. facendosi la quarantena generale con buonissima regola e modo nel borgo". Queste erano le speranze del parroco, ma con l'arrivo dei primi tepori primaverili l'epidemia dilaga nuovamente con aumentato vigore, infrangendo le illusioni della gente. Sono ancora le lettere degli amministratori dei beni della mensa vescovile indirizzate al Vescovo ad illustrarci il precipitare della situazione: il 17 aprile il parroco di Spigno scrive che "è venuto il Prevosto di Piana dicendo che non vuoi più stare a Piana per la contagione e due degli affittavoli (dei beni vescovili) sono morti di contaggione. Lo Sgorlino (affittavolo di un'altra cascina appartenente al Vescovo) sta bene et s'è ritirato alla cassina dell'Abbazia di Spigno per fuggire la peste"; il 21 maggio è "dominus Bertuzzo, mastro di casa della Mensa Vescovile" a comunicare al Vescovo che "hoggi mi hanno detto che il prete di Piana è morto di contagione e sono morti anche quelli che tenevano i beni di Piana". Quanto allo Sgorlino "sta bene, ma gli sono morti due figlioli, il primo e l'ultimo".

Il Vescovo cerca un altro sacerdote per non lasciare Piana ( paese a pochi km. da Spigno) sprovvista di una guida spirituale in quei drammatici giorni, ma non ne trova: anche l'invito fatto ai Francescani di Spigno di inviare provvisoriamente un loro frate a Piana viene cortesemente declinato "dolendomi oltre modo di non poter servire V.S. Ill.ma stante che in Piana moiono del continuo del morbo contagioso, come scrive i14 giugno al Vescovo di Savona il Padre Guardiano dei Francescani di Spigno, “et il morbo procede in non voler far nettare le case infette".
La paura del contagio è forte, e i1 21 luglio il paese è ancora senza sacerdote: "dimani vado a Piana per veder se quel prete di Dego vi volesse andare", scrive d. Verruta al Vescovo: e dopo la visita infruttuosa fa del paese un quadro drammatico: ''A Piana in chiesa ci sta il lume (la lampada del SS. Sacramento), ma per li corpi insepolti niuno vi ardisce andarci. Lo Sgorlino sta bene".

A settembre la situazione è ancora drammatica: ''A Piana, è sempre d. Verruta ad informarci, le cose non possono andar di peggio, nè in modo alcuno trovo prete che vi vogli attendere. Monsignor (Vescovo) d'Acqui è morto di contagio e le cose passano malissimo. A Turpino sono morti quasi tutti di peste, i rastrelli sono serrati per la peste, a Spigno le cose vanno assai bene, se ben succede qualche caso"; per intendere cosa significhi quel "le cose vanno assai bene" basterà notare che in 15 giorni - dal 24 settembre all'8 ottobre - si contano ben 28 morti "di contaggio", morti che, come ricorderà due anni più tardi un sacerdote in una lettera indirizzata al Vescovo di Savona "in tempo di contaggio,per ordine del sig. Commissario si seppellivano dove si ritrovavano, senza portarli alla chiesa”([24]).

Nell'ottobre, finalmente, si trova un sacerdote disposto a recarsi a Piana almeno per amministrare i matrimoni: è d. Bertuzzo che il 3/10/1631 riceve apposita autorizzazione dal Vescovo "attento notorio epidemiae impedimento et epidemiae morbo qui locum Planae graviter invasit".

Con l'arrivo dell'autunno, finalmente, la virulenza del contagio si attenua per poi, lentamente, sparire. Torna la speranza: a Giusvalla la popolazione chiede al Vescovo il permesso di celebrare la messa all'aperto "per vedere di schivare li pericoli di contagione dai quali, ancorchè siamo circondati, per grazia di Dio e di M. V. siamo ancora liberi"([25]), a Spigno, i121 ottobre, d.Verruta con timida speranza comunica al Vescovo che "il contagio pare abbi cessato, sendo più di otto giorni che non s'è ammalato nè morto alcuno: Dio per sua misericordia ci aggiuti et diffendi". Il 22 dicembre buone notizie anche per Piana, dove "si nettono le case et è cessato il contagio". La fine della peste, pur nel perseverare della guerra, viene celebrata con manifestazioni di festa e di gioia: si adempiono i voti fatti durante l'imperversare del morbo ([26]), si  canta e si balla con tanto slancio da suscitare i rimproveri del Vescovo ([27]).

Gioverà ricordare che l’epidemia di Peste a Spigno provocherà anche, come terribile conseguenza indiretta, il famoso “processo alla streghe di Spigno”, che si può leggere per intero nel mio blog qui http://lestreghedispigno.blogspot.com/


La contabilità della morte
Si tirano però anche le prime somme:"Molti paesi del Vescovado di Acqui sono privi di preti, scriverà d. Verruta al Vescovo il 22 dicembre 1631, ( ... ) molte possessioni sono gerbide (non coltivate) per essere state abbandonate ( ... ), a Turpino non v'è gente per la contagione, ( ... ) vanno gerbide possessioni di rilievo"; ci si conta, molti mancano, tra questi un altrimenti anonimo valbormidese, quello Sgorlino più volte ricordato come affittuario del Vescovo e rifugiatosi in una cascina per sfuggire al morbo; dopo aver perso due figli, il 19 novembre "è morto con tutti li suoi e non vi è rimasta che solo una figlia piccola": un piccol dramma nel gigantesco dramma della peste, chissa che fine avrà fatto, orfana in unterritorio devastato dalla peste e dalla guerra!

Se cerchiamo di fare un quadro riassuntivo di ogni singolo paese, almeno di quelli per i quali disponiamo di dati complessivi significativamente precisi, l'impatto determinato dall'epidemia del 1630-1631 può essere valutato in tutta la sua ampiezza: Dego passa da 1312 a 532 abitanti (-59 %), Rocchetta Cairo da 283 a 270 abitanti (-4,5 % : fu un paese veramente fortunato!), Giusvalla da 851 a 441 abitanti (-48%), Piana da 987 a 504 abitanti (-48%), Cagna da 356 a 220 (-38%), Sassello da 2604 a 1500 (-42%), S.Giulia da 400 circa (il dato non è sicuro) a 332, Scaletta da 400 abitanti (dato non sicuro) a 154 ([28]), Rocchetta di Cengio dai 470 abitanti del 1604 ai 282 del 1648, con una diminuzione del 42% ([29]).

Per altri centri i dati assoluti di cui disponiamo sono assai più imprecisi e possono quindi fornirei solo un'indicazione di massima: Carcare scende dai 750 abitanti presunti per il l612 ([30]) ai 454 del l649, con una notevolissima diminuzione del 39% ([31]). Cosseria passa dai 904 abitanti del 1628 ([32]) ai 700 del 1649, con una diminuzione del 23%. Se dall'analisi dei dati dei singoli paesi cerchiamo di passare al quadro più generale della Valle il panorama conclusivo appare desolatamente sconsolante. Tale analisi è possibile utilizzando, ancora una volta, i dati forniti dagli archivi ecclesiastici, nel caso specifico quelli delle Diocesi.

Mancano purtroppo dati completi relativi alla Diocesi di Alba, cui apparteneva buona parte dell'alta Val Bormida. In particolare non sappiamo quanti fossero gli abitanti prima della peste. Sappiamo però che nel 1649, poco dopo il contagio, erano circa 70 mila, mentre nel 1658 erano già saliti a circa 100 mila ([33]). Questo notevole aumento potrebbe far supporre che il primo dato risentisse di forti perdite causate dalla pestilenza.

Possediamo invece informazioni più precise sulla Diocesi di Acqui, cui appartenevano alcuni centri della Val Bormida, specie nei suoi settori meridionali. Gli abitanti di questa diocesi erano 77822 nel 1586, scenderanno a 40647 nel 1639, con una diminuzione di 37175, pari al 47%: l'allora Vescovo di Acqui, mons. Felice Crova, può quindi sconsolatamente scrivere che ''per le terre della Diocesi delle tre parti sono morte le due"([34])

E non si può sperare che la situazione nei settori più montani dell'alta Val Bormida, appartenenti alla Diocesi di Alba, fosse tanto diversa.

Ecco i frutti combinati di guerra e peste: e anche se questi fenomeni (e soprattutto il secondo) non ebbero forse quell'effetto spaventosamente devastante ricordato nel patrimonio tradizionale locale (nessuna comunità venne cancellata dalla carta geografica), questi dati, pur incompleti e parziali, rappresentano per l'area valbormidese il primo tentativo di una loro quantificazione oggettiva.

E alla luce di questi dati ben si comprende il perché della desolata invocazione cristiana
"a bello, fame et peste libera nos Domine!".

Leonello Oliveri


Propr. Lett. Riservata
Riproduzione Vietata




E se domani?...


NOTE

[1] ) V. SCAGLIONE, Contributo ecc., cit., p. 18.

2] ) Non è superfluo ricordare che dal punto di vista prettamente medico l'epidemia di peste che serpeggiò per tutto il mondo occidentale (ma anche in Africa e Asia) dal VI sec. a.c. fino praticamente ai nostri giorni (morti di peste si ebbero a Parigi ancora nel 1920!) si potrebbe meglio definire una epizozia, cioè una malattia degli animali, specificatamente dei topi e delle pulci (nel caso specifico la xenopsylla cheopis) loro parassite: da quest'ultime viene poi trasmessa all'uomo. I traffici commerciali, soprattutto marittimi e gli spostamenti di masse di popolazioni furono il principale veicolo di trasporto da un porto ad un altro, e spesso da un continente ad un altro, di questa malattia di per sé tipica, come si è detto, degli animali. Essa però trovava un catalizzatore in periodi di carestia e di indebolimento della popolazione, che scatenava il divampare di esplosioni epidemiche con una regolarità quasi ciclica.

[3]) Archivio Parrocchiale, Liber defunctorum, ab annum.

[4] ) Altare, Archivio Parrocchiale, Liber mortuorum ab anno 1616 ab annum 1703.

[5] ) Nel 1604 Altare aveva 754 abitanti, divisi in 208 famiglie (cfr. G. GIORCELLI, Le città, le terre ed i castelli del Monferrato descritti nel 1604 da Evandro Baronino cancelliere del Senato di Casale, in "Rivista di storia, arte, archeologia della provincia di Alessandria", xiii, fasc. 15, pp. 61-130; fasc. 16, pp. 43-82; XIV. 1905, fasc. 17. pp. 219-313.

[6] ) Altare, Archivio Parrocchiale, Liber matrimonium 1616 - Liber baptizatorum 1616-1703; per quanto riguarda le nascite, in particolare, le conseguenze della peste si trascinarono per diversi anni e ancora nel 1633 furono 43, una decina in meno della media. Il "Registro dei battesimi" ricorda diversi casi di battesimi d'urgenza, nel 1631, a causa del pericolo della "contagione".

[7] ) Altare, Archivio Parrocchiale, Liber mortuorum 1616-1703; 14 aprile “admodum reverendus dominus Albertus Olivetus Merli occisus fuit”, 12 giugno “Ioannes Ambrosius occisus fuit”, 26 luglio “Benentinus Corottus occisus fuit”.

[8] ) 54) F. CICILIOT, Val Bormida tra medioevo ed età moderna. Frammenti di storia economica, sociale e culturale, in "Atti del 1 Convegno storico Val Bormida e riviera", Comunità Montana Alta Val Bormida, Millesimo 1985, p. 75.

[9] ) D. P. SUFFIA, Il Santuario della Madonna delle Grazie in Calizzano, Mondovì 1975, p. 121.

[10] ) G.A. SILLA,  Storia del Finale, II, Savona 1965, p. 218.

[11] D. P. SUFFIA, op.cit., p.122

[12] )”MDCXXXl, peste Calizzani grassante, voto Beatae Virgini et sanctae Rosaliae a populo facto eoque liberato idem et capellae et monumentum ob gratiarum actiones posuit anno MDCXX (..?) tempore (..?) sub sindacatu (..?)"

[13] ) C. R. PARETO, Appunti di storia calizzanese, Calizzano 1989, p. 57.

[14] ) Ibidem. Analoga ma con alcune discordanze nel numero e nei nomi, la testimonianza il cui eco fu raccolto dal Mattiauda alla fine dell'800, secondo il quale "Dalla peste di Calizzano si dice essersi salvate tre sole famiglie: una, dei Savi, ritiratasi coi loro bestiami in Monte Rotondo (uno però dei due fratelli essendo poi venuto a Calizzano per vedere come andavano le cose fu preso dalla peste e non fece più ritorno), un'altra, dei Nan, ritiratasi nella Rosotta, e quella dei Supparo che non si sa come e dove si siano salvati" (G. BALBIS, Historia Calamitatum. Bardineto nei secoli XVII-XIX tra lupi e francesi, GRIFL 1987, p. 4). Pochi anni dopo la peste, nel 1649, Calizzano aveva 800 abitanti (più i 212 di Vetria).

[15]). Analoghe considerazioni per un' altra analoga "leggenda urbana" riguardante Carcare dove le uniche famiglie superstiti sarebbero state quelle dei Malloni e dei Franchi. Pur riconoscendo a queste tradizioni locali un qualche fondamento (potrebbe trattarsi, per esempio, di clan familiari che non ebbero neppure un componente vittima della malattia), non è superfluo sottolineare che proprio i fenomeni concernenti la popolazione di un intero paese (o un'intera vallata) sono quelli nei quali è più facile la deformazione e l'amplificazione popolare.

[16]) Libro dei battesimi, ad annum, annotazione del parroco G. Panelli: "17 augusti, tempore pestis baptizata fuit Maria filia d. Philippi et Angelae iugalium de Cremis "; "die 24 augusti, tempore pestis, baptizatus fuit Bartholomeus et Franciscus". Nel 1649 Millesimo aveva 570 abitanti.

[17] ) Archivio parrocchiale, Registro dei battezzati 1629-1663, Arciprete Ag. Ruffino

[18] ) L’annotazione presenta però un segno poco comprensibile -macchia, abbreviazione, cifra?- davanti alla parola”cento”: se fosse una cifra (una sola) ovviamente il totale delle vittime dovrebbe essere aumentato. Ma pare poco credibile un numero espresso in modo misto, una cifra (?) seguita da lettere (centosettanta).

[19] ) Archivio Parrocchiale, "Incipit liber matrimoniorum infrascripto me sac. Barberi cessata lue”,

[20] ) G. NOVELLA, Carcare nel 600 fra cronaca e storia, Cengio 1991, p. 92. Nel 1649 Pallare contava 260 abitanti.

[21] ) 52 decessi nel 1622, 74 nel 1624, 65 nel 1678 (dati dell' Arch. Parr.). Non conosco l'ammontare della popolazione cairese prima della peste; nel 1649 essa era costituita (dati dell' Arch. della Curia di Alba), da 1600 abitanti

[22] ) Archivio Parrocchiale, Liber defunctorum: "nota defunctorum presentis curiae anno contagi 1631 de quibus non potuit haberi certa diei et mensis decessus et ideo huic separatim descripsi", Dal manoscritto del Buffa (Arch. Apostolico Vatican o, fondo Patetta) veniamo a sapere che in occasione della peste il parroco di Cairo "che nel posto che teneva di pastore delle anime avrebbe dovuto in tanto pericolo delle stesse mostrarsi zelante nel suo ministero e non dipartirsi dalla cura loro, tutto all' opposto, qual mercenario fuggendo, empiamente le abbandonava andandosene a Dogliani sua patria".

[23] ) "Liber Baptizatorum 1621-1660". Nel 1604 Dego contava 717 abitanti divisi in 166 famiglie (G. GIORCELLI, op. cit., 222).

[24] ) Savona, Archivio vescovile, Vicariato di Spigno, lettera del 1633 senza data.

[25] )Ibidem, lettera del 26/6/1631. Nel 1604 Giusvalla contava 135 abitanti divisi in 43 famiglie (G. GIORCELLI, op. cit., 223).

[26])La comunità di Spigno aveva fatto voto di andare processionalmente al santuario di Cassine nell'alessandrino, quella di Cairo alla Madonna del Santuario di Savona. A Merana la popolazione aveva invece promesso di fare festa "in perpetuo tutti i sabati in onore della Beata Vergine" (Savona, arch. vescovile, Vicariato di Spigno, lettera del 8/10/1631). "Vedendo ora però esser impossibile l'osservanza per esser poveri", la Comuità si rivolge al Vescovo per essere sciolta dall' obbligo; la richiesta viene accolta "attenta notoria paupertate hominum et considerantes simplicitatem predictorum".

[27] ) "Habbiamo inteso che costì (a Spigno) è stato fatto «la Nizzarda» (un tipo di ballo allora proibito dall'autorità ecclesiastica), recordandoli la gravezza del delitto (è il Vescovo che scrive al parroco di Spigno) Vostra Paternità li potrà assolvere, imponendo alli penitenti quella penitenza che stimerà convenirsi" (Arch. vescovile di Savona, Vicariato di Spigno, lettera del 12 marzo 1633).

[28] ) V. SCAGLIONE, op. cit., p. 20 e ”Giusvalla per non dimenticare un mondo che abbiamo perduto”, cit., 86.

[29] ) Archiv. Parrocch. Ovvio che non si deve pretendere da questi dati, provenienti da fonti e epoche diverse, l’esattezza matematica di un odierno censimento

[30] ) Il dato è ottenuto per estrapolazione partendo dal numero di abitanti (500) che nel 1612, come ricordato dalla relazione della visita pastorale di mons. Pandasio, erano “apti ad comunionem”, cioè in età di ricevere i sacramenti: Essi corrispondevano approssimativamente, nella zona e nell'epoca, ai due terzi del totale; quando è stato possibile sottoporre a confronto i dati ottenuti per estrapolazione con quelli fornitici da altre fonti si sono ottenuti valori assai simili (es. a Carcare per es. nel 1687 gli abitanti ricordati da una "Stato delle anime" sono 592, quelli "atti alla Comunione" 435; estrapolando questo dato con il parametro precedente ricordato, si sarebbe avuto un totale di 652 ab., con uno scarto, tutto sommato accettabile, del 9%. Per questi dati v. dell' A., Carcare nel 1800, GRlFL, Cairo 1986.

[31] ) Alba, Arch. Della Curia. Una diminuzione di circa 300 ab. sarebbe più compatibile con una perdita di 270 ab. a causa della peste piuttosto che 170 (v. n. 17). Nel 1687 la popolazione era già risalita a 592.

[32] ) Archivio Parrocchiale.

[33] ) P. BRIZIO, Acta et constitutiones secundae, tertiae et quartae sinodi diocesanae, Carmagnoliae. MDCXLIX - 1658, pp. 57 sgg.
 Un documento risalente al 1649 conservato nell'archivio della Curia di Alba riporta la consistenza delle varie parrocchie della diocesi in quell'anno. Ne presentiamo la parte concernente i paesi dell'alta Val Bormida oggetto del presente studio. Il dato fuori parentesi indica le "anime in massa", quello dentro le "anime da comunione”: Millesimo 570 (350), Cairo 1600 (800), Calizzano 800 (500), Vetria 212 (100), Cosseria 700 (400), Carcare 454 (300), Osiglia 650 (400), Roccavignale585 (360), Bormida 250 (175), Cengio 400 (250),  Rocchetta di Cengio 250 (36), Pallare 260 (150)

[34] ) V. SCAGLIONE, Contributo ecc., cit., p. 18.