(Apocalisse 6,7)
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Val Bormida area a rischio (bellico)
Ci si potrebbe chiedere in che modo e
per quale motivo una guerra che vide come principali protagonisti la Spagna e
la Francia, come terreno di scontro privilegiato (se così si può dire) l'Europa
settentrionale, abbia potuto interessare anche quello sperduto angolo fra i
monti che era la Val Bormida all'inizio del '600.
Alla base di tutto ci fu una motivazione di tipo strategico-greografico: la Val Bormida, nel caso specifico quella di Pallare-Carcare-Cairo, era attraversata dall'unica strada che dal mare, tramite la rada di Finale, il Monferrato e la Lombardia spagnoli, garantiva alla Spagna i collegamenti con i suoi possedimenti in Italia Settentrionale (Ducato di Milano in primo luogo) e, attraverso essi, l'Europa centro-occidentale. Tale fatto si ripercosse pesantemente sulla valle e sulla gente, facendole subire i contraccolpi della tumultuosa politica che allora gravitava attorno alla Spagna.
Dopo aver imposto il proprio
protettorato sul Monferrato, tramite il Ducato di Mantova, alla Spagna mancava
infatti solo la stretta striscia di terra compresa fra Finale, Bormida,
Pallare, Carcare e Cairo, per poter avere una comunicazione diretta (tramite il
mare) con l'Europa Centrale passando sempre su territori in suo possesso: per
que-sto motivo la Spagna tenterà più volte di impadronirsi, per esempio, di
questa zona finché l'acquisto del marchesato di Finale (che si estendeva
appunto fino a Carcare) le permetterà finalmente nel 1598 di congiungere
direttamente i suoi possedimenti, coinvolgendo però la Val Bormida in tutte le
vicende che vedranno questa potenza contrapposta al Piemonte e alla Francia.
Non faremo in questa sede una
descrizione dei fatti bellici e diplomatici
che ebbero come teatro,’Italia settentrionale in quel periodo, né
descriveremo i complicati contorcimenti, militari e diplomatici, di allora.
Ci limiteremo semplicemente a vederne
gli effetti sul territorio valbormidese
Prima di passare alla esposizione dei
contraccolpi valbormidesi di tale guerra è però utile un'ulteriore precisazione
circa l'assetto politico-istituzionale dell'area valbormidese all'epoca
dei fatti. All'epoca la Val Bormida non era un'entità politica e
giurisdizionale unitaria, non faceva cioè parte di un unico Stato: al contrario
su di essa si incrociavano i confini di almeno quattro stati fra i quali il suo
territorio era spartito.
Mentre l'area piemontese al di là di
Roccavignale e a valle di Cengio apparteneva al Ducato di Savoia, Millesimo,
Cosseria, Biestro e Plodio erano per metà soggetti al Monferrato, per metà
dell'Impero, cui apparteneva anche Cengio; Altare, Mallare, Roccavignale, Dego,
Piana e Giusvalla erano pertinenza del Marchesato del Monferrato e quindi del
Ducato di Mantova, Rocchetta, Cairo e Vigneroli appartenevano per 3/4 al
Monferrato e per 1/4 a Milano e quindi alla Spagna (1),
Carcare, Pallare, Bormida, Calizzano e Massimino erano passati alla Spagna,
proprio in quegli anni, in seguito alla vendita dell'ex Marchesato di Finale da
parte dell'ultimo Marchese Del Carretto, Sforza Andrea.
Tutti questi paesi, con l'esclusione di
quelli amministrati dalla Spagna, erano poi governati direttamente da un
feudatario locale (che per gli abitanti rappresentava il padrone diretto ed
immediato) discendente, con poche eccezioni (es. Roccavignale, Mallare, Cairo)
dalla casata dei Del Carretto.
Tale situazione assai complessa dal
punto di vista giuridico e politico, risultato di una stratificazione di
rapporti di potere feudali protrattasi per secoli, oltre a esporre queste
terre ai contraccolpi di tutte le
vicende politiche e militari che interessavano questi stati, determinava anche pesanti e negativi contraccolpi sulla vita
economica della zona. Possiamo infatti facilmente immaginare, e ricostruire
tramite l'abbondante documentazione esistente, i notevoli intralci posti
all'attività commerciale, che non solo doveva fare i conti con un arcipelago
monetario veramente vasto, ma che era anche sottoposta a balzelli infiniti ad
ogni attraversamento delle numerose frontiere che solcavano la valle:
ricordiamo per esempio i posti di dogana lungo il torrente Nanta a Carcare o
lungo il crinale di Costabella-Biestro sopra Millesimo tra Spagna e Feudi Imperiali, quelli al Ponte della Volta al Vispa di Carcare e
all'abbazia di Fornelli a Pallare tra Spagna e Monferrato, le "Mule" a Cosseria tra i territori dei Del Carretto
millesimesi e quelli cairesi degli Scarampi, Cà di Ferrè sopra Cairo, il "Rastrello" a monte di
Altare, il "Baraccone" sopra Mallare tra Monferrato e Repubblica di
Genova etc.).
Fra soldati e briganti
I primi scontri tra il Piemonte e il
Monferrato si ripercuotono immediatamente in Val Bormida fin dall'aprile del
1613: in quell'anno Carlo Emanuele di Savoia penetra
nella valle della Bormida conquistando Roccavignale, Camerana, Gottasecca e Altare. Il Governatore
di Milano invia rinforzi spagnoli che
costringono il duca piemontese a ripiegare. Ma Carlo Emanuele era ostinato e
l'anno successivo riprende le ostilità: nuovamente gli Spagnoli inviano grossi
contingenti in Val Bormida, occupando Millesimo e Cairo, mentre le truppe piemontesi discendono la valle della Bormida di
Millesimo fino a Cortemilia.
Gli scontri coinvolgono anche la popolazione civile, i soldati si
abbandonano a ruberie e devastazioni, specie nei confronti di edifici sacri. Ecco come si esprime al riguardo nel 1619 il vescovo di Acqui, alla cui diocesi appartenevano alcuni centri della Val Bormida: "empi militari rubarono in chiesa pissidi, calici ed indumenti per celebrare. Ruppero tabernacoli, sconciarono immagini sacre semine umano pollutione, monti di pietà derubati, sacerdoti percossi, fonti battesimali dissacrati. I soldati spogliavano e poi vendevano e venivano a loro volta spogliati dai civili derubati"()E anche quando le attività militari
segnano il passo l'assenza di truppe regolari non significava, per gli abitanti di questa terra, pace e tranquillità: bande di
banditi, al soldo di qualcuna delle potenze in lotta, ora di Genova,
ora del Duca sabaudo, desolavano le campagne. Le loro scorrerie hanno lasciato tracce
più nella memoria popolare che in documenti scritti: talora però ci si imbatte,
casualmente, in qualche testimonianza del loro
passaggio.
È il caso di una banda di 60 banditi, che
nel 1622 terrorizzò Biestro, Dego e Piana.
Una lettera che Giò. Battista Pollerio,
figlio del cancelliere del Vescovo di Savona scrisse il 3 agosto di quell'anno
da Spigno al padre, così ricorda
l'accaduto: "Noi giunsimo Domenica
sera a salvamento in Spigno, et la notte seguente sessanta banditi
andarono a Piana,dove si trattenimmo i tre o quattro hore la domenica, et
gittorno giù le porte del Morretto li saccheggarono la casa et fer lui con suo
figliolo prigione et solamente hanno relaxato il padre. Poco prima dedero assalto
per prendere il Capitano di Dego"([2])
Banditi anche a Giusvalla e Spigno, dove
sono ricordati "circa 100 uomini malviventi che assaltarono le munizioni (i
rifornimenti di cibo) di Sua Maestà (il
Re di Spagna) e di già hanno ammazzato 5 uomini a cavallo e
rubato farina e altre munizioni ([3]).
Nel 1624 la guerra torna a colpire i paesi dell' alta Val Bormida: francesi e savoiardi penetrano nella valle uccidendo e saccheggiando. Un caso fortuito, una relazione di un ufficiale napoleonico rinvenuta in un archivio parigino e risalente al 1807, ci permette di venire a conoscenza di uno di questi fatti d'arme che vide come vittime gli abitanti di un villaggio valbormidese, Calizzano.
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| Calizzano nel '600: visibile il "rastrello" per controllare iltraffico in tempo di peste |
Abbiamo quindi una memoria di fatti
risalenti al '600 e "congelata" ai primi anni dell'800, in
un'epoca in cui molti particolari potevano essere ancora noti e le manomissioni
anche involontarie, che necessariamente avvengono nei vari passaggi "orali"
di una tradizione fra una generazione e la successiva, non ancora massicce.
Ecco come dall'ufficiale francese furono
annotati i fatti di quel lontano 1624, a lui raccontati a Calizzano:
E così Calizzano avrebbe subito un
saccheggio a causa di una donna non indifferente al tintinnio dell'oro; se poi
abbia potuto goderselo, la storia non ce lo dice.
Passa un anno, e la guerra ritorna,
questa volta scegliendo si come teatro Cairo Montenotte. In questo paese, all'
inizio di luglio del 1625, truppe franco sabaude dirette verso Savona, terra
della Repubblica di Genova, bloccano nel castello e nel borgo cinto da mura un
corpo di circa 400 soldati napoletani agli ordini degli Spagnoli.
Castello e paese vengono quindi
sottoposti a un lungo bombardamento: 144 colpi tira ti da una batteria
collocata tra S. Caterina e il Buglio raggiungono l'obiettivo demolendo anche
diverse abitazioni civili ([5])..
Pochi giorni dopo tocca agli abitanti di
Biestro conoscere i disastri dell'occupazione
militare, in questo caso dei soldati della Repubblica di Genova che, il
9 luglio, rubano il bestiame ed incendiano buona parte del paese ([6]).
Nello stesso periodo guerra e violenza
anche a Giusvalla, i cui "Agenti della Comunità" fanno un voto
alla Vergine per "essere liberati da una a lor dannosissima et
fastidiosissima molestia che gli era infesta da soldatesca francese et
savoiarda accampata a Dego".
Il saccheggio di Carcare e l'assedio di
Roccavignale
Dopo tre anni durante i quali le armi
tacciono, la guerra si riaccende ancora in Val Bormida. Questa volta ad essere investito dai franco-piemontesi è Carcare: qui nel luglio del 1628, come leggiamo nelle pagine di
uno storico piemontese ([7]) "avendo l'armata spagnola scorso (saccheggiato) il vercellese, Sua Reale Altezza (il
Duca di Savoia) mandò il conte di Verrua e poichè il castello di Cairo e
quello delle Carchere fecero qualche difesa, essendo stati presi furono
totalmente rovinati con grandissimo danno di quei signori i quali conobbero
quanto grave pazzia fosse voler cozzare coi principi vicini che sono
potenti".
Pochi chilometri più a valle, a
Rocchetta di Spigno, ancora guerra: cambiano i protagonisti,
ai piemontesi si sostituiscono i francesi, ma il
risultato è lo stesso, e le violenze non
risparmiarono neppure le chiese, al punto che il Rettore di quella S. Maria
scrive desolato al Vescovo di Savona che "doppo che li francesi furono
in la Rocchetta in questi tempi di guerra restò la detta chiesa polluta (contaminata) per gli homicidi in essa seguiti ( .. ) le case e la canonica
restarono abbruciate" ([8])
Passano pochi mesi e il pendolo della
guerra torna ad abbattersi sull'alta Val Bormida, coinvolgendo
in particolare Altare e Roccavignale. Questi due paesi erano possedimento
dei Marchesi di Grana, soggetti al Monferrato e quindi legati alle vicende del
Ducato di Mantova: furono pertanto
anch'essi coinvolti dalle vicende della già ricordata guerra di successione.
| Tipico soldato del '600 |
Non desiste però dalla sua
"politica del carciofo" con la quale cerca di annettersi, un paese
dopo l'altro, il Monferrato.
E’ quanto meno probabile che sia stato lui
ad istigare il feudatario di Roccavignale e
Altare a ribellarsi al nuovo Duca di Mantova. Per richiamare
all'obbedienza il feudatario, quest'ultimo ricorre all'aiuto delle truppe
francesi che da Casale si dirigono minacciose sui due centri valbormidesi.
Possiamo rivivere quanto allora successe
nelle pagine precise e minuziose del Gioffredo, la cui opera è molto utile per
ricostruire particolari anche minuti di quanto allora successe. Così scrisse
leggiamo: ([9]):
"Essendosi il marchese di Grana
rivoltato contro il Duca di Mantova di cui era vassallo per le terre che aveva
nel Monferrato, Altare e Roccavignale, e non volendo riconoscere altri che
l'Imperatore, il Duca ne scrisse al sig. di Toiras, che fu poi maresciallo di Francia e al quale il Re (di Francia) aveva addossato la
condotta delle sue armi nelMonferrato; Toiras ordinò al Conte di Riberdu e al
sig. d'Essant di andare con due compagnie a sforzare il castello d'Altare ".
I soldati francesi puntano sul castello,
in pratica poco più di un grosso torrione, nel quale il marchese di Grana aveva
inviato una guarnigione che, dopo aver issato la bandiera imperiale, si
appresta a resistere.
Alle intimazioni di resa gli assediati "risposero
che volevano tener per l'Imperatore sino all'ultimo spirito".
Le truppe francesi muovono all'assalto.
A questo punto i difensori, "vedendo poi che i francesi avevano
attaccato i martelletti ed altre macchine alla muraglia, e che si incominciava
a zappare per farla saltar in aria con le mine, si resero a patti, che furono d'uscire portando seco solo la spada ".
I fatti ricordati da Gioffredo ben illustrano una delle caratteristiche più notevoli
delle guerre dell'epoca. A combattere erano prevalentemente truppe di mestiere: capaci di scagliarsi con estrema disinvoltura sulle
indifese comunità contadine, mostravano invece una certa prudenza negli scontri
con altre truppe, scontri condotti, si direbbe, in economia, con un occhio
attento a provocare - cioè a ricevere - i minori danni
possibili: in fondo, se non c'erano differenze di
religione, i soldati avversari erano una sorta di colleghi, e fra colleghi, se
si può, si cerca di non pestarsi troppo i piedi.
E così i fieri difensori di Altare, "che volevano
tener per l'Imperatore fino all'ultimo spirito ", depongono
immediatamente le armi non appena vedono che l'avversario stava per far saltare
le mura.
Non sempre, però, la guerra era condotta
con simile consapevolezza dell'opportunità personale o di casta: talvolta viene
combattuta con aggressività e determinazione. È
questo quanto successe a Roccavignale, il cui
castello, che controllava l'accesso all'importante strada per la val Belbo, fu oggetto di
un assedio durato 18 giorni ad opera delle truppe francesi reduci dalla facile
vittoria altarese: se ad Altare era stato facile, a
Roccavignale fu però tutta un'altra cosa. Ma vediamo ancora una volta la
descrizione lasciataci dal Gioffredo:
"Più difficile fu l'impresa di Roccavignale, distante da Savona non più di
otto miglia,circondata d'alte montagne, di malevolo accesso per l'essere il di
lei castello posto su uno scoglio, tagliato tutto intorno in precipizio, con un
torrente che, scorrendogli alle radici da una parte, fa che solamente da un
canto se gli possa, chi lo vuoi assalire, avvicinare; ed oltre a ciò era
diligentemente custodito da un molto coraggioso gentilhuomo alessandrino".
Le truppe francesi, comandate dal già
ricordato Maresciallo di Francia, si radunano intorno al castello: in tutto sono 1500 fanti e 150 cavalieri, una
forza non indifferente per l'epoca. L'artiglieria è rappresentata da due piccoli pezzi da campagna, con i quali, il
17 agosto, si apre il fuoco contro le mura: "Ordinata che fu la
batteria, ed abbattute in gran parte le difese, ricorda il Gioffredo, vollero
i francesi, coprendosi con mantelletti ed altre invenzioni, attaccarsi alla
muraglia e dar l'assalto.
Ma essendo la salita
stretta e precipitosa, ed animosamente difendendosi quei di dentro, una gran
parte di essi vi rimasero feriti o ammazzati".
I piccoli pezzi di cui disponevano i
francesi non sono però in grado di demolire le spesse muraglie. Viene allora
fatto arrivare da Casale un grosso pezzo di artiglieria che "avendo
atterrato sufficiente spazio di muraglia fece risolvere i difensori a
capitolare la resa, che fu accordata di uscire portando solamente le armi, dopo
aver sostenuto l'assedio per 18 giorni". A questo punto i francesi si accingono a demolire il castello a
forza di mine per non doverlo
presidiare, immobilizzando così parte delle loro forze. Ne sono però impediti
dall'avvicinarsi minaccioso delle truppe spagnole e si allontanano, lasciandosi
alle loro spalle il rudere semidemolito che possiamo
ancor oggi ammirare.
La strage di Osiglia
Abbiamo appena ricordato come le guerre
di allora coinvolgessero talora pesantemente la popolazione civile. Ciò è particolarmente vero per la guerra che oppose Spagna e
Genova al Piemonte fra il 1625 e il 1634, nella quale a fianco delle truppe per
così dire regolari combattevano (o meglio, imperversavano) anche bande
irregolari.
Ecco, per
esempio, cosa successe ad Osiglia, i cui abitanti, diventati
sudditi della Spagna dal 1598, si trovarono inopinatamente "nemici"
dei piemontesi. E così in un non precisato momento
compreso fra il 1625 e il 1634,
un drammatico fatto di
sangue scosse il piccolo centro, un fatto la cui memoria si era perduta e che
solo le pagine manoscritte di un cronista di allora, il Della Chiesa, hanno
tramandato fino a noi.
Così scrisse lo storico piemontese ([10]):
"Ozeria (Osiglia} che
come si è detto è terra del marchesato di Finale (possedimento spagnolo) avendo in
questi anni passati dato al Colonello Bertomelino o sia Sertorio Pozzoverasco, capo dei ladri, qualche disgusto, volendosene quell'uomo risentire, occupata con l'assistenza dè suoi bravi la porta di un oratorio dei Disciplinanti,
mentre un giorno di festa si celebravano i Divini Uffizi, con fame tagliar una
quantità a pezzi, fè di què meschini crude l macello".
Di quale fatto di sangue fu dunque
testimone il sagrato dell' oratorio dei Disciplinanti di Osiglia?
Pare possibile ricostruire l'accaduto in
questi termini: un "colonello" al servizio del Piemonte, a capo di una banda di soldati-briganti, capita nel piccolo
borgo. Evidentemente c'è qualche scontro tra popolazione, immaginiamo poco propensa a subire
prepotenze e ruberie, e il nostro "colonello capo dei ladri": i suoi "bravi" massacrano allora sul sagrato
della chiesa un gruppo di abitanti che usciva da messa e nelle nostre terre
rivivono le imprese del"Conte
del sagrato" di
manzoniana memoria. Più in dettaglio possiamo ricordare che Bertomelino era- un genovese che "havendo commesso a Genova infiniti
homicidi rimasti senza gastigo" era poi stato condannato a morte.
Fuggito, si era posto al servizio del
Duca di Savoia, in guerra con Genova, dal quale era stato messo a capo di una banda di irregolari specializzata, più che
nella lotta contro le truppe hispano-genovesi,
in saccheggi nei confronti della popolazione inerme. Riuscì anche a ritornare a
Genova grazie ad appoggi di cui godeva che però
ad un certo punto cessarono. Fu così incarcerato.
Tentò allora l'evasione calandosi da una
finestra "tagliate le coperte a strisce" ma la corda
improvvisata si ruppe e Bartomelino cadde spezzandosi una gamba. Nuovamente imprigionato, restò dietro le sbarre fino all'età di
85 anni, quando venne finalmente liberato. "Datosi già prima tutto a
Dio", ricorda un cronista dell'epoca, fu collocato
nel ridotto chiamato a Genova "l'albergo de'vecchi" dove finì i suoi giorni da buonissimo
cristiano nel 1665 e
fu sepolto nella chiesa di San Nicola da Tolentino fuori della porta
carbonara"([11]): un pentimento
ed una vocazione alla santità invero un poco tardiva, almeno dal punto di vista dei nostri osigliesi, quella di questo strano personaggio che
effettivamente . ben ricorda, fin nei particolari della
strage sul sagrato di una chiesa e della successiva conversione, il personaggio manzoniano
dell'Innominato. Ma è anche un fatto riguardante la storia della Val Bormida di cui, senza la casuale scoperta di uno stinto manoscritto in una tranquilla biblioteca
torinese, non sapremmo
nulla.
L'episodio di Osiglia è uno squarcio di luce sanguigna e corrusca in un periodo
di cui poco si sa relativamente
alla Val Bormida.
Poi, per alcuni
anni, gli avvenimenti
militari segnano una pausa,
imposta agli eserciti dall'estremo grado di miseria cui gli stessi avevano ridotto tanti paesi.
Sui campi calpestati dai soldati, sulla popolazione portata alla fame dal passaggio continuo di truppe indisciplinate, scende un
Per un breve periodo le armi tacciono, e
anche i soldati guatano con terrore questo nuovo avversario che fa il loro lavoro con
tanta maggiore efficienza. La guerra langue, ma la popolazione trema: "Le
strade non sono sicure per gli
Alemanni che commettono molti inconvenienti" (!), scriverà il 3 gennaio del 1631 il
parroco di Spigno al suo Vescovo a Savona, "non
si può menare il grano nè a Piana nè a Giusvalla per causa della soldatesca", e ancora, il 24 dello stesso mese, "si
teme più tosto guerra che pace, nè gli Alemanni
si partono da queste parti per la novità dei francesi in Savoia e Piemonte “ ([12]).
Molti "inconvenienti" gli alemanni commetteranno anche in Val
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| Cairo nel '600 |
Il secondo saccheggio di Carcare
Cessata la peste, agli abitanti della
Val Bormida vengono concessi pochi anni di relativa tranquillità, come se una maligna natura volesse permettere
loro di raccogliere le forze per resistere ad altre sventure.
Arriva il 1636. Con l'inizio dell'anno
riappaiono uomini in armi: sono i Piemontesi che si spingono fino a Millesimo, da tempo nel mirino dell'espansionismo sabaudo. Il Duca di
Savoia controllava infatti il marchesato di Ceva e voleva estendere i suoi
domini sui feudi circostanti. TI conte di Millesimo Nicolò Del Carretto non si
piega però né alle lusinghe (una pensione di duemila ducatoni che "egli
avrebbe potuto godersi segretamente o apertamente in qualsiasi parte o degli
Stati sabaudi o dove gli fosse maggiormente piaciuto" ([14]) né alle minacce del Duca.
Vittorio Amedeo I usa allora l'inganno: in gennaio, appresa la notizia dello sbarco di truppe spagnole
sulla riviera ligure di ponente, fa venire il conte di Millesimo a Ceva e lo imprigiona
nel palazzo del governatore, il marchese Pallavicino. Contemporaneamente ordina
al Governatore di Mondovì di occupare con un presidio militare il
castello di Cengio.
Sotto la violenza delle armi Nicolò è
così costretto a sottoscrivere un accordo, in virtù del quale cede al Duca i
feudi di Millesimo e di Cengio, località quest'ultima particolarmente appetita per la presenza
delle notevoli fortificazioni del locale castello; e così, il 28 gennaio 1636,
il sergente Giò Matheo, castellano di Cengio alle dipendenze del Conte Nicolò,
lascia il castello con armi e bagagli, portando
cioè seco "una spada, una colubrina a fucile, 18 stara di grano suo proprio, stara tre di farina, sette di castagne, 18 mozuele di vino ([15])
e viene sostituito, al
comando del castello, dal capitano Francesco Sardo governatore deputato da
S.A.R. il
duca di Savoia.
Ovviamente appena rilasciato il conte si
affretta a disconoscere il contratto impostogli, ma i piemontesi mantengono il
controllo del castello di Cengio e si dirigono minacciosi su Carcare,
abbandonato dal presidio spagnolo che lo occupava.
Cairo viene fortificata. In questa
circostanza le autorità spagnole si sentono in dovere di tranquillizzarne gli
abitanti promettendo che dai soldati inviati ''per la difesa del loco" non
sarebbe avvenuto "gravemento alcuno per la comunità" ([16]):
e se si dovevano tranquillizzare gli abitanti quando si mandavano soldati
per la loro difesa, immaginiamo quale dovesse essere la
situazione quando ad avvicinarsi erano truppe nemiche.
L'anno successivo, in quel sadico gioco
a tira e molla in cui si riduceva la guerra, sono gli Spagnoli che rioccupano
molti centri dell' alta Val Bormida. Intervengono allora nuovamente le truppe
piemontesi che si impadroniscono di Saliceto e obbligano gli spagnoli a
ritirarsi, un'altra volta, su Cairo ([17]).
L'avanzata franco-piemontese non si
ferma, dilaga in Val Bormida, prima Carcare e poi Cairo vengono saccheggiati.
Ancora una volta gli archivi
parrocchiali ci permettono di passare dalla storia generale alle sue
conseguenze dirette sulla vita quotidiana: Carcare venne saccheggiato, abbiamo
ricordato, e una puntuale annotazione lasciata su
un registro dell'archivio parrocchiale dall'allora parroco G.Barbieri ([18])
entra nei dettagli
dell'accaduto. Così scrisse dunque il parroco di Carcare:
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| L'annotazione del parroco sul saccheggio di Carcare |
Cengio 1639: sette giorni di fuoco
Pochi mesi di tranquillità e poi in Val
Bormida divampano ancora una volta gli scontri, con epicentro nella zona di
Spigno dove, nel 1637, arriva l'armata di Spagna. II parroco, si direbbe con stanca rassegnazione, non può che annotare sui suoi registri come "ci troviamo
nel colmo di disgusti e travagli perchè è arrivata l'armata di Spagna che ha finito il poco avanzato dai francesi (([19]). Malgrado ciò "voglia il cielo che qui resti,
continua il parroco, perchè dai
savoiardi non manchiamo di essere minacciati". E invece l'armata spagnola, guidata da Martino di Aragona, sconfitta nella piana antistante
il paese dai piemontesi del duca Amedeo di Savoia, dovrà presto andarsene.
Due anni più tardi la guerra si avvicina a Millesimo: fra Saliceto, Cengio e Cairo si trovavano concentrate parecchie migliaia di soldati francesi, piemontesi e spagnoli. Questi ultimi, nella primavera del 1639, profittando della complicata situazione in cui si trovava il Piemonte all'epoca della cosiddetta "guerra civile", mirano all'occupazione del potente castello di Cengio, che il possente circuito di fortificazioni di cui era stato dotato (a spese della popolazione!) aveva tramutato in una ben difesa chiave per l'ingresso in Piemonte.
Concentrata nella pianura di Saliceto
una forza di 7000 uomini e 1700 cavalieri, fatti venire da tutto il Piemonte (e passando per Merana avevano trovato il tempo di saccheggiarne la chiesa, d. Martino d'Aragona sta per muovere all'assalto del castello, al cui interno
sono asserragliati soldati franco-piemontesi.
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| Il castello di Cengio dopo la guerra del 1637 |
La perdita del comandante, subito
sostituito da D. Antonio Sotelo, non arrestò però la guerra.
L'assalto continua ed in breve gli spagnoli sono padroni di Saliceto, di cui
danneggiano il castello. Ma il vero obiettivo deve
ancora essere raggiunto: sette giorni
occorrono per aver ragione dei difensori del castello di Cengio, sette giorni,
dal 23 al 30 marzo di accaniti combattimenti, contro i
difensori interni e i rinforzi che i franco-piemontesi inviavano dal Piemonte attraverso il
passo di Montezemolo.
E sarà proprio sulla stretta lingua di
terra tra il castello di Cengio e la strada Roccavignale-Montezemolo che avverrà, il 27 marzo, lo
scontro più sanguinoso fra la cavalleria spagnola e le truppe francesi che
cercavano di forzare il blocco dall'esterno:
una "scaramuccia che durò 8 hore, con morte di 400 e feriti 800
per la parte dei francesi", come icorda la didascalia di un'acquaforte
conservata nella Biblioteca Nazionale di Madrid ed illustrante l'assedio del
castello di Cengio pubblicata da O. Colombardo ([21]).
Respinti, i francesi rinunciano al tentativo di portar soccorsi agli assediati.
Quando gli ultimi occupanti si arrendono, sul terreno resteranno, fra francesi, piemontesi e spagnoli- ma il dato andrebbe
verificato- oltre 500 caduti. In seguito a questa vittoria tutta la zona fra
Millesimo e Cengio viene occupata dagli Spagnoli, ma sarà
una presenza tutt'altro che definitiva.
Carcare 1644: un castello salta in aria
Questa lunga guerra, che ormai da quasi
una generazione imperversava su quasi tutta l'Europa, andava avanti a
singhiozzo, alternando a fasi di scontri momenti di relativa tranquillità.
Anche le nostre terre conobbero questa strana altalena di guerra e pace, specie negli anni fra il 1639 e il 1644: per tutto questo tempo
non ci furono - in alta Val Bormida - avvenimenti militari di una certa risonanza, e per la popolazione furono mesi di
relativa sicurezza. Intendiamoci, mancanza di guerra non significava
automaticamente pace e tranquillità.
C'era infatti il passaggio continuo di
soldati specie spagnoli, diretti verso la
Lombardia. E anche quando si trattava, caso raro, di truppe disciplinate, che
non volevano "insegnar la verecondia alle ragazze o alleggerire i
contadini dalla fatica della vendemmia", come ricorda il Manzoni, restava pur sempre il non indifferente onere, per i paesi attraversati da tali truppe, di fornir loro cibo e alloggio: e non
era un peso da sottovalutare. Sappiamo, per esempio, che Millesimo dal 1612 al 1625 dovette dare alloggiamento, il
che in pratica significava l'obbligo del mantenimento, a diverse compagnie di
soldati spagnoli e napoletani.
Dal 1633 al 1656 gli ospiti, immaginiamo tutt'altro che graditi e poco esigenti, furono invece
le truppe piemontesi che occupavano il paese: oltre 10.000 "alloggiamenti"
(cioè giornate di presenza di un soldato) fra il 28 febbraio del 1636 e il 18
aprile dell'anno successivo. E se cambiava la nazionalità, i metodi e le
pretese degli ospiti erano invece sempre uguali ([22]).
A Carcare, invece,
sono le truppe Alemanne (cioè dell'Impero) che chiedono di esse- re foraggiate: nel 1631, in un sol giorno, come ricordato da un registro dell'archivio
parrocchiale, il sindaco ''per ordine di Bernardo Crotti (?) consegna agli Alemanni 64 (K?) di fieno([23]).
E poi, all'improvviso, nuovi fuochi di guerra divampavano subitanei,
come successe a Carcare nel 1644.
È l'alba del 24 aprile: un reparto
franco-piemontese si insinua silenzioso fra le case del paese, non circondato da mura. I soldati
passano davanti al Collegio,
attraversano la "piazzetta
del pozzo", scivolano lungo la riva del Bormida. Un ultimo balzo sopra il
nuovo ponte in legno, appena ricostruito dopo che la piena del 1621 aveva fatto
crollare un' arcata del
precedente, e sarebbero al loro obiettivo, il castello situato lungo la sponda
sinistra, dove ora c'è l'asilo.
Ma dal castello qualcuno dà
l'allarme, la scarna guarnigione - questa volta - si
difende, i franco-piemontesi devono battere in
ritirata, sfogando la loro rabbia sulle case indifese, molte delle quali vengono
saccheggiate ([24]).
In ottobre i franco-piemontesi, per distrarre gli spagnoli dall'occupazione del
vercellese, fanno una nuova puntata offensiva nelle
Langhe. Ancora una volta Carcare è nel mirino, il suo castello viene assediato
da truppe di cavalleria.
La guarnigione spagnola che lo presidia,
20 uomini al comando di Domingo de Casas, tenta una difesa, ma "despues de havello difendido ocho dias" si
arrende "con les capitulaciones de
buena guerra "([25]): i francesi riescono così ad occupare il
paese.
Con l'arrivo dell'inverno la situazione
muta ancora: da Cengio gli spagnoli fannoun'improvvisa sortita, mettono in fuga
le guarnigioni francesi di Millesimo, Roccavignale, arrivano a Carcare. In
questo paese, sorpresi dall'improvviso assalto, "i francesi che stavano di presidio nelle Carcare, dopo aver minato
il castello di quella terra, lo fecero volare in aria il giorno 5 del
suddetto mese di dicembre" ([26]).
E
un altro si salva ...
Per un castello che salta in aria, un
altro, quello di Cengio, si salva per il rotto della cuffia. In quello stesso 1644, infatti, i francesi tentano contro questo
fortilizio un'azione di sabotaggio degna della migliore spy-story.
Ma lasciamo ancora una volta la parola
al Ghilini (op.cit.,278), minuzioso ragioniere di quelle lontane vicende
di guerra: "In quell'anno il
Governatore (spagnolo) del
Cengio veniva avvertito da una spia mandata apposta dai francesi, del passaggio
di due bestie da soma con un carico di polvere da sparo poco lontano dal
castello.
Avendo perciò egli,
senza perder tempo, inviato alcuni soldati a fame bottino, essi lo conseguirono
con tanta facilità che, insospettito di qualche inganno, comandò che non si
mettesse detta polvere accanto all'altra, nel luogo della munizione, ma che si
lasciasse allo scoperto e lungi dall'abitato, come fu eseguito.
Dopo tre giorni, non
essendosi notato alcunchè di strano, la polvere fu riposta in una di quelle
guardiole, dove fanno la guardia le sentinelle: mentre però si effettuava un
cambio del turno di guardia la polvere si accese spontaneamente ed esplodendo
ferì tre soldati e rovinò qualche fortino intorno.
Si veniva intanto a
sapere che circa 2000 fanti francesi attrezzati con scale e alcuni reparti di
cavalleria erano dislocati intorno al castello pronti ad occuparlo, in attesa che esplodesse ogni cosa, poichè tenevano per
indubitato che il Governatore di quella piazza, subito fatto il bottino di essa polvere, dovesse farla mettere nel
magazzino delle munizioni e che poi accesasi con l'artificio da loro
inventato nei barili, attaccasse fuoco all'altre e tutta insieme con le altre
munizioni consumasse. Onde svanito il loro disegno e svanita per conseguenza siffatta risoluzione, se ne ritornarono
pieni di mortificazione ai loro quartieri".
E mentre i francesi se ne ritornano con la coda fra le gambe, scornati perché il loro brillante innesto chimico a scoppio ritardato era stato reso inefficace dalla prudenza
del comandante spagnolo, nuovi venti di guerra investono Millesimo.
In quello stesso dicembre, infatti, la guarnigione
spagnola di Cengio fa una sortita contro i francesi che presidiavano Millesimo,
cagionando 50 perdite al nemico fra morti e feriti e obbligando gli altri a rifugiarsi a Cairo.
Analoga sorte
subisce una compagnia francese acquartierata a Roccavignale,
anch'essa assalita all'improvviso e costretta ad abbandonare precipitosamente
il castello ([27]).
Il costo della guerra
Quelli sopra descritti sono i principali eventi bellici che ebbero come teatro la Val Bormida in
quegli anni, risultato immediato in sede locale della" guerra
dei trenta anni". Essi produssero direttamente morte e distruzione
nella valle. Ma le conseguenze
più devastanti,e non solo per la Val Bormida, furono quelle
indirette.
"Supplichiamo humilmente V.E. .. "
La guerra
determinò infatti una generalizzata miseria e
l'impoverimento di diverse comunità, soprattutto
quelle che, come Carcare, e Cairo, erano situate sulla via di transito delle truppe dirette in Lombardia o nelle immediate
vicinanze. Tutti questi soldati in transito
dovevano essere
alloggiati e, spesso mantenuti.
Ciò spiega le frequentissime suppliche che alcuni paesi, e principalmente Carcare,
Millesimo ([28])
e Cairo, furono costretti ad inviare alle Autorità Spagnole per chiedere di essere esentate
da un peso che finiva per rovinarli.
Indicativa al riguardo la disperata richiesta che le Autorità Comunali Cairesi inviarono al Governatore Spagnolo di Milano il 26 maggio
1616 con la quale esse "supplicano humilmente V.E. che si degni per carità di dar ordine che si levino dalla detta terra detti soldati", il cui mantenimento è causa di "esterminio di detta povera terra" e obbliga gli abitanti "a lasciare le loro case e terre in abbandono, trovandosi essi talmente esausti che più non ponno resistere".
Siamo in grado anche di quantificare, proprio nel caso di Cairo, le
dimensioni degli obblighi derivanti dal mantenimento dei soldati di passaggio: dal 1600 al 1616 Cairo dovette
dare ospitalità
a 1876 "compagnie" di soldati spagnoli, che salirono a 2009 per il periodo
compreso fra il 1616 e il 1618 ([29]). Il tutto rese necessario un
indebitamento della Comunità per “ più di
scudi trenta milla, che tanto non vale il Territorio ".
Non era però solo il mantenimento dei
soldati ad impensierire le popolazioni: le truppe di passaggio spesso pesavano sugli abitanti esigendo una serie di piccoli o
grandi servizi cui non si poteva dire di no e per i quali solo raramente c'era rimborso: dal fornire alle truppe bestie da tiro, per trasportare i
bagagli, alla consegna di denari o derrate
alimentari ([30]),
al foraggiamento della
cavalleria di passaggio. C'erano poi le corvèes cui la popolazione era
obbligata sotto forma di "lavori forzati":
particolarmente pesante, per esempio, quella imposta nel 1645 a Millesimo i cui
abitanti, insieme a quelli di Altare e Cairo, devono andare a ripristinare il
fossato del castello di Acqui. Per gli abitanti di Cosseria, invece, al danno si uniscono le beffe: prima pagano 500 fiorini ''per
liberarsi d'andare a demolire le muraglie di Cairo "([31]), poi devono mandarvi egualmente 10 uomini
per 66 giorni ([32]). Logico quindi che in tali circostanze
gli sfortunati valbormidesi cercassero in qualche modo protezione: ma anche
allora quale debole voce proveniente dalla Val Bormida sarebbe stata in grado
di arrivare fino ai potenti?
In tutta la valle c'era solo una istituzione
che poteva sperare di essere almeno udita, anche se ciò non voleva dire
esaudita: la chiesa. Soprattutto il Collegio dei Padri Scolopi di Carcare, esistente da poco ma già noto fuori dai confini della Valle,
cercò - e in parte ebbe - aiuti e protezione per sé e per gli abitanti
del paese.
Ecco quindi le diverse
"salvaguardie" chieste e ottenute dal Collegio in quegli anni tumultuosi;
nel 1637 è un ufficiale al servizio del Re di Spagna, Borso d'Este, Prencipe
di Modena colonello in fanteria alemana per servitio di Sua Maestà Cesarea et
Chatolica, a promettere ai Padri delle Scuole Pie
tutela e protezione, estesa anche alle "terre, cassine, huomini, bestiame et ogni sorta di frumento".
Nessun soldato spagnolo avrebbe dovuto "svaligiarli
o in nessuna maniera molestarli sotto la pena massima". L'anno successivo, cambiati i
padroni, cambiano i protettori:
ad intervenire è infatti la già citata Madama Cristina, sorella del re di Francia e Reggente del Duca di Savoia, la
quale mette sotto la sua protezione assoluta non solo i Padri maanche "gli
agenti, servitori, fitta voli, massari, benementari, lavoratori et operari e tutti altri loro beni” ([33]).
Quale valore effettivo avessero poi
queste "salvaguardie" è reso evidente da alcune testimonianze
relative alla situazione di Carcare.
Solo un anno dopo la promessa del "Prencipe
di Modena colonello in fanteria ", per limitarci ad un significativo esempio,
il padre scolopio G. Crisostomo Peri scrive, da questo paese, una lettera a S.
Giuseppe Calasanzio, il fondatore del Collegio. In essa il sacerdote, accennando ai
movimenti delle truppe spagnole dirette verso il castello di Cengio .
presidiato da quelle franco-piemontesi, ricorda che "l'Armata francese
stata qui (a Carcare) 13 giorni ha rovinato tutto questo povero
luogo: le biade che erano così belle sono state mangiate dai cavalli in luogo
di fieno e non c'è speranza di poterne raccogliere messe alcuna” ([34])
Ne1 1654, invece, il notaio Ignazio Bonino di Cairo ricorda che "la
comunità di Carcare resta poverissima e distrutta ( .. ) anche per essere stato più volte questo luogo distrutto e
sacheggiato per le guerre da i nemici (i franco piemontesi) e per gli alloggiamenti dati e fatti alle genti di S.M. Cattolica (gli spagnoli) loro padrone, a
segno che ancora hora si vedono buona parte delle case inhabitate, senza porte
e fenestre "([35]).
Quattro anni più tardi, nel 1658, il Conte di Monesiglio Carlo Amedeo Caldera rilascia una ''fede'',
oggi diremmo un'autocertificazione scritta, in cui si ricorda "essere
il suo (di Carcare) territorio povero e sterile et il popolo molto diminuito et mancato per il
contaggio che l'anni passati l'ha tormentato ( ... ). Sarebbe luogo disabitato, massime che dal Piemonte fu posto fuoco alle case con occisione di molte persone “([36]): se queste erano le conseguenze della
raccomandazioni regali, immaginiamo cosa doveva succedere ai paesi.
.. e quello di Cosseria
La burocrazia è sempre stato un pesante
fardello che l’uomo si trascina dietro: a nostra parziale consolazione possiamo
ricordare che essa è un male antico. E proprio un minuzioso atto burocratico relativo al 1639 ci fornisce, una volta tanto, interessanti informazioni circa le conseguenze
dirette, sotto forma di spese e danni materiali, determinate dalla guerra in un
paese dell’alta Val Bormida, Cosseria.
Si tratta di un dettagliato elenco
compilato il 24 gennaio 1639 dal notaio Bosio, cancelliere della Comunità di
Cosseria, comprendente tutti i danni che la guerra e la permanenza delle truppe
sabaude arrecarono alla popolazione e ai beni di Cosseria nei tre anni compresi fra il 1637 e il ‘39.
Ci pare interessante riportarlo
integralmente perché esso, al di là della fredda aridità delle cifre, ci
permette di conoscere, con la pignoleria del ragioniere, tutti i danni (beninteso
solo quelli quantificabili in viI denaro) che una guerra estranea ed
incomprensibile determinò su una povera comunità contadina.
Il testo del documento è il seguente:
“Nota delli danni patiti dalli huomini di
Cosseria fatti dalli soldati di S.A.R. duca di Savoia come in appresso:
Prima per alloggiamento dè soldati stati
a Millesimo da 28 febbraio
1636 sino a 18 aprile 1637 in conformità dell’accordo seguito tra
il Sindico di Cosseria e Baldassare Fassola sindico del
sudetto luogo, che sono alloggiamenti 10200 che ci spetta
per la parte nostra, come fede del suddetto Fassola fiorini 15455,5.
Segue quando passò l’artiglieria per la
presa del Cairo: fieno rubbi 4524 che valsero f. 9048; biava stara 189 a f. 13,5 il staro = f. 2551; lingeria, lana e lino canne 263 = f. 7101; bronzi n.19, libre 293,5 a f. 6 la libra =f 1761; vino
stara 249 a f. 40 il staro =f.
9960; grano stara 161 a
f. 32 il staro = f.
5152; pane rubbi 34
= f. 544; robbiole rubbi 6 = f. 240; bestie prese = f. 7425; bestie raccatate = f. 513; ferri da massaro = f. 4239.
Segue denari pagati in contanti per
contribuzione come sotto:
Cap.no Pietro Castagna e Carlo Morelli ingeniero ([37]) f. 591; cap. no Antonio Galianodi Bolino f. 8965; cap. no Stefano Cialdora f. 4230; cap. no Gientile f. 1561; cap.no Francesco Bottero f. 400; al luogotenente del cap.no Rangone f. 240; a Francesco Piccardo f 200; cap.no Ottavio Filippa f. 1971; a maestro Biaggio Capo d’Opera f. 80: ascendono alla somma di f. 18238. -
Leonello Oliveri
[3]) V. SCAGLIONE, Per
non dimenticare un mondo che abbiamo perduto, Cairo 1992, p. 38
[4] ) Si tratta di una di
quelle relazioni degli ingegneri geografi di napoleone presentate in questo stesso blog
[5] ) E. ZUNINO, Cairo e le
sue vicende nei secoli, Cairo 1929. Un'epigrafe dipinta nella Cappella di
N.S. del Bosco ricorda tale fatto: "Anno 1625 die Julii Gallorum
et Allobroqum exercitus oppidum Carii obsidet, oppugnat, vi capit tormenti muralis 144 ictibus explosis,
victores multa depopulantur, postero autem die liberatis oppidanis Virgine
intercedente recedunt".
[6] ) G. NOVELLA, Carcare
nel 600 tra cronaca e storia, Cengio 1991, p. 24. I Genovesi avevano già incendiato una prima volta Biestro nel 1571
asportando tutti gli armenti ed incendiando nel loro recesso la maggior
parte del paese (Torino, Arch. di Stato, Arch. Del Carretto, cart. 114, n.
920
[7] ) A. DELLA CHIESA, Descrizione del Piemonte, Ms., Bib!. Rea!., To., p. 11
[8] ) Savona, arch. vescovile, pacco Spigno, lettera del 30/3/1628
[9] ) P. GIOFFREDO, Storia delle Alpi Marittime, Torino, 1889, VI, 433.
[10] ) A.F. DELLA CHIESA, Descrizione del Piemonte, Ms., Torino, Bibl. Reale
[11] ) Su questo personaggio
v. L. OLIVERI, Un massacro
ad Osiglia nel 1630: chi era Bartomelino Sartorio,
in "Alta Val
Bormida", XXVI, n. 7,1985. Y. anche G. CASANOVA, La Liguria centro occidentale e l'invasione franco-piemontese nel 1625, Genova 1983, pp. 30, 80, 106, 126, 167, 174, etc.; G.. VERZELLlNO, Memorie e uomini illustri della città di Savona, curate e documentate da A. Astengo, Savona 1885, II, 248.
[12]) Archivio vescovi1e di Savona, Vicariato di Spigno, lettere del 3 e 24 gennaio 1631
[13] ) GASPARE BUFFA (1832-1893), cairese, fu autore di saggi poetici e storici. Collaborò come pubblicista al Corriere
Mercantile di
Genova e
fu preside dell'ateneo genovese.
[14]) Cit. da O. COLOMBARDO, Cengio e i Signori Del Carretto, Cengio 1983, p. 78.
[15] ) O. COLOMBARDO, op. cit., p.79
[16] ) E.
ZUNINO, op.cit., p.146sgg.
[17] ) Vittorio Amedeo "qual folgore di Giove venne
a ferire ove non minacciava posciaché, fingendo di godere i trastulli della
caccia a Torino, li colse quando meno lo pensavano": così almeno
ricorda la baroccheggiante prosa secentesca del Codrato nella sua Palma
trionfante. (Cit. da B. MOZZONE, Monografia di Saliceto, Savona
1937, p. 168).
[18] ) Archivio Parrocchiale Carcare, libro dei
battesimi 1625/1641.
L'annotazione è in parte illeggibile, il testo recuperabile
è il seguente:
"Dicto anno 1637 lì 25 Julii locus
Carcherarum
depredatus
est, castrum redditum Comiti
Verruce generali
ducis sabaudie qui sub eius fide publice iurata (sed dedit pcenas statim Vercellis una cum duce Sabaudie et
Collonnello de Cerrutis de
Montisregalis ac Colonnello de ... )
permisit primo Pedemontanis, deinde Sabaudiis tercio Gallis
depredacione huius loci, ex portando
pretiosaque una cum vilibus, quod ignominia sic est ( ... ) ecclesite omnes direptce.
Ita ut cani possit illud psalmista; facti fuimus obbrobrium vicinis nostris sub (dan?) natis et ( .. .) qui in circuitum sunt. Le scorrerie durarono per più di sette mesi, e tutto il popolo lacrima sfrattando chi in
un loco chi in un altro. E nella terra non vi resta che certe donne ( ... ). L'Alfiere spagnolo rese il castello all'apparire del nimico: se prendesse denari o no, incertum est"
[19] ) V SCAGLIONE, Giusvalla etc., cit., p. 38
[20] ) G. GHILINI, op. cit., p. 141.
[21] ) op. cit., pp.88-89
[22] ) V. PALADINO, op. cit., p. 407
[23] ) Carcare,
Archivio Parrocchiale, Libro dei matrimoni 1623-1642, ultima pag. Purtroppo il
simbolo che indica l'unità di misura, vagamente simile ad una K, è - almeno per
me - incomprensibile.
[24]) Ecco come G. Ghilini, Annali di Alessandria, m, 252,
ricorda l'avvenimento: "4 ottobre 1644. Il Governatore di Ceva che
aveva fatto in quella terra con molta segretezza un ammasso di 1300 fanti,
parte francesi e parte piemontesi, uscì la notte antecedente alli 24 aprile e
nel far del giorno accostatosi alle Carchere, luogo delle Langhe, vi entrò
senza contrasto alcuno non essendo quella né forte né prevenuta di alcune
difese, e pensando di entrare con la stessa facilità nel palazzo, che per
batteria di mano potendo servire in vece di castello era guardato da pochi
soldati, vi fece, ma indarno, qualche tentativo, poiché mentre gli assediati attendevano
a valorosamente difendersi, diedero tempo al mastro di campo Giovanni di
Castro, governatore di Finale, che venisse in loro aiuto, come di già vi era,
con sufficiente numero di fanti, incamminato per combattere i nemici, i quali
avvisati della mossa, dopo aver saccheggiato molte case, fecero ritorno a Ceva
",
[25] ) P. GI0FFREDO, Storia delle Alpi Marittime,
cit., VI, p. 615.
[26] ) G. GHILlNI, op. cit., p. 227. La distruzione fu tale, probabilmente, da rendere inabitabile il
castello: una cartina genovese di un secolo
successiva lo raffigura infatti in pianta definendolo "castello diruto ". Ne rimasero però
tratti notevoli tanto che ancora nel 1885 A.G.
Barrili ricorda "la grande mole
quadrata di rossi mattoni, ma senza tetto e sfiancata, perché
le erano andati a rifascio due lati. Ma i
due che rimanevano in piedi erano belli nella robustezza delle forme
colossali e nella nobiltà dei grossi cordoli
di pietra che correvano per tutta la lunghezza dei muri, dando un saggio
notevole della forte e severa architettura del Quattrocento" (A.G.
BARRlLI, Amori alla macchia, Milano 1885, p. 67). Sopravissuti alle mine
francesi, i resti del castello di Carcare non sopravissero invece alle autorità
comunali della fine dell'800 che, proprio negli anni della descrizione del
Barrili ne deliberarono la distruzione "senza che nessuna commissione
artistica ed archeologica abbia protestato, senza che nessun ingegnere, nessun
fotografo abbia pensato a conservarcene almeno l'effige" (Ibidem, 68);
e così chi voglia oggi immaginare l'aspetto del castello che sorgeva dove ora
c'è l'ampia piazza Cavaradossi non ha che gli scarni schizzi eseguiti, intorno
al 1880, da Clemente Rovere.
[27] ) Così il GHILINI
(op. cit., p. 253) ricorda
l'avvenimento "Al principio di dicembre avendo già determinato i Governatori (spagnoli) di Finale e
del Cengio di scacciare da Millesimo i francesi che vi stavano di guarnigione,
quello di Cengio, vedendosi a tempo la buona congiuntura di dargli addosso
senza aspettare il Governatore di Finale, li sopraggiunse tanto all'improvviso
che ne restarono fra morti e prigionieri cinquanta circa e gli altri furono
costretti a salvarsi con la fuga nel Cairo, come anche poco dopo i detti
presidi del Finale e di Cengio ruppero una compagnia di francesi che stava acquartierata
in Roccavignale, nelle Langhe”
[28]) "L'archivio comunale di Millesimo conserva le liste di tutte le imposizioni di guerra, oltre agli alloggiamenti, cui fu soggetto Millesimo comefeudo dell'Impero" (D. FRACCHIA, Storia di Millesimo, Ginevra 1975, p. 31).
[29] ) La supplica fu pubblicata da E. ZUNINO, Cairo etc.,
cit., p.137-38. I dati relativi alle "compagnie" sono invece
riportati in una relazione a stampa intitolata "Per la terra del Cairo
nelle Langhe. Sopra la pretensione dell'Impresaro del Dacio delle Carchere che
gli huomini del Cairo sono tenuti pagare il Dacio passando sempre sopra il suo
territorio per una stra da che si chiama Ferrania, senza mai toccare il
Marchesato del Finale nè altra giurisdizione", s.a., 1671 (colI.
priv.). Purtroppo non è chiaro il significato del termine "compagnie
", non si capisce cioè se il numero alluda alle giornate totali di
presenza o se indichi gruppi di soldati: nel qual caso dovrebbe evidentemente
venir ulteriormente moltiplicato.
[30] ) Nel luglio
del 1625 Spigno deve, per riportare un esempio, fornire alle truppe spagnole
"120 denari e 50 robiole al dì" (v. G.B. PIO, op. cit., 128)
[31] ) Bibl. Civ. Torino, f. BOSIO,
Miscellanea.
[32] ) E il fatto sarà ricordato dal Consiglio Comunale di Cairo che nel 1637,
in una supplica al Governatore di Milano, ricorderà come gli
abitanti "hanno sofferto pel servizio di S.M. la demolizione delle muraglie e castello. fabriche cospicue e insigni, replicati e barbari saccheggi con rovina ed incendi delle case" (E. ZUNINO, op. cit., p. 141
[33] ) Entrambi i
documenti sono pubblicati da V. DERAPALlNO, Un collegio nelle Langhe,
Savona 1972, p. 114 e 116.
[34] ) La lettera è pubblicata da F. ISOLA, Carcare e le
Scuole Pie, Savona 1897, p. 80.
[35] ) G. NOVELLA, Carcare nel 600 fra cronaca e storia, Cengio 1991, p. 93
[36] ) V. DERAPALINO, Un collegio nelle Langhe,
Savona 1972, p. 98.
[37] ) 45) L' "ingeniero Carlo Morelli" ricordato nel testo è colui che diresse l'opera di costruzione delle fortificazioni che fecero del castello di Cengio un poderoso baluardo (v. O. COLOMBARDO, op. cit., passim).
[38] ) Il documento è conservato a Torino, Bibl. Civ., f. BOSIO
[39] )S.TICINETO, Il Marchesato di Finale con Carcare,
Calizzano etc. sotto la dominazione spagnola nel XVII sec. GRIFL 1999,
pp.146-149: 1 rubbo = 8 kg., 1 mezarola
=90 l., 1 staro di grano = 37 kg
(valori approssimativi)
[40]) Riteniamo che questo dato debba (o possa) essere
letto come si leggono quelli delle attuali presenze alberghiere; si presuppone
quindi che esso sia stato ottenuto moltiplicando il numero dei soldati per il
numero delle giornate di presenza di ciascuno.
[41] ) S. TICINETO, op. cit., p. 149: “il fiorino del XVII sec. Non aveva più niente a che vedere col fiorino
basso-medievale (..) era una moneta di metallo non nobile”; p. 150: “il
salario medio di un uomo era 3 fiorini al giorno, alcuni artigiani che
esercitavano un’attività specifica e difficile, come i muratori,(..)
percepivano un salario giornaliero molto più elevato, pari a 5 -6- fiorini”






