sabato 27 gennaio 2024

Processi alle Streghe in Val Bormida nel ‘600

 

Leonello Oliveri
Proprietà letteraria Riservata
Riproduzione Vietata


…il demonio dette ordine di seminare la polvere di contagione…
…una femmina per nome Giustina, imputata di veneficio o sii stregaria…
…mi disse che pigliassi tre uccelletti chiamati rondinini e che li facessi arrostire…


Questo post è dedicato ad alcuni processi od episodi di “stregoneria”

che ebbero come teatro la Val Bormida del XVII secolo e come protagoniste –ma meglio sarebbe dire vittime- alcune donne accusate di diffondere la peste (quella del 1630-31, resa famosa dal Manzoni) o di pratiche di stregoneria.



Streghe a Cairo?

Nella Biblioteca Civica Savonese è ( o era) conservata la riproduzione di un documento risalente al 27 agosto 1631 (1) riportante le deposizioni di due presunte streghe che sarebbero state scoperte a Cairo (ora Cairo Montenotte) in quell'anno.
Il documento è assai interessante in quanto ci darebbe la possibilità di "toccare con mano" l'attività di due persone accusate di stregoneria.
Ecco la deposizione della prima delle due "streghe", Lucia: "Finito il ballo di Pianazzo il demonio diede ordine alle squadre (di streghe), squadra per squadra, chi in una chi in un'altra, che andassimo ad attaccare e seminare detta polvere di contagione ".

Interrogata circa "dove toccò a lei andare e quali che erano in quella famiglia (?) ossia squadra" la povera Lucia rispose "che toccò a lei la terra del Cairo ".

Interrogata ancora "che dica la verità e che mai l'ha posta in altro luogo ", Lucia disse "anche fuori della muraglia dell'ospedale vecchio e nella valle di S. Bernardo, e mentre ci inviavamo verso la città di Savona, il diavolo voltò faccia, dicendo ritorniamo indietro perché non possiamo passare più avanti né ci giova niente, poiché la Madonna Santissima così vuole".
Come si vede siamo in pieno ambiente "manzoniano", con tanto di untori assoldati dal diavolo per spargere la "polverina di contagione".
Viene poi interrogata la seconda donna, Maria, vedova di Manfrino, indicata dalla stessa Lucia; e dietro questa precisazione è possibile che si celi un retroscena di intimidazioni o peggio.
Ecco la deposizione di Maria, cui fu chiesto "se mai fosse andata a portar "la contagione alla Madonna di Savona, villa e valle di S. Bernardo e quando".
"E' vero, rispose, che andassimo mia zia Zabelin e tutta la compagnia; (... ) pose la polvere di contagione sopra la terra ossia appresso dell'ospedale vecchio e a S. Bernardo e non si passò più avanti, siccome avemmo ordine, perché l'istesso demonio disse non potere più passare avanti, perché la Madonna non voleva per essere la città di Savona sua devota"..

Come si può notare si tratta di un tipico testo di disposizione processuale di quel periodo, a proposito del quale, come giustamente è stato fatto notare da G. Rossi, "interrogando la tortura, rispondeva la paura", gli imputati finivano col ripetere quasi sempre quanto loro suggerivano i giudici.

Ovviamente possiamo quindi affermare, cosa per la quale - del resto - basta il semplice buon senso, che le imputate erano certo innocenti, e che quindi il loro processo (e condanna, se veramente vi fu), fu un tragico errore giudiziario.

E però verosimile che, in realtà, non ci sia stato né un vero processo, né una condanna con l'esecuzione delle due povere donne.

Manca finora una ricerca approfondita su questo episodio, ma quelle realizzate fino ad oggi non sono riuscite a trovare una conferma di tale fatto che vada oltre la scarsa paginetta del "Rector Cayri", autorità non sufficiente a gestire un simile caso giuridico (2)), e alle fonti a stampa che da essa, probabilmente, derivano (3).

In particolare non sono state fino ad ora rinvenute tracce del fatto né all'Archivio di Stato di Savona né in quello parrocchiale di Cairo, né in quello della Diocesi di Alba, competente per territorio.

E' quindi possibile che, in realtà, si sia trattato solo di un'iniziativa personale del funzionario cairese, presa sotto la spinta emotiva, e la paura, della peste (le date ricordate sono quelle del periodo in cui più infuriava il contagio), che portava a cercare a tutti i costi un responsabile la cui eliminazione avrebbe fatto cessare il contagio, esattamente come successe – in quegli stessi anni ma con esiti veramente drammatici- a Spigno Monferrato (4). Visti i precedenti nella zona è possibile che le Autorità ecclesiastiche superiori, cui l'esame del fatto avrebbe dovuto essere demandato, abbiamo avuto, in questo caso come negli altri del sec. XVI, il buon senso di distinguere fra terrore, superstizione e realtà.

L'episodio potrebbe perfino essere visto come un fatto volto a "promuovere" l'importanza del Santuario della Madonna di Savona, eretto nel 1536: e chi avrebbe potuto bruciare due "streghe" che dicevano: "torniamo indietro, perché la Madonna Santissima così vuole "?

.... e a Lodisio 
 In quegli stessi terribili anni della peste, nei quali l'epidemia dilagante, terrorizzando una popolazione stremata e disorientata,
faceva vedere ovunque la presenza del diavolo, della strega e del male, in un infantile quanto disperato e crudele tentativo di poter eliminare il male (la peste) attribuendone la colpa ad un preciso responsabile (l'untore, meglio se donna, meglio ancora se vecchia e vedova: ecco l'identikit della strega tipo), oltre alla vicenda di Cairo e al dramma di Spigno, altri centri della valle furono contagiati dalla mania della caccia alla strega.

Nel luglio del 1632, infatti, nelle carceri di Cagna (oggi S. Massimo, frazione a pochi chilometri da Dego, prov. Sv.), giacciono alcune donne, accusate per l'appunto di essere streghe. Questa piccola frazione, appartenente alla diocesi di Acqui, era sotto la giurisdizione feudale, assieme ai centri di Dego, Piana e Giusvalla, del Marchese Spinola di Garessio. Le incarcerate non erano però di Cagna, bensì del vicino Lodisio, luogo appartenente alla diocesi di Acqui ma soggetto alla giurisdizione feudale del Vescovo di Savona. Questa complicata digressione giuridico-politica non è puro nozionismo; in parole povere si vuol far notare che sudditi di un feudo erano stati incarcerati da un'autorità feudale che su quel feudo non aveva alcuna giurisdizione.

Alcune delle incarcerate erano riuscite a fuggire, ritornando a Lodisio, e avevano inviato una supplica al Vescovo di Savona chiedendo di essere giudicate da lui "senza intervento del giudice et altri ufficiali del sig. Marchese di Garessio" (5); persone accusate di stregoneria chiedono quindi di essere processate dal tribunale ecclesiastico e non da quello feudale, ulteriore conferma della diversa, più tollerante e garantista atteggiamento del primo (in quest’epoca) rispetto a quest'ultimo. Nella supplica si raccontano i particolari della vicenda, scaturita dall'arresto di "una femmina per nome Giustina, imputata di veneficio o sii stregaria", arresto operato dal Podestà di Piana (Piana Crixia, a pochi km.). Sottoposta "ad esame" (il che può anche voler dire - seppure non necessariamente - a tortura) la poveretta "sii per odio o per altri interessi ovvero forse per istigazione diabolica" aveva fatto il nome di altre persone di Lodisio indicandole come complici. Così erano finite nelle carceri di Cagna, “Stato del Monferrato (6) pur essendo sudditi di V.S. Ill.ma” (il Vescovo di Savona) Giacomina Rabino (vedova) con la figlia Giovanettina di 14 anni, Isabella Cravi (vedova), Giovanni Bartolomeo Rabino (75 anni) con la figlia Caterina, Margherita Rabino (vedova) col figlio Stefano di 20 anni, Bemardo Rabino, Bianchina Mathei, Ramilina Pera, Sebastiano Negro con la moglie Leona, incinta, e Caterina Rabino, anch'essa incinta, il cui marito morirà di peste durante la carcerazione della moglie; in tutto 13 persone.

Il diavolo  con le sue "seguaci"
In prigione, ricorda la supplica, ''per li mali trattamenti subiti in carcere (ecco la conferma dell'uso della tortura) sia Leona che Caterina partorirono una creatura morta senza battesimo". Sempre in carcere morirono Giustina (la prima incarcerata) e Leona, costei forse in conseguenza del parto. Dopo un imprecisato periodo di detenzione otto fra gli imprigionati "poi d'esser stati tanto tempo detenuti ( ... ) maltrattati nelle persone e nel vitto, vedendo che non si prendeva espediente a spedir le loro cause e che solo si attese a spogliarli le case di vitovaglie e altri mobili in pregiudicio di tanti poveri figlioli pupilli, orfani spogliati de facto delle loro sostanze (e questo era forse il vero scopo della denuncia fatta nei confronti di questi poveretti?) per non lasciarsi consumare anche loro dalla fame et mali trattamenti evadono dal carcere "non già con l'intenzione di rompere le carceri ma anzi di ritornarvi nel detto loco di Lodisio dove tutti al presente si ritrovano”.

Da Lodisio gli evasi inviano quindi la supplica al Vescovo cercandone la protezione e protestando di essere stati arrestati illegalmente per ordine del Marchese di Garessio che non aveva su di essi alcuna autorità. Il Vescovo, che già aveva provveduto ad intimazioni nei confronti del podestà affinché disponesse il rilascio delle persone incarcerate, reagisce ordinando al suo Vicario Foraneo, il parroco di Spigno, di "inhibire a qualsivogli il proceder contro dette persone fino a nuovo ordine di Sua Signoria Illustrissima" (il Vescovo) patrono di detto luogo”. Dà altresì autorità al suo vicario di ''proceder contro detto magnifico Podestà ad poenas comminatas"; e immaginiamo l'entusiasmo del povero D. Verruta, appena reduce da quel gran scombussolamento (e duello fra due poteri) che era stato il processo di Spigno (v. http://lestreghedispigno.blogspot.com/), nel doversi di nuovo porre, come locale rappresentante della chiesa, contro la potente autorità feudale locale. Don Verruta, comunque, si attiva; il 5 aprile comunica al Vescovo di aver preso accordi per sentire direttamente dagli interessati di Lodisio quanto fosse successo, il 14 riferisce di "aver fatto nuova inhibitione al Sicco (il podestà di Piana) a richiesta di quei di Lodisio et si sono prese informationi circa il non haver obedito nel rilasciar li incarcerati in Cagna '', il 23 rassicura ancora il Vescovo che "faremo noi (tribunale ecclesiastico? tribunale feudale del Vescovo?) la causa contro quelle streghe" (di Lodisio). Comunque alla fine di giugno pare che le persone incarcerate a Cagna non fossero state ancora liberate dal Marchese Spinola.
Come sia andata poi a finire questa vicenda non ci è dato a sapere; dalla scarsa documentazione citata pare comunque evidente sia la preferenza degli imputati per essere giudicati dal Vescovo, sia l'intervento del Vescovo a questo scopo, sia la vischiosità opposta dalle autorità laiche; elemento quest'ultimo tipico di quello scenario di intrecci e sovrapporsi di competenze che abbiamo notato essere caratteristica di questo tipo di processi, anche se forse nel caso delle "streghe di Lodisio" a scontrarsi non fu tanto un'autorità laica e una religiosa quanto due autorità entrambe feudali, dato che il Vescovo pare intervenire, almeno a quanto possiamo capire dalla frammentaria documentazione, non come Vescovo ma come Signore feudale.

La strega di Mioglia
Un altro episodio in qualche modo legato alla stregoneria, o presunta tale, successe in Val Bormida. L'epoca fu il 1618, il teatro il piccolo villaggio di Mioglia (prov. Sv), dipendente dalla giurisdizione ecclesiastica del Vescovo di Acqui.
Vediamo l'accaduto come si può ricostruire dai documenti conservati nell'Archivio Vescovile di Acqui

Il 13 giugno di quell'anno il parroco di Mioglia accingendosi a celebrare la messa, trova "sotto la tovaglia dell'altare certi rondinini rostiti legati insieme”(7). Buon conoscitore dell'ambiente e dei tempi, il parroco subdora subito di essere in presenza di una qualche pratica di tipo magico.
Fatta una breve indagine, i sospetti si appuntano su una certa Zanina del luogo di Mioglia, vedova e convivente con un uomo del posto (e quindi pubblica peccatrice).
Fattala chiamare, interrogata dall'inquisitore della diocesi di Acqui, viene facilmente a galla una banale e misera storia di paure, delusioni, inganni.
La nostra Zanina, vedova, conviveva come detto con un certo Augustino, dal quale aveva avuto quattro figli. Ora, però, l'Augustino in oggetto "mi odia e mi fuge, dice all'inquisitore la nostra povera Zanina, perché tratta di maritarsi con altra donna". Di qui la paura e la disperazione della donna, che non sa cosa fare per trattenere a sé il convivente ormai stanco. Interviene a questo punto un'altra comare del luogo, certa Caterina, sempre di Mioglia, che suggerisce alla disperata Zanina un metodo sicuro.

Ma lasciamo la parola alla stessa Zanina, che così depose dinnanzi all'Inquisitore: "mi disse che pigliassi tre uccelletti chiamati rondinini e che li facessi arrostire e poi li mettessi così interi rostiti sull'altare sopra la pietra sacrata sotto la tovaglia e poi li facessi celebrar la s.ta Messa sopra una volta, e che poi nella minestra parte facessi mangiare al detto Augustino, parte la mangiassi io, che in questo modo detto Augustino mi avrebbe di nuovo per amore e non avrebbe amato l'altra donna che me e non avrebbe contratto matrimonio con altra donna".

Avuto questo suggerimento, Zanina non lascia passar troppo tempo. Procuratasi tre innocenti rondinini 'li feci rostire al fuoco su un cesto di ferro, (... ) li messi in un sacchetino o sia bossolo di strame e poi li posi sull'altare nel modo che ho già detto per farne quel che ho già detto".

A questo punto immaginiamo, alla luce di quanto detto in precedenza circa la posizione degli inquisitori ecclesiastici italiani del'600- prima della peste-, il sorriso divertito che sarà apparso sulle labbra dell'inquisitore di Acqui, che infatti chiese a Zanina "che cosa ha creduto che possano fare quelli rondinini così rostiti e dopo celebrativi la S. ta Messa sopra che fussero stati mangiati da lei e dal detto Augustino suo innamorato". La risposta di Zanina è senza esitazioni: "avevo creduto che li detti rondinini così rostiti e posti sopra l'altare dopo celebrato la S. Messa e fatti mangiare dal detto Augustino potessero far sì che il detto non potesse amare né pigliare altra donna per moglie che me ".

L'interrogatorio continua per diverse pagine di atti processuali su questo tono, con l'inquisitore attento a verificare se da Zanina fossero state realizzate altre pratiche di questo tipo e se vi fossero stati scopi diversi da quello dichiarato.

Avuta la certezza che il tutto si riduceva a un disperato quanto irrazionale tentativo di una donna disperata per riavere il suo uomo senza far danni a nessuno (magia bianca, quindi, e non nera), il processo (o meglio, il procedimento inquisitorio; un vero processo non ci fu) si conclude con una "condanna", se così vogliamo chiamarla, perfettamente allineata con quella che abbiamo detto essere la posizione della Chiesa su questi argomenti in quel periodo (e in quei territori): Zanina viene condannata "a stare due o tre mattine di festa di precetto alla porta della chiesa in ginocchio con una candela accesa in mano ed una fune al collo mentre si dice la messa "; tutto qui (8): questa era la pena prevista dai “sacri canoni”
degli inquisitori, nella fattispecie dal già ricordato Sacro arsenale, ovvero pratica dell’uffizio della santa inquisizione dell’inquisitore domenicano E. Masini. Questo testo, che doveva fornire agli inquisitori una sorta di codice di procedura penale nei processi per stregoneria o eresia, prescriveva che, nei confronti di rei sospetti lievemente di eresia (ricordiamo che spesso le accuse di stregoneria sconfinavano nel campo, ancora più grave, del reato di eresia) che abiurassero, la sentenza era espressa in questi termini: “ Ti condanniamo a stare una volta in giorno di festa inginocchiato a testa scoperta avanti la porta principale della chiesa con una candela accesa in mano e con l’iscrizione della causa ( l’imputazione e la sentenza) mentre si celebrerà la Messa maggiore e vi sarà anco maggior concorso di popolo. E per penitenze salutari ti imponiamo…

E’ interessante notare che questo manuale, del ‘600, verrà ancora ristampato a Roma nel 1730!
Certo Zanina fu fortunata.
Ebbe la fortuna di incontrare un inquisitore intelligente. Ebbe soprattutto la fortuna di aver avuto a che fare solo con l'autorità ecclesiastica (come era nel ‘600, non nel ‘400-‘500: sarebbe stata probabilmente accusata non lievemente di eresia!) e di aver agito in anni ancora calmi; se la sua azione fosse capitata solo 13 anni dopo, all'epoca della peste, quando una popolazione disperata ed esasperata cercava solo un capro espiatorio, che un'imbelle autorità politica non aveva il coraggio di negare, la sua sorte - come insegna il famoso processo di Spigno- avrebbe potuto essere drammaticamente diversa, come fu diversa quella di troppe altre sventurate che, in tutta Europa, salirono i gradini che portavano in cima al rogo.

La “strega” di santa Giulia
Da documenti dell’Archivio Diocesano di Acqui veniamo infine informati circa quello che fu probabilmente l’ultimo procedimento inquisitorio (non si può parlare di vero processo) relativo all’argomento “stregoneria” riguardante la zona oggetto della presente ricerca. Siamo addirittura nel 1703 e la zona è quella di Santa Giulia, Nisa, Brovida. Qui nell’agosto di quell’anno il Vicario Foraneo di Pareto trasmise al Vicario Generale del Vescovo di Acqui informazioni circa due donne Caterina Fratei di Niosa e Anna Varalda di Brovida. Parrebbe di capire che si imputava loro di “ essere state ritrovate hora in figura di una capra, hora di una porca”, (9) nonché di aver cercato un tesoro in un prato invocando il Diavolo e di aver causato la morte di un neonato (che non prendeva il latte) semplicemente toccandolo. Ma a quanto pare alla trasmissione delle informazioni non fece seguito alcun processo: forse prevalse il buon senso.

Leonello Oliveri
Propr. Lett. riserv.
Riproduzione Vietata


Questo studio fu pubblicato dall’A. nel 1998 in Il ’600 in Val Bormida: la guerra, la peste, le streghe, Carcare 1998.




1) Il testo è di lettura non facilissima: dovrebbe trattarsi di una comunicazione inviata dal notaio Bartolomeo Calaverone ( personaggio noto anche per altri documenti), rector (?) Cayri, a Savona, forse a qualche autorità. Presenta l'intestazione "1631-27 ( ... ) in processibus criminalibus dictarum mulierum in Tribunali Cayri"; Segue il nome della prima imputata (Lucia, filia Jacobi Largherij dicti Thomanazzi Cayri) con l'imputazione: "quae ipsamet confessa est habere nomen capitanae similarum malarum personarum" e un frammento della sua deposizione. Quindi il documento riporta il nome della seconda donna coinvolta ("Maria filia *** Largheris uxor relicta q. Bartholomei Brery (?), nominata a dicta Lucia et aliis"). A causa delle difficoltà di lettura la trascrizione del testo è approssimativa.

  Per altre informazioni su questa vicenda, che comunque è ancora da decifrare e attende uno studio apposito, v. anche Alberti, Storia della miracolosa apparizione di Maria SS. di Misericordia, Pavia 1736,181;  A. Monti, Diva Virgo Savonensis, Roma 1726, p.182; G. Verzellino, Memorie e uomini illustri della città di Savona, II, p.200; V. Poggi, Bollettino della Società Storica Savonese, 17, 1889, p.12; G. Rossi, Cairo e le rogazioni triduane antiche, Altare 1898, p. 23; E. Zunino, Cairo e le sue vicende nei secoli, Cairo 1929, p.I44; R. Baccino, Riverberi di rogo, in "Il  Giornale di Genova", 14/111937; A. Francia, Brevi note sui meccanismi di esteriorizzazione in criminalogia. Analisi della deposizione di due presunte streghe del 1631 , in "Rassegna di criminologia", XV, 1984, pp.l09-115.   

 E proprio il fatto che malgrado tanti studi e ricerche non si sia ancora affrontato veramente e compiutamente questa vicenda dimostra le perplessità e le incertezze che la caratterizzano

2) I processi per stregoneria ricadevano sotto la competenza della Congregazione della Santa Inquisizione dell'eretica pravità (il famoso Santo Uffizio), rappresentata durante il procedimento da un Inquisitore ecclesiastico che qui pare assente, né finora sono state trovate tracce di questo fatto nell'archivio vescovile di Alba, competente per Diocesi. Analogamente l'uso della tortura doveva essere autorizzato dal Vescovo e dall’Inquisitore e da Roma doveva venire l'autorizzazione a procedere all'esecuzione della sentenza di morte. (cfr. I. MEREU, Storia dell'intolleranza in Europa, cit., pag. 102). Non solo, torturae non potest exponere quenquam episcopus sine inquisitore neque inquisitor sine episcopo:così prescriveva esplicitamente un testo chiave per ogni inquisitore, la Lucerna inquisitorum ereticae pravitatis di   Bernardo da Como, Roma, 1584, p.124. Quando tale prassi non era seguita dall'autorità secolare si originava un conflitto con l'autorità ecclesiastica che si concludeva sovente, come nel caso dei processi di Triora e di Spigno, con forti censure, fino alla scomunica, all'operato dei giudici secolari.  

3) Fra queste la più curiosa è probabilmente rappresentata da una pagina del Commento storico ai Promessi Sposi di    C. Cantù (Milano, 1874, p. 286) che è un riassunto preciso del brano del notaio Calaverone riportante la deposizione delle  due "streghe"; sarebbe interessante scoprire come il Cantù ne sia venuto a conoscenza.

4) Sul processo alle “streghe” di Spigno (leggibile qui http://lestreghedispigno.blogspot.com/)  v. L. Oliveri, Un Processo per stregoneria a Spigno nel 1631 , pubblicato sul 1° e 2° fase. del "Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, XCIII, 1995. V. anche A. Francia, Storia minima. Streghe, inquisitori, peste e guerra in un episodio di violenza collettiva del XVII secolo, ECIG Genova 1990. Giustamente l’autore sottolinea il carattere di “violenza collettiva”di questo tipo di episodi.

5) I documenti riguardanti le "streghe di Lodisio" sono conservati all'archivio Vescovile di Savona, vicariato di    Spigno, Presunte streghe. Si ringrazia per la collaborazione.  Su questa vicenda v. A. Francia, Storia minima, cit., pp. 137-143, che riporta anche ampi squarci della documentazione.

6) Gli Spinola avevano prestato giuramento di fedeltà al Monferrato. A complicare la situazione il Marchese Spinola era anche "consignore" di Lodisio.

7) I documenti relativi a questo episodio sono conservati nell'Archivio Vescovile di Acqui Terme, allora competente per territorio. Si ringrazia per la collaborazione.      

8) Il procedimento continuò contro la persona che aveva suggerito a Zanina una simile pratica. Lo stato dell’incartamento (di cui sarebbe interessante uno studio approfondito) è però a questo punto assai lacunoso e di difficile lettura. Pare comunque di capire che questa donna sia stata condannata esclusivamente ad una pena pecuniaria.

9) G.M. Panizza, I procedimenti contro gli accusati di stregoneria negli atti del foro ecclesiastico conservati presso l’Archivio diocesano di Acqui (1585-1727), in Rivista di storia, arte, archeologia per le province di Alessandria e Asti, CIII, 1994, pp.188.