venerdì 26 gennaio 2024

LA VAL BORMIDA DURANTE LA GUERRA DEI TRENTA ANNI (1618- 1648)

  

«Ed ecco apparve un cavallo verdastro
colui che lo montava aveva nome Morte
e l'Ade lo seguiva. Gli fu dato il potere di portare
lo sterminio ( ... ) con la spada, la fame, la peste» 

 (Apocalisse 6,7)

Leonello Oliveri
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Scopo del presente post è ricostruire i principali avvertimenti che ebbero come teatro l'alta Val Bormida nel burrascoso periodo noto come "Guerra dei trenta anni", che sconvolse l'intera Europa dal 1618 al 1648, quantificando nel contempo gli aspetti oggettivi dei due principali fenomeni, la guerra e la peste, che coinvolsero la nostra valle.



Caratteristica essenziale della ricerca è che essa è basata prevalentemente su documenti e dati conservati negli archivi locali, soprattutto parrocchiali, in notevole parte non ancora noti.

Sono infatti gli archivi parrocchiali delle chiese della Val Bormida a permetterei di constatare quali furono sul territorio le ripercussioni pratiche di quel trentennio di lotte che lacerò tutto il mondo occidentale all'inizio del XVII secolo e che vide anche la Val Bormida come campo di battaglia fra le armate di mezza Europa, Spagna e Francia in testa.

Le conseguenze furono drammatiche per la comunità contadina valbormidese, e si tradussero in una parola che riempì di sgomento i cuori e di cadaveri i cimiteri: la peste, quella resa famosa dal Manzoni.

 Val Bormida area a rischio (bellico)

Ci si potrebbe chiedere in che modo e per quale motivo una guerra che vide come principali protagonisti la Spagna e la Francia, come terreno di scontro privilegiato (se così si può dire) l'Europa settentrionale, abbia potuto interessare anche quello sperduto angolo fra i monti che era la Val Bormida all'inizio del '600.

Alla base di tutto ci fu una motivazione di tipo strategico-greografico: la Val Bormida, nel caso specifico quella di Pallare-Carcare-Cairo, era attraversata dall'unica  strada che dal mare, tramite la rada di Finale, il Monferrato e la Lombardia spagnoli, garantiva alla Spagna i collegamenti con i suoi possedimenti in Italia Settentrionale (Ducato di Milano in primo luogo) e, attraverso essi, l'Europa centro-occidentale.  Tale  fatto si ripercosse pesantemente sulla valle e sulla gente, facendole subire i contraccolpi della tumultuosa politica che allora gravitava attorno alla Spagna.

Dopo aver imposto il proprio protettorato sul Monferrato, tramite il Ducato di Mantova, alla Spagna mancava infatti solo la stretta striscia di terra compresa fra Finale, Bormida, Pallare, Carcare e Cairo, per poter avere una comunicazione diretta (tramite il mare) con l'Europa Centrale passando sempre su territori in suo possesso: per que-sto motivo la Spagna tenterà più volte di impadronirsi, per esempio, di questa zona finché l'acquisto del marchesato di Finale (che si estendeva appunto fino a Carcare) le permetterà finalmente nel 1598 di congiungere direttamente i suoi possedimenti, coinvolgendo però la Val Bormida in tutte le vicende che vedranno questa potenza contrapposta al Piemonte e alla Francia.

Non faremo in questa sede una descrizione dei fatti bellici e diplomatici  che ebbero come teatro,’Italia settentrionale in quel periodo, né descriveremo i complicati contorcimenti, militari e diplomatici, di allora.

Ci limiteremo semplicemente a vederne gli effetti sul territorio valbormidese

Prima di passare alla esposizione dei contraccolpi valbormidesi di tale guerra è però utile un'ulteriore precisazione circa l'assetto politico-istituzionale dell'area valbormidese all'epoca dei fatti. All'epoca la Val Bormida non era un'entità politica e giurisdizionale unitaria, non faceva cioè parte di un unico Stato: al contrario su di essa si incrociavano i confini di almeno quattro stati fra i quali il suo territorio era spartito.

Mentre l'area piemontese al di là di Roccavignale e a valle di Cengio apparteneva al Ducato di Savoia, Millesimo, Cosseria, Biestro e Plodio erano per metà soggetti al Monferrato, per metà dell'Impero, cui apparteneva anche Cengio; Altare, Mallare, Roccavignale, Dego, Piana e Giusvalla erano pertinenza del Marchesato del Monferrato e quindi del Ducato di Mantova, Rocchetta, Cairo e Vigneroli appartenevano per 3/4 al Monferrato e per 1/4 a Milano e quindi alla Spagna (1), Carcare, Pallare, Bormida, Calizzano e Massimino erano passati alla Spagna, proprio in quegli anni, in seguito alla vendita dell'ex Marchesato di Finale da parte dell'ultimo Marchese Del Carretto, Sforza Andrea.

Tutti questi paesi, con l'esclusione di quelli amministrati dalla Spagna, erano poi governati direttamente da un feudatario locale (che per gli abitanti rappresentava il padrone diretto ed immediato) discendente, con poche eccezioni (es. Roccavignale, Mallare, Cairo) dalla casata dei Del Carretto.

Tale situazione assai complessa dal punto di vista giuridico e politico, risultato di una stratificazione di rapporti di potere feudali protrattasi per secoli, oltre a esporre queste terre  ai contraccolpi di tutte le vicende politiche e militari che interessavano questi stati, determinava anche pesanti e negativi contraccolpi sulla vita economica della zona. Possiamo infatti facilmente immaginare, e ricostruire tramite l'abbondante documentazione esistente, i notevoli intralci posti all'attività commerciale, che non solo doveva fare i conti con un arcipelago monetario veramente vasto, ma che era anche sottoposta a balzelli infiniti ad ogni attraversamento delle numerose frontiere che solcavano la valle: ricordiamo per esempio i posti di dogana lungo il torrente Nanta a Carcare o lungo il crinale di Costabella-Biestro sopra Millesimo tra Spagna e Feudi Imperiali, quelli al Ponte della Volta al Vispa di Carcare e all'abbazia di Fornelli a Pallare tra Spagna e Monferrato, le "Mule" a Cosseria tra i territori dei Del Carretto millesimesi e quelli cairesi degli Scarampi, Cà di Ferrè sopra Cairo, il "Rastrello" a monte di Altare, il "Baraccone" sopra Mallare tra Monferrato e Repubblica di Genova etc.).

 

 Fra soldati e briganti

I primi scontri tra il Piemonte e il Monferrato si ripercuotono immediatamente in Val Bormida fin dall'aprile del 1613: in quell'anno Carlo Emanuele di Savoia penetra nella valle della Bormida conquistando Roccavignale, Camerana, Gottasecca e Altare. Il Governatore di Milano invia rinforzi spagnoli che costringono il duca piemontese a ripiegare. Ma Carlo Emanuele era ostinato e l'anno successivo riprende le ostilità: nuovamente gli Spagnoli inviano grossi contingenti in Val Bormida, occupando Millesimo e Cairo, mentre le truppe piemontesi discendono la valle della Bormida di Millesimo fino a Cortemilia.

Gli scontri coinvolgono anche la popolazione civile, i soldati si

abbandonano a ruberie e devastazioni, specie nei confronti di edifici sacri. Ecco come si esprime al riguardo nel 1619 il vescovo di Acqui, alla cui diocesi appartenevano alcuni centri della Val Bormida: "empi militari rubarono in chiesa pissidi, calici ed indumenti per celebrare. Ruppero tabernacoli, sconciarono immagini sacre semine umano pollutione, monti di pietà derubati, sacerdoti percossi, fonti battesimali dissacrati. I soldati spogliavano e poi vendevano e venivano a loro volta spogliati dai civili derubati"()

E anche quando le attività militari segnano il passo l'assenza di truppe regolari non significava, per gli abitanti di questa terra, pace e tranquillità: bande di banditi, al soldo di qualcuna delle potenze in lotta, ora di Genova, ora del Duca sabaudo, desolavano le campagne. Le loro scorrerie hanno lasciato tracce più nella memoria popolare che in documenti scritti: talora però ci si imbatte, casualmente, in qualche testimonianza del loro passaggio.

È il caso di una banda di 60 banditi, che nel 1622 terrorizzò Biestro, Dego e Piana.

Una lettera che Giò. Battista Pollerio, figlio del cancelliere del Vescovo di Savona scrisse il 3 agosto di quell'anno da Spigno al padre, così ricorda l'accaduto: "Noi giunsimo Domenica sera a salvamento in Spigno, et la notte seguente sessanta banditi andarono a Piana,dove si trattenimmo i tre o quattro hore la domenica, et gittorno giù le porte del Morretto li saccheggarono la casa et fer lui con suo figliolo prigione et solamente hanno relaxato il padre. Poco prima dedero assalto per prendere il Capitano di Dego"([2])

Banditi anche a Giusvalla e Spigno, dove sono ricordati "circa 100 uomini malviventi che assaltarono le munizioni (i rifornimenti di cibo) di Sua Maestà (il Re di Spagna) e di già hanno ammazzato 5 uomini a cavallo e rubato farina e altre munizioni  ([3]).

Nel 1624 la guerra torna a colpire i paesi dell' alta Val Bormida: francesi e savoiardi penetrano nella valle uccidendo e saccheggiando. Un caso fortuito, una relazione di un ufficiale napoleonico rinvenuta in un archivio parigino e risalente al 1807, ci permette di venire a conoscenza di uno di questi fatti d'arme che vide come vittime gli abitanti di un villaggio valbormidese, Calizzano.

Calizzano nel '600: visibile il "rastrello"
per controllare iltraffico in tempo  di peste

Si tratta di una testimonianza assai indiretta, di quasi due secoli posteriore ai fatti: ci sembra comunque utile riportarla in quanto relazioni di questo tipo, assai interessanti per la Val Bormida, furono in genere redatte dagli ufficiali napoleonici sulla base di fatti tramandati oralmente e raccontati agli stessi dagli abitanti dei vari centri e soprattutto dai parroci, che, fra l'altro, conoscevano i loro archivi parrocchiali anche in quelle parti che le vicende delle guerre napoleoniche fecero poi - per noi – scomparire ([4]).

Abbiamo quindi una memoria di fatti risalenti al '600 e "congelata" ai primi anni dell'800, in un'epoca in cui molti particolari potevano essere ancora noti e le manomissioni anche involontarie, che necessariamente avvengono nei vari passaggi "orali" di una tradizione fra una generazione e la successiva, non ancora massicce.

Ecco come dall'ufficiale francese furono annotati i fatti di quel lontano 1624, a lui raccontati a Calizzano:


"Questo castello (di Calizzano) ha sofferto diversi assedi di cui non si sanno le epoche e particolarità eccetto quello dell'anno 1624, quando i Francesi l'hanno assediato: i quali non potendolo

espugnare con velocità, atteso la gran difesa che facevano, corruppero a forza di denaro la moglie del molinaro il cui molino si trovava nella torre rotonda verso est, entrarono per il mulino e presero il castello e il paese. Le case furono tutte saccheggiate e rovinate alla riserva di qualche d'una".

E così Calizzano avrebbe subito un saccheggio a causa di una donna non indifferente al tintinnio dell'oro; se poi abbia potuto goderselo, la storia non ce lo dice.

Passa un anno, e la guerra ritorna, questa volta scegliendo si come teatro Cairo Montenotte. In questo paese, all' inizio di luglio del 1625, truppe franco sabaude dirette verso Savona, terra della Repubblica di Genova, bloccano nel castello e nel borgo cinto da mura un corpo di circa 400 soldati napoletani agli ordini degli Spagnoli.

Castello e paese vengono quindi sottoposti a un lungo bombardamento: 144 colpi tira ti da una batteria collocata tra S. Caterina e il Buglio raggiungono l'obiettivo demolendo anche diverse abitazioni civili ([5])..

Pochi giorni dopo tocca agli abitanti di Biestro conoscere i disastri dell'occupazione  militare, in questo caso dei soldati della Repubblica di Genova che, il 9 luglio, rubano il bestiame ed incendiano buona parte del paese ([6]).

Nello stesso periodo guerra e violenza anche a Giusvalla, i cui "Agenti della Comunità" fanno un voto alla Vergine per "essere liberati da una a lor dannosissima et fastidiosissima molestia che gli era infesta da soldatesca francese et savoiarda accampata a Dego".

 

Il saccheggio di Carcare e l'assedio di Roccavignale

Dopo tre anni durante i quali le armi tacciono, la guerra si riaccende ancora in Val Bormida. Questa volta ad essere investito dai franco-piemontesi è Carcare: qui nel luglio del 1628, come leggiamo nelle pagine di uno storico piemontese ([7]) "avendo l'armata spagnola scorso (saccheggiato) il vercellese, Sua Reale Altezza (il Duca di Savoia) mandò il conte di Verrua e poichè il castello di Cairo e quello delle Carchere fecero qualche difesa, essendo stati presi furono totalmente rovinati con grandissimo danno di quei signori i quali conobbero quanto grave pazzia fosse voler cozzare coi principi vicini che sono potenti".

Pochi chilometri più a valle, a Rocchetta di Spigno, ancora guerra: cambiano i protagonisti, ai piemontesi si sostituiscono i francesi, ma il risultato è lo stesso, e le violenze non risparmiarono neppure le chiese, al punto che il Rettore di quella S. Maria scrive desolato al Vescovo di Savona che "doppo che li francesi furono in la Rocchetta in questi tempi di guerra restò la detta chiesa polluta (contaminata) per gli homicidi in essa seguiti ( .. ) le case e la canonica restarono abbruciate" ([8])

Passano pochi mesi e il pendolo della guerra torna ad abbattersi sull'alta Val Bormida, coinvolgendo in particolare Altare e Roccavignale. Questi due paesi erano possedimento dei Marchesi di Grana, soggetti al Monferrato e quindi legati alle vicende del Ducato  di Mantova: furono pertanto anch'essi coinvolti dalle vicende della già ricordata guerra di successione.

Tipico soldato del '600
È il 1629: i rinforzi francesi provenienti d'oltralpe mettono in difficoltà il duca Carlo Emanuele I, fino all'ora all'offensiva.

Non desiste però dalla sua "politica del carciofo" con la quale cerca di annettersi, un paese dopo l'altro, il Monferrato.

E’ quanto meno probabile che sia stato lui ad istigare il feudatario di Roccavignale e  Altare a ribellarsi al nuovo Duca di Mantova. Per richiamare all'obbedienza il feudatario, quest'ultimo ricorre all'aiuto delle truppe francesi che da Casale si dirigono minacciose sui due centri valbormidesi.

Possiamo rivivere quanto allora successe nelle pagine precise e minuziose del Gioffredo, la cui opera è molto utile per ricostruire particolari anche minuti di quanto allora successe. Così scrisse leggiamo: ([9]):

"Essendosi il marchese di Grana rivoltato contro il Duca di Mantova di cui era vassallo per le terre che aveva nel Monferrato, Altare e Roccavignale, e non volendo riconoscere altri che l'Imperatore, il Duca ne scrisse al sig. di Toiras, che fu poi maresciallo di Francia e al quale il Re (di Francia) aveva addossato la condotta delle sue armi nelMonferrato; Toiras ordinò al Conte di Riberdu e al sig. d'Essant di andare con due compagnie a sforzare il castello d'Altare ".

I soldati francesi puntano sul castello, in pratica poco più di un grosso torrione, nel quale il marchese di Grana aveva inviato una guarnigione che, dopo aver issato la bandiera imperiale, si appresta a resistere.

Alle intimazioni di resa gli assediati "risposero che volevano tener per l'Imperatore sino all'ultimo spirito".

Le truppe francesi muovono all'assalto. A questo punto i difensori, "vedendo poi che i francesi avevano attaccato i martelletti ed altre macchine alla muraglia, e che si incominciava a zappare per farla saltar in aria con le mine, si resero a patti, che furono d'uscire portando seco solo la spada ".

I fatti ricordati da Gioffredo ben illustrano una delle caratteristiche più notevoli delle guerre dell'epoca. A combattere erano prevalentemente truppe di mestiere: capaci di scagliarsi con estrema disinvoltura sulle indifese comunità contadine, mostravano invece una certa prudenza negli scontri con altre truppe, scontri condotti, si direbbe, in economia, con un occhio attento a provocare - cioè a ricevere - i minori danni possibili: in fondo, se non c'erano differenze di religione, i soldati avversari erano una sorta di colleghi, e fra colleghi, se si può, si cerca di non pestarsi troppo i piedi.

E così i fieri difensori di Altare, "che volevano tener per l'Imperatore fino all'ultimo spirito ", depongono immediatamente le armi non appena vedono che l'avversario stava per far saltare le mura.

Non sempre, però, la guerra era condotta con simile consapevolezza dell'opportunità personale o di casta: talvolta viene combattuta con aggressività e determinazione. È questo quanto successe a Roccavignale, il cui castello, che controllava l'accesso all'importante  strada per la val Belbo, fu oggetto di un assedio durato 18 giorni ad opera delle truppe francesi reduci dalla facile vittoria altarese: se ad Altare era stato facile, a Roccavignale fu però tutta un'altra cosa. Ma vediamo ancora una volta la descrizione lasciataci dal Gioffredo:

"Più difficile fu l'impresa di Roccavignale, distante da Savona non più di otto miglia,circondata d'alte montagne, di malevolo accesso per l'essere il di lei castello posto su uno scoglio, tagliato tutto intorno in precipizio, con un torrente che, scorrendogli alle radici da una parte, fa che solamente da un canto se gli possa, chi lo vuoi assalire, avvicinare; ed oltre a ciò era diligentemente custodito da un molto coraggioso gentilhuomo alessandrino".

Le truppe francesi, comandate dal già ricordato Maresciallo di Francia, si radunano  intorno al castello: in tutto sono 1500 fanti e 150 cavalieri, una forza non indifferente per l'epoca. L'artiglieria è rappresentata da due piccoli pezzi da campagna, con i quali, il 17 agosto, si apre il fuoco contro le mura: "Ordinata che fu la batteria, ed abbattute in gran parte le difese, ricorda il Gioffredo, vollero i francesi, coprendosi con mantelletti ed altre invenzioni, attaccarsi alla muraglia e dar l'assalto. Ma essendo la salita stretta e precipitosa, ed animosamente difendendosi quei di dentro, una gran parte di essi vi rimasero feriti o ammazzati".

I piccoli pezzi di cui disponevano i francesi non sono però in grado di demolire le spesse muraglie. Viene allora fatto arrivare da Casale un grosso pezzo di artiglieria che "avendo atterrato sufficiente spazio di muraglia fece risolvere i difensori a capitolare la resa, che  fu accordata di uscire portando solamente le armi, dopo aver sostenuto l'assedio per 18 giorni". A questo punto i francesi si accingono a demolire il castello a forza di mine per non  doverlo presidiare, immobilizzando così parte delle loro forze. Ne sono però impediti dall'avvicinarsi minaccioso delle truppe spagnole e si allontanano, lasciandosi alle loro spalle il rudere semidemolito che possiamo ancor oggi ammirare.

 La strage di Osiglia

Abbiamo appena ricordato come le guerre di allora coinvolgessero talora pesantemente la popolazione civile. Ciò è particolarmente vero per la guerra che oppose Spagna e Genova al Piemonte fra il 1625 e il 1634, nella quale a fianco delle truppe per così dire regolari combattevano (o meglio, imperversavano) anche bande irregolari.

Ecco, per esempio, cosa successe ad Osiglia, i cui abitanti, diventati sudditi della Spagna dal 1598, si trovarono inopinatamente "nemici" dei piemontesi. E così in un non precisato momento compreso fra il 1625 e il 1634, un drammatico fatto di sangue scosse il piccolo centro, un fatto la cui memoria si era perduta e che solo le pagine manoscritte di un cronista di allora, il Della Chiesa, hanno tramandato fino a noi.

Così scrisse lo storico piemontese ([10]):

"Ozeria (Osiglia} che come si è detto è terra del marchesato di Finale (possedimento spagnolo) avendo in questi anni passati dato al Colonello Bertomelino o sia Sertorio Pozzoverasco, capo dei ladri, qualche disgusto, volendosene quell'uomo risentire, occupata con l'assistenza dè suoi bravi la porta di un oratorio dei Disciplinanti, mentre un giorno di festa si celebravano i Divini Uffizi, con fame tagliar una quantità a pezzi, fè di què meschini crude l macello".

Di quale fatto di sangue fu dunque testimone il sagrato dell' oratorio dei Disciplinanti di Osiglia?

Pare possibile ricostruire l'accaduto in questi termini: un "colonello" al servizio del Piemonte, a capo di una banda di soldati-briganti, capita nel piccolo borgo. Evidentemente c'è qualche scontro tra popolazione, immaginiamo poco propensa a subire prepotenze e ruberie, e il nostro "colonello capo dei ladri": i suoi "bravi" massacrano allora sul sagrato della chiesa un gruppo di abitanti che usciva da messa e nelle nostre terre rivivono le imprese del"Conte del sagrato" di manzoniana memoria. Più in dettaglio possiamo ricordare che Bertomelino era- un genovese che "havendo commesso a Genova infiniti homicidi rimasti senza gastigo" era poi stato condannato a morte.

Fuggito, si era posto al servizio del Duca di Savoia, in guerra con Genova, dal quale era stato messo a capo di una banda di irregolari specializzata, più che nella lotta contro le truppe hispano-genovesi, in saccheggi nei confronti della popolazione inerme. Riuscì anche a ritornare a Genova grazie ad appoggi di cui godeva che però ad un certo punto cessarono. Fu così incarcerato.

Tentò allora l'evasione calandosi da una finestra "tagliate le coperte a strisce" ma la corda improvvisata si ruppe e Bartomelino cadde spezzandosi una gamba. Nuovamente imprigionato, restò dietro le sbarre fino all'età di 85 anni, quando venne finalmente liberato. "Datosi già prima tutto a Dio", ricorda un cronista dell'epoca, fu collocato nel ridotto chiamato a Genova "l'albergo de'vecchi" dove finì i suoi giorni da buonissimo cristiano nel 1665 e fu sepolto nella chiesa di San Nicola da Tolentino fuori della porta carbonara"([11]): un pentimento ed una vocazione alla santità invero un poco tardiva, almeno dal punto di vista dei nostri osigliesi, quella di questo strano personaggio che effettivamente . ben ricorda, fin nei particolari della strage sul sagrato di una chiesa e della successiva conversione, il personaggio manzoniano dell'Innominato. Ma è anche un fatto riguardante la storia della Val Bormida di cui, senza la casuale scoperta di uno stinto manoscritto in una tranquilla biblioteca torinese, non sapremmo nulla.

L'episodio di Osiglia è uno squarcio di luce sanguigna e corrusca in un periodo di cui poco si sa relativamente alla Val Bormida.

Poi, per alcuni anni, gli avvenimenti militari segnano una pausa, imposta agli eserciti dall'estremo grado di miseria cui gli stessi avevano ridotto tanti paesi.

Sui campi calpestati dai soldati, sulla popolazione portata alla fame dal passaggio continuo di truppe indisciplinate, scende un

silenzio innaturale. Ma anche sotto le tende dei troppi eserciti che dissanguavano la valle c'è silenzio e morte; un nuovo nemico si aggira tra le lande desolate cui venti anni di guerra hanno ridotto l'Italia Settentrionale: è la peste, l'unica forza veramente democratica in tanta miseria disperata. Al suo subdolo assalto devono cedere tutti, poveri contadini e signori onorevoli.

Per un breve periodo le armi tacciono, e anche i soldati guatano con terrore questo nuovo avversario che fa il loro lavoro con tanta maggiore efficienza. La guerra langue, ma la popolazione trema: "Le strade non sono sicure per gli Alemanni che commettono molti inconvenienti" (!), scriverà il 3 gennaio del 1631 il parroco di Spigno al suo Vescovo a Savona, "non si può menare il grano nè a Piana nè a Giusvalla per causa della soldatesca", e ancora, il 24 dello stesso mese, "si teme più tosto guerra che pace, nè gli Alemanni si partono da queste parti per la novità dei francesi in Savoia e Piemonte “ ([12]).

Molti "inconvenienti" gli alemanni commetteranno anche in Val

Cairo nel '600

Bormida, per esempio a Cairo. In questo paese, come testimoniato da una tradizione popolare ancor viva alla metà del XVIII secolo, allorché fu raccolta e messa per scritto da Gaspare Buffa ([13]) "quei nostri guerrieri senza disciplina molestavano fieramente i tranquilli contadini". In particolare vittima di violenze e ruberie fu la borgata dei Bellini, che, per essere lontana dal centro abitato, era più indifesa di fronte ai razziatori. Questa frazione, quindi "dal 26 di febbraio per quattro giorni in preda si vide, come ricorda il nostro preciso cronista, di una banda di tedeschi ivi venuti senza alcun ordine ma solo al fine di far bottino con sette cavalli e tre asini di cui si servivano par asportare le prede. Conciossiachè tolsero a quegli sgraziati abitanti e granaglie e vino e castagne ed ogni sorta di vettovaglie, come anche le vestimenta, gli istrumenti rurali, gli utensili ed i bestiami; inoltre abbruciarono tutti i mobili di casa e porte e finestre e solai in quantità, senza lasciare di devastare le circonvicine vigne abbruciandone pali e pertiche".

 

Il secondo saccheggio di Carcare

Cessata la peste, agli abitanti della Val Bormida vengono concessi pochi anni di relativa tranquillità, come se una maligna natura volesse permettere loro di raccogliere le forze per resistere ad altre sventure.

Arriva il 1636. Con l'inizio dell'anno riappaiono uomini in armi: sono i Piemontesi che si spingono fino a Millesimo, da tempo nel mirino dell'espansionismo sabaudo. Il Duca di Savoia controllava infatti il marchesato di Ceva e voleva estendere i suoi domini sui feudi circostanti. TI conte di Millesimo Nicolò Del Carretto non si piega però né alle lusinghe (una pensione di duemila ducatoni che "egli avrebbe potuto godersi segretamente o apertamente in qualsiasi parte o degli Stati sabaudi o dove gli fosse maggiormente piaciuto" ([14]) né alle minacce del Duca.

Vittorio Amedeo I usa allora l'inganno: in gennaio, appresa la notizia dello sbarco di truppe spagnole sulla riviera ligure di ponente, fa venire il conte di Millesimo a Ceva e lo imprigiona nel palazzo del governatore, il marchese Pallavicino. Contemporaneamente ordina al Governatore di Mondovì di occupare con un presidio militare il castello di Cengio.

Sotto la violenza delle armi Nicolò è così costretto a sottoscrivere un accordo, in virtù del quale cede al Duca i feudi di Millesimo e di Cengio, località quest'ultima particolarmente appetita per la presenza delle notevoli fortificazioni del locale castello; e così, il 28 gennaio 1636, il sergente Giò Matheo, castellano di Cengio alle dipendenze del Conte Nicolò, lascia il castello con armi e bagagli, portando cioè seco "una spada, una colubrina a fucile, 18 stara di grano suo proprio, stara tre di farina, sette di castagne, 18 mozuele di vino ([15]) e viene sostituito, al comando del castello, dal capitano Francesco Sardo governatore deputato da S.A.R. il duca di Savoia.

Ovviamente appena rilasciato il conte si affretta a disconoscere il contratto impostogli, ma i piemontesi mantengono il controllo del castello di Cengio e si dirigono minacciosi su Carcare, abbandonato dal presidio spagnolo che lo occupava.

Cairo viene fortificata. In questa circostanza le autorità spagnole si sentono in dovere di tranquillizzarne gli abitanti promettendo che dai soldati inviati ''per la difesa del loco" non sarebbe avvenuto "gravemento alcuno per la comunità" ([16]): e se si dovevano tranquillizzare gli abitanti quando si mandavano soldati per la loro difesa, immaginiamo quale dovesse essere la situazione quando ad avvicinarsi erano truppe nemiche.

L'anno successivo, in quel sadico gioco a tira e molla in cui si riduceva la guerra, sono gli Spagnoli che rioccupano molti centri dell' alta Val Bormida. Intervengono allora nuovamente le truppe piemontesi che si impadroniscono di Saliceto e obbligano gli spagnoli a ritirarsi, un'altra volta, su Cairo ([17]).

L'avanzata franco-piemontese non si ferma, dilaga in Val Bormida, prima Carcare e poi Cairo vengono saccheggiati.

Ancora una volta gli archivi parrocchiali ci permettono di passare dalla storia generale alle sue conseguenze dirette sulla vita quotidiana: Carcare venne saccheggiato, abbiamo ricordato, e una puntuale annotazione lasciata su un registro dell'archivio parrocchiale dall'allora parroco G.Barbieri ([18]) entra nei dettagli dell'accaduto. Così scrisse dunque il parroco di Carcare:

"Il 25 luglio del 1637 il luogo di Carcare fu saccheggiato e il
L'annotazione del parroco 
sul saccheggio di Carcare
castello consegnato al conte Verrua, generale del Duca di Savoia che, contrariamente al giuramento fatto, ma pagò la pena (...) insieme con il Duca di Savoia, il colonello Cerrutis di Mondovì e il collo nello (...), permise prima ai Piemontesi, poi ai Sabaudi, infine ai Francesi il saccheggio di questo luogo, asportando sia le cose più preziose che quelle di poco valore (. .. ) le scorrerie durarono per più di sette mesi e tutto il popolo lacrima, sfrattando (scappando) chi in un luogo chi in un altro: e nel paese non ci resta che certe donne e uomini (. .. ) L'Alfiere (il rappresentante loca- le) spagnolo rese il castello all'apparire del nemico: se prendesse denari o no, incertum est". Ed ecco che vediamo le conseguenze dirette della guerra, con truppe di tre eserciti (prima i Piemontesi, poi i Sabaudi, infine i Francesi) che attendono pazientemente il proprio turno ... per saccheggiare il paese. Sette mesi di scorrerie, con la gente obbligata a scappare chi in un luogo chi in un altro. E mentre il popolo lacrima, cosa facevano i suoi "difensori", le balde truppe spagnole? All'apparire del nemico l'alfiere spagnolo rese il castello. Se prendesse denari, si chiede timidamente il buon parroco, incertum est." Come si vede, nulla di nuovo sotto il sole!

Cengio 1639: sette giorni di fuoco

Pochi mesi di tranquillità e poi in Val Bormida divampano ancora una volta gli scontri, con epicentro nella zona di Spigno dove, nel 1637, arriva l'armata di Spagna. II parroco, si direbbe con stanca rassegnazione, non può che annotare sui suoi registri come "ci troviamo nel colmo di disgusti e travagli perchè è arrivata l'armata di Spagna che ha finito il poco avanzato dai francesi (([19]). Malgrado ciò "voglia il cielo che qui resti, continua il parroco, perchè dai savoiardi non manchiamo di essere minacciati". E invece l'armata spagnola, guidata da Martino di Aragona, sconfitta nella piana antistante il paese dai piemontesi del duca Amedeo di Savoia, dovrà presto andarsene.

Due anni più tardi la guerra si avvicina a Millesimo: fra Saliceto, Cengio e Cairo si trovavano concentrate parecchie migliaia di soldati francesi, piemontesi e spagnoli. Questi ultimi, nella primavera del 1639, profittando della complicata situazione in cui si trovava il Piemonte all'epoca della cosiddetta "guerra civile", mirano all'occupazione del potente castello di Cengio, che il possente circuito di fortificazioni di cui era stato dotato (a spese della popolazione!) aveva tramutato in una ben difesa chiave per l'ingresso in Piemonte.

Concentrata nella pianura di Saliceto una forza di 7000 uomini e 1700 cavalieri, fatti  venire da tutto il Piemonte (e passando per Merana avevano trovato il tempo di saccheggiarne la chiesa, d. Martino d'Aragona sta per muovere all'assalto del castello, al cui interno sono asserragliati soldati franco-piemontesi.

Il castello di Cengio dopo la guerra del 1637

Le operazioni preliminari all'assedio richiedono però che siano sgomberati dagli avversari i centri vicini. Innanzitutto Saliceto, dove sono 300 francesi ben decisi a difendersi. Proprio mentre d. Martino prepara l'assalto al paese, dalle fortificazioni di Saliceto parte un colpo e il generale spagnolo, "colpito alla fronte da un lungo archibugio da uccellare, restò immediatamente morto con molta affitione di tutto l'esercito" ([20]): aveva 45 anni, era venuto in Italia per cercarvi la gloria e vi trovò invece la morte, eliminato da un anonimo sniper terrazzano, come allora si diceva, di Saliceto.

La perdita del comandante, subito sostituito da D. Antonio Sotelo, non arrestò però la guerra. L'assalto continua ed in breve gli spagnoli sono padroni di Saliceto, di cui danneggiano il castello. Ma il vero obiettivo deve ancora essere raggiunto: sette giorni occorrono per aver ragione dei difensori del castello di Cengio, sette giorni, dal 23 al 30 marzo di accaniti combattimenti, contro i difensori interni e i rinforzi che i franco-piemontesi inviavano dal Piemonte attraverso il passo di Montezemolo.

E sarà proprio sulla stretta lingua di terra tra il castello di Cengio e la strada Roccavignale-Montezemolo che avverrà, il 27 marzo, lo scontro più sanguinoso fra la cavalleria spagnola e le truppe francesi che cercavano di forzare il blocco dall'esterno: una "scaramuccia che durò 8 hore, con morte di 400 e feriti 800 per la parte dei francesi", come icorda la didascalia di un'acquaforte conservata nella Biblioteca Nazionale di Madrid ed illustrante l'assedio del castello di Cengio pubblicata da O. Colombardo ([21]). Respinti, i francesi rinunciano al tentativo di portar soccorsi agli assediati. Quando gli ultimi occupanti si arrendono, sul terreno resteranno, fra francesi, piemontesi e spagnoli- ma il dato andrebbe verificato- oltre 500 caduti. In seguito a questa vittoria tutta la zona fra Millesimo e Cengio viene occupata dagli Spagnoli, ma sarà una presenza tutt'altro che definitiva.

 

Carcare 1644: un castello salta in aria

Questa lunga guerra, che ormai da quasi una generazione imperversava su quasi tutta l'Europa, andava avanti a singhiozzo, alternando a fasi di scontri momenti di relativa tranquillità. Anche le nostre terre conobbero questa strana altalena di guerra e pace, specie negli anni fra il 1639 e il 1644: per tutto questo tempo non ci furono - in alta Val Bormida - avvenimenti militari di una certa risonanza, e per la popolazione furono mesi di relativa sicurezza. Intendiamoci, mancanza di guerra non significava automaticamente pace e tranquillità.

C'era infatti il passaggio continuo di soldati specie spagnoli, diretti verso la Lombardia. E anche quando si trattava, caso raro, di truppe disciplinate, che non volevano "insegnar la verecondia alle ragazze o alleggerire i contadini dalla fatica della vendemmia", come ricorda il Manzoni, restava pur sempre il non indifferente onere, per i paesi attraversati da tali truppe, di fornir loro cibo e alloggio: e non era un peso da sottovalutare. Sappiamo, per esempio, che Millesimo dal 1612 al 1625 dovette dare alloggiamento, il che in pratica significava l'obbligo del mantenimento, a diverse compagnie di soldati spagnoli e napoletani.

Dal 1633 al 1656 gli ospiti, immaginiamo tutt'altro che graditi e poco esigenti, furono invece le truppe piemontesi che occupavano il paese: oltre 10.000 "alloggiamenti" (cioè giornate di presenza di un soldato) fra il 28 febbraio del 1636 e il 18 aprile dell'anno successivo. E se cambiava la nazionalità, i metodi e le pretese degli ospiti erano invece sempre uguali ([22]).

A Carcare, invece, sono le truppe Alemanne (cioè dell'Impero) che chiedono di esse- re foraggiate: nel 1631, in un sol giorno, come ricordato da un registro dell'archivio parrocchiale, il sindaco ''per ordine di Bernardo Crotti (?) consegna agli Alemanni 64 (K?) di fieno([23]). E poi, all'improvviso, nuovi fuochi di guerra divampavano subitanei, come successe a Carcare nel 1644.

È l'alba del 24 aprile: un reparto franco-piemontese si insinua silenzioso fra le case del paese, non circondato da mura. I soldati passano davanti al Collegio, attraversano la "piazzetta del pozzo", scivolano lungo la riva del Bormida. Un ultimo balzo sopra il nuovo ponte in legno, appena ricostruito dopo che la piena del 1621 aveva fatto crollare un' arcata del precedente, e sarebbero al loro obiettivo, il castello situato lungo la sponda sinistra, dove ora c'è l'asilo. Ma dal castello qualcuno dà l'allarme, la scarna guarnigione - questa volta - si difende, i franco-piemontesi devono battere in ritirata, sfogando la loro rabbia sulle case indifese, molte delle quali vengono saccheggiate ([24]).

In ottobre i franco-piemontesi, per distrarre gli spagnoli dall'occupazione del vercellese, fanno una nuova puntata offensiva nelle Langhe. Ancora una volta Carcare è nel mirino, il suo castello viene assediato da truppe di cavalleria.

La guarnigione spagnola che lo presidia, 20 uomini al comando di Domingo de Casas, tenta una difesa, ma "despues de havello difendido ocho dias" si arrende "con les capitulaciones de buena guerra "([25]): i francesi riescono così ad occupare il paese.

Con l'arrivo dell'inverno la situazione muta ancora: da Cengio gli spagnoli fannoun'improvvisa sortita, mettono in fuga le guarnigioni francesi di Millesimo, Roccavignale, arrivano a Carcare. In questo paese, sorpresi dall'improvviso assalto, "i francesi che stavano di presidio nelle Carcare, dopo aver minato il castello di quella terra, lo fecero volare in aria il giorno 5 del suddetto mese di dicembre" ([26]).

 E un altro si salva ...

Per un castello che salta in aria, un altro, quello di Cengio, si salva per il rotto della cuffia. In quello stesso 1644, infatti, i francesi tentano contro questo fortilizio un'azione di sabotaggio degna della migliore spy-story.

Ma lasciamo ancora una volta la parola al Ghilini (op.cit.,278), minuzioso ragioniere di quelle lontane vicende di guerra: "In quell'anno il Governatore (spagnolo) del Cengio veniva avvertito da una spia mandata apposta dai francesi, del passaggio di due bestie da soma con un carico di polvere da sparo poco lontano dal castello.

Avendo perciò egli, senza perder tempo, inviato alcuni soldati a fame bottino, essi lo conseguirono con tanta facilità che, insospettito di qualche inganno, comandò che non si mettesse detta polvere accanto all'altra, nel luogo della munizione, ma che si lasciasse allo scoperto e lungi dall'abitato, come fu eseguito.

Dopo tre giorni, non essendosi notato alcunchè di strano, la polvere fu riposta in una di quelle guardiole, dove fanno la guardia le sentinelle: mentre però si effettuava un cambio del turno di guardia la polvere si accese spontaneamente ed esplodendo ferì tre soldati e rovinò qualche fortino intorno.

Si veniva intanto a sapere che circa 2000 fanti francesi attrezzati con scale e alcuni reparti di cavalleria erano dislocati intorno al castello pronti ad occuparlo, in attesa che esplodesse ogni cosa, poichè tenevano per indubitato che il Governatore di quella piazza, subito fatto il bottino di essa polvere, dovesse farla mettere nel magazzino delle munizioni e che poi accesasi con l'artificio da loro inventato nei barili, attaccasse fuoco all'altre e tutta insieme con le altre munizioni consumasse. Onde svanito il loro disegno e svanita per conseguenza siffatta risoluzione, se ne ritornarono pieni di mortificazione ai loro quartieri".

E mentre i francesi se ne ritornano con la coda fra le gambe, scornati perché il loro brillante innesto chimico a scoppio ritardato era stato reso inefficace dalla prudenza del comandante spagnolo, nuovi venti di guerra investono Millesimo.

In quello stesso dicembre, infatti, la guarnigione spagnola di Cengio fa una sortita contro i francesi che presidiavano Millesimo, cagionando 50 perdite al nemico fra morti e feriti e obbligando gli altri a rifugiarsi a Cairo.

Analoga sorte subisce una compagnia francese acquartierata a Roccavignale, anch'essa assalita all'improvviso e costretta ad abbandonare precipitosamente il castello ([27]).

 

Il costo della guerra

Quelli sopra descritti sono i principali eventi bellici che ebbero come teatro la Val Bormida in quegli anni, risultato immediato in sede locale della" guerra dei trenta anni". Essi  produssero direttamente morte e distruzione nella valle. Ma le conseguenze più devastanti,e  non solo per la Val Bormida, furono quelle indirette.

 

"Supplichiamo humilmente V.E. .. "

La guerra determinò infatti una generalizzata miseria e l'impoverimento di diverse comunità, soprattutto quelle che, come Carcare, e Cairo, erano situate sulla via di transito delle truppe dirette in Lombardia o nelle immediate vicinanze. Tutti questi soldati in transito dovevano essere alloggiati e, spesso mantenuti.

Ciò spiega le frequentissime suppliche che alcuni paesi, e principalmente Carcare, Millesimo ([28]) e Cairo, furono costretti ad inviare alle Autorità Spagnole per chiedere di essere esentate da un peso che finiva per rovinarli.

Indicativa al riguardo la disperata richiesta che le Autorità Comunali Cairesi inviarono al Governatore Spagnolo di Milano il 26 maggio 1616 con la quale esse "supplicano humilmente  V.E. che si degni per carità di dar ordine che si levino dalla detta terra detti soldati", il cui mantenimento  è causa di "esterminio di detta povera terra" e obbliga gli abitanti "a lasciare le loro case e terre in abbandono, trovandosi essi talmente esausti che più non ponno resistere".

Siamo in grado anche di quantificare, proprio nel caso di Cairo, le dimensioni degli obblighi derivanti dal mantenimento dei soldati di passaggio: dal 1600 al 1616 Cairo dovette dare ospitalità a 1876 "compagnie" di soldati spagnoli, che salirono a 2009 per il periodo compreso fra il 1616 e il 1618 ([29]). Il tutto rese necessario un indebitamento della Comunità per “ più di scudi trenta milla, che tanto non vale il Territorio ".

Non era però solo il mantenimento dei soldati ad impensierire le popolazioni: le truppe di passaggio spesso pesavano sugli abitanti esigendo una serie di piccoli o grandi servizi cui non si poteva dire di no e per i quali solo raramente c'era rimborso: dal fornire alle truppe bestie da tiro, per trasportare i bagagli, alla consegna di denari o derrate alimentari ([30]), al foraggiamento della cavalleria di passaggio. C'erano poi le corvèes cui la popolazione era obbligata sotto forma di "lavori forzati": particolarmente pesante, per esempio, quella imposta nel 1645 a Millesimo i cui abitanti, insieme a quelli di Altare e Cairo, devono andare a ripristinare il fossato del castello di Acqui. Per gli abitanti di Cosseria, invece, al danno si uniscono le beffe: prima pagano 500 fiorini ''per liberarsi d'andare a demolire le muraglie di Cairo "([31]), poi devono mandarvi egualmente 10 uomini per 66 giorni ([32]). Logico quindi che in tali circostanze gli sfortunati valbormidesi cercassero in qualche modo protezione: ma anche allora quale debole voce proveniente dalla Val Bormida sarebbe stata in grado di arrivare fino ai potenti?

In tutta la valle c'era solo una istituzione che poteva sperare di essere almeno udita, anche se ciò non voleva dire esaudita: la chiesa. Soprattutto il Collegio dei Padri Scolopi di Carcare, esistente da poco ma già noto fuori dai confini della Valle, cercò - e in parte ebbe - aiuti e protezione per sé e per gli abitanti del paese.

Ecco quindi le diverse "salvaguardie" chieste e ottenute dal Collegio in quegli anni tumultuosi; nel 1637 è un ufficiale al servizio del Re di Spagna, Borso d'Este, Prencipe di Modena colonello in fanteria alemana per servitio di Sua Maestà Cesarea et Chatolica, a promettere ai Padri delle Scuole Pie tutela e protezione, estesa anche alle "terre, cassine, huomini, bestiame et ogni sorta di frumento".

Nessun soldato spagnolo avrebbe dovuto "svaligiarli o in nessuna maniera molestarli sotto la pena massima". L'anno successivo, cambiati i padroni, cambiano i protettori: ad intervenire è infatti la già citata Madama Cristina, sorella del re di Francia e Reggente del Duca di Savoia, la quale mette sotto la sua protezione assoluta non solo i Padri maanche "gli agenti, servitori, fitta voli, massari, benementari, lavoratori et operari e tutti altri loro beni” ([33]).

Il costo della guerra: il caso di Carcare

Quale valore effettivo avessero poi queste "salvaguardie" è reso evidente da alcune testimonianze relative alla situazione di Carcare.

Solo un anno dopo la promessa del "Prencipe di Modena colonello in fanteria ", per limitarci ad un significativo esempio, il padre scolopio G. Crisostomo Peri scrive, da questo paese, una lettera a S. Giuseppe Calasanzio, il fondatore del Collegio. In essa il sacerdote, accennando ai movimenti delle truppe spagnole dirette verso il castello di Cengio . presidiato da quelle franco-piemontesi, ricorda che "l'Armata francese stata qui (a Carcare) 13 giorni ha rovinato tutto questo povero luogo: le biade che erano così belle sono state mangiate dai cavalli in luogo di fieno e non c'è speranza di poterne raccogliere messe alcuna([34])

Ne1 1654, invece, il notaio Ignazio Bonino di Cairo ricorda che "la comunità di Carcare resta poverissima e distrutta ( .. ) anche per essere stato più volte questo luogo distrutto e sacheggiato per le guerre da i nemici (i franco piemontesi) e per gli alloggiamenti  dati e fatti alle genti di S.M. Cattolica (gli spagnoli) loro padrone, a segno che ancora hora si vedono buona parte delle case inhabitate, senza porte e fenestre "([35]).

Quattro anni più tardi, nel 1658, il Conte di Monesiglio Carlo Amedeo Caldera rilascia una ''fede'', oggi diremmo un'autocertificazione scritta, in cui si ricorda "essere il suo (di Carcare) territorio povero e sterile et il popolo molto diminuito et mancato per il contaggio che l'anni passati l'ha tormentato ( ... ). Sarebbe luogo disabitato, massime che dal  Piemonte fu posto fuoco alle case con occisione di molte persone ([36]): se queste erano le conseguenze della raccomandazioni regali, immaginiamo cosa doveva succedere ai paesi.

.. e quello di Cosseria

La burocrazia è sempre stato un pesante fardello che l’uomo si trascina dietro: a nostra parziale consolazione possiamo ricordare che essa è un male antico. E proprio un minuzioso atto burocratico relativo al 1639 ci fornisce, una volta tanto, interessanti informazioni circa le conseguenze dirette, sotto forma di spese e danni materiali, determinate dalla guerra in un paese dell’alta Val Bormida, Cosseria.

Si tratta di un dettagliato elenco compilato il 24 gennaio 1639 dal notaio Bosio, cancelliere della Comunità di Cosseria, comprendente tutti i danni che la guerra e la permanenza delle truppe sabaude arrecarono alla popolazione e ai beni di Cosseria nei tre anni compresi fra il 1637 e il ‘39.

Ci pare interessante riportarlo integralmente perché esso, al di là della fredda aridità delle cifre, ci permette di conoscere, con la pignoleria del ragioniere, tutti i danni (beninteso solo quelli quantificabili in viI denaro) che una guerra estranea ed incomprensibile determinò su una povera comunità contadina.

Il testo del documento è il seguente:

“Nota delli danni patiti dalli huomini di Cosseria fatti dalli soldati di S.A.R. duca di Savoia come in appresso:

Prima per alloggiamento dè soldati stati a Millesimo da 28 febbraio 1636 sino a 18 aprile 1637 in conformità dell’accordo seguito tra il Sindico di Cosseria e Baldassare Fassola sindico del sudetto luogo, che sono alloggiamenti 10200 che ci spetta per la parte nostra, come fede del suddetto Fassola fiorini 15455,5.

Segue quando passò l’artiglieria per la presa del Cairo: fieno rubbi 4524 che valsero f. 9048; biava stara 189 a f. 13,5 il staro = f. 2551; lingeria, lana e lino canne 263 = f. 7101; bronzi n.19, libre 293,5 a f. 6 la libra =f 1761; vino stara 249 a f. 40 il staro =f. 9960; grano stara 161 a f. 32 il staro = f. 5152; pane rubbi 34 = f. 544; robbiole rubbi 6 = f. 240; bestie prese = f. 7425; bestie raccatate = f. 513; ferri da massaro = f. 4239.

Segue denari pagati in contanti per contribuzione come sotto:

Cap.no Pietro Castagna e Carlo Morelli ingeniero ([37]) f. 591; cap. no Antonio Galianodi Bolino f. 8965; cap. no Stefano Cialdora f. 4230; cap. no Gientile f. 1561; cap.no Francesco Bottero f. 400; al luogotenente del cap.no Rangone f. 240; a Francesco Piccardo f 200; cap.no Ottavio Filippa f. 1971; a maestro Biaggio Capo d’Opera f. 80: ascendono alla somma di f. 18238. -

Segue per le giornate delli huomini e bestie andate per la fortificazione del castello del Ciencio (Cengio) e per andare a prendere monizione per il castello:

Prima giornate 695 da bovi a fiorini 22 la giornata f. 15290; giornate 664 da bestie
piccole, cioè some a f. 8 = f 5312; giornate 230 da bestie grosse cioè muli a f. 12 = f.
2760; giornate da manuali 262 a fiorini 1,5 = f. 393.

Mezarole 38 vino portate al cap.no Ottavio Filippa per contribuzioni e residente nel sud.to castello a f. 32 = f. 1216; mezarole 21 di vino portate per contribuzione al Governatore del castello del Ciencio cap.no Francesco Sardo a fiorini 80 la mezarola = f. 1680; mezarole 54,4 consignate a Baldassarre Fassola sindico, contribuzione per alloggiamenti 10200 primi a fiorini 80 la mezarola = f. 4360; più pagate doppie sei a Benedetto Sentiero, altro sindico di Millesimo per la pretensione delli ufficiali del colonello Ratto = f. 480; più sachoni, tavole e coperte da letto portate a Milesimo per uso dei soldati e contingente a Giò. Antonio Bagnasco in n° letti 19 = f. 430; più per alloggiamenti 2767 fatti in Cosseria doppo l’accordo f. 22136; più per alloggiamenti di 12 soldati esistenti nel uogo di Millesimo di là dal ponte per la squadra del Alfiero sardo f. 473; più mezarole 4 di vino per uso delli suddetti a f. 32 = f. 128; più per alloggiamenti di 25 soldati esistenti come sopra per ordine del sig. Colonello di Noceto nuovo Governatore per giorni 16 a fiorini 62 il giorno f. 1000; più pagati alli huomini che battevano la strada da Cosseria all’Altare di ordine di S.A.R. altri per giornate 530 a f. 7= f. 3710; più pagati a ministri di S.A.R. per liberarsi d’andare a demolire le muraglie di Cairo, come per ricevuta f. 470; più pagati a dieci huomini per la demolizione delle suddette muraglie non ostante suddetto pagamento, questi vi sono stati giorni 66 a fiorini 5 = f. 330; più rubbi 920 fieno consegnato alli sindici di Millesimo, o sia deputati, per contribuzione di cavalleria esistente in detto luogo a f. 2 il rubbo = f 1840; più per rubbi 120 fieno consignato al foriero del Governatore Sardo, contribuzione della compagnia dè Dragoni con loro cavalli nel Ciencio come per ordine f. 300; più dozzine 12 di tavole portate per ordine del Governatore Sardo nel suddetto castello f. 324; più rubbi 8500 legne portate a Millesimo e ancellier alli sindici e deputati per uso dei soldati f. 4250; più carra 120 legne da rubbi 40 per carra portate nel castello del Ciencio, che sono rubbi 4800 = f. 2400; più per pagati al Governatore Sardo per spese cibarie della carcerazione del Già Cuore doppie 25 come per ricevuta f. 2000; più per reccapi(to?) fatto fare da soldati a particolari f. 2500; più per pagati a pedoni in più volte f. 200; più per aver mandato persone avanti indietro come a Torino e Ceva per supplicare f. 2000; più per altri interessi patiti de bestiami e robbe, cioè galline, pecore e agneli presi dà soldati, e vetovaglie andate a male in campagna, che calcolo ascendano alla somma di f. 1500 = f 40500; più per danni avuti per la perdita delle arme lasciate nel castello del Ciencio da particolari, quando fu preso da Savoiardi, che sono doppie 25 = f. 2000:

TOTALE fiorini 200.710.

I quali fiorini 200710 sono scudi 5017 e ¾ d’oro da fiorini 40 per scudo.

In oltre li danni e li incommodi patiti, necessitade ha fatto li paesani abbandonare le proprie case et habitare in boschi per mesi doi.

Io Pietro Bosio, publico imperial notaro di Cosseria, ancelliere della Comunità d’esso luogo faccio fede et attesto d’haver, in compagnia di Tomalino Bergero, Giò Cuore di Francesco, Pietro Cuore di Battista e Arione Campi a ciò deputati per quel Consiglio, fatta la visita haver estratte le soprascritte partite sebene per altrui mano a me fida, havendo il utto in questa carta ristretto, in fede del che mi sono qua manualmente sottoscritto et abellionamente signato.

Dato in Cosseria li 24 gennaro 1639
Bossio not.o sudd.to”([38])


Abbiamo provato a tradurre i vari valori utilizzati come misura (rubbi, mezarole, stara) nel corrispettivo del sistema metrico decimale per avere un’idea del “costo” della guerra in termini economici. E’ evidente che si tratta di un calcolo molto approssimativo considerato che la stessa unità di misura poteva variare anche notevolmente da zona a zona e da periodo a periodo. Abbiamo utilizzato i valori calcolati da S. Ticineto ([39]). Applicandoli risulterebbe che anni di guerra sono costati ai cosseriesi – ma limitatamente ai danni cagionati dai soldati sabaudi e al valore di grano, legna e fieno- 161 stara di grano (pari a circa 60 quintali), 104 tonnellate di legna e 44 tonn. di fieno. A questi costi si aggiungono 2381 giornate di lavoro obbligatorio e la contribuzione per l’alloggiamento di soldati a Millesimo per un totale di 10200 presenze ([40]) e a Cosseria per 2767.

Il tutto dà una spesa totale di oltre 200 mila fiorini ([41]). E’ possibile tradurre tale numero in un valore oggi comprensibile? Non è facile, anche per l’incertezza e la varietà dei documenti. Tenuto conto che la paga giornaliera di una persona (un artigiano, pagato ben più di un manovale!) non superava i 5 -6 fiorini, gli oltre 200.000 fiorini che la guerra costò a Cosseria fra il 28 febbraio 1636 e il 24 gennaio 1639 sono una cifra veramente notevole, pari al costo di 35 – 40.000 giornate di lavoro, o se vogliamo, a quanto un artigiano avrebbe guadagnato in circa … 130 anni. C’è solo da aggiungere che, malgrado lo speranzoso elenco preparato dagli abitanti, non consta che tali danni venissero in seguito rimborsati (e da chi?).

I danni subiti da Cosseria – o meglio, parte dei danni: l’elenco comprende solo quelli cagionati dalle truppe piemontesi – ci sono quindi noti e sono quantificabili.

Ed è proprio per questo che abbiamo riportato per intero questo in apparenza noioso documenti: un conto è dire che in un paese ci sono state requisizioni, un conto è riuscire, una volta tanto, a quantificarle.

Al contrario, di molte delle sofferenze che la guerra inflisse a queste popolazioni contadine mancano oggi testimonianze scritte; in quell’epoca nelle campagne la povera gente non affidava certo alle carte i propri dolori e le proprie vicende; esse venivano ricordate ai vecchi ai giovani durante le veglie nelle stalle, con gli anziani che narravano di quando, ai loro tempi, i francesi (o gli alemanni, o gli spagnoli, o i piemontesi (che differenza fa?) avevano saccheggiato le loro case e rubato i loro poveri beni. I giovani ascoltavano e così nasceva la loro storia, povera storia di povera gente, sempre affidata al ricordo tramandato oralmente.

Anche se mancavano le testimonianze scritte “dal basso”, il quadro che abbiamo finora tracciato ci permette comunque di ricostruire il panorama generale della valle durante quegli anni: dalla guerra la carestia e la miseria, dalla miseria la povertà, la fame, le malattie, le epidemie. E poi, fatalmente, la peste.

 Leonello Oliveri


Propr. Lett. riservata
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[1] ) L'origine di questa complicata situazione è da ricercarsi nel fatto che tutte queste località erano
 soggette a feudatari che si trasmettevano il feudo suddividendolo fra i diversi aventi diritto, ognuno dei quali diventava quindi "condomino", cioè consignore, di una quota di paese proporzionata alla sua fetta di eredità. Ogni condomino poteva poi prestare giuramento di fedeltà, per la sua parte di feudo, a potenze diverse a seconda delle diverse contingenze politiche. Il risultato era spesso un complicato intreccio di infeudazioni e sub-infeudazioni. Per approfondire tale situazione può essere utile una delle diverse opere che trattano dell'età medioevale in Val Bormida. Fra tutte ricordiamo G. BALBIS, Val Bormida Medievale. Momenti di una storia inedita, Cengio 1980 e L. OLIVERI, Gli Statuti di Millesimo. Aspetti di vita medievale valbormidese, Millesimo,1987,entrambe edite a cura della Comunità Montana Alta Val Bormida

[2] ) Savona, Archivio vescovile, Vicariato di Spigno, lettera del 3/8/1622

[3]) V. SCAGLIONE, Per non dimenticare un mondo che abbiamo perduto, Cairo 1992, p. 38

[4] ) Si tratta di una di quelle relazioni degli ingegneri geografi di napoleone   presentate in questo stesso blog

[5] ) E. ZUNINO, Cairo e le sue vicende nei secoli, Cairo 1929. Un'epigrafe dipinta nella Cappella di N.S. del Bosco ricorda tale fatto: "Anno 1625 die Julii Gallorum et Allobroqum exercitus oppidum Carii obsidet, oppugnat, vi capit tormenti muralis 144 ictibus explosis, victores multa depopulantur, postero autem die liberatis oppidanis Virgine intercedente recedunt".

[6] ) G. NOVELLA, Carcare nel 600 tra cronaca e storia, Cengio 1991, p. 24. I Genovesi avevano già incendiato una prima volta Biestro nel 1571 asportando tutti gli armenti ed incendiando nel loro recesso la maggior parte del paese (Torino, Arch. di Stato, Arch. Del Carretto, cart. 114, n. 920

[7] ) A. DELLA CHIESA, Descrizione del Piemonte, Ms., Bib!. Rea!., To., p. 11

[8] ) Savona, arch. vescovile, pacco Spigno, lettera del 30/3/1628

[9] ) P. GIOFFREDO, Storia delle Alpi Marittime, Torino, 1889, VI, 433.

[10] ) A.F. DELLA CHIESA, Descrizione del Piemonte, Ms., Torino, Bibl. Reale

[11] ) Su questo personaggio v. L. OLIVERI, Un massacro ad Osiglia nel 1630: chi era Bartomelino Sartorio, in "Alta Val Bormida", XXVI, n. 7,1985. Y. anche G. CASANOVA, La Liguria centro occidentale e l'invasione franco-piemontese nel 1625, Genova 1983, pp. 30, 80, 106, 126, 167, 174, etc.; G.. VERZELLlNO, Memorie e uomini illustri della città di Savona, curate e documentate da A. Astengo, Savona 1885, II, 248.

[12]) Archivio vescovi1e di Savona, Vicariato di Spigno, lettere del 3 e 24 gennaio 1631

[13] ) GASPARE BUFFA (1832-1893), cairese, fu autore di saggi poetici e storici. Collaborò come pubblicista al Corriere Mercantile di Genova e fu preside dell'ateneo genovese.

[14]) Cit. da O. COLOMBARDO, Cengio e i Signori Del Carretto, Cengio 1983, p. 78.

[15] ) O. COLOMBARDO, op. cit., p.79

[16] )  E. ZUNINO, op.cit., p.146sgg.

[17] ) Vittorio Amedeo "qual folgore di Giove venne a ferire ove non minacciava posciaché, fingendo di godere i trastulli della caccia a Torino, li colse quando meno lo pensavano": così almeno ricorda la baroccheggiante prosa secentesca del Codrato nella sua Palma trionfante. (Cit. da B. MOZZONE, Monografia di Saliceto, Savona 1937, p. 168).

[18] ) Archivio Parrocchiale Carcare, libro dei battesimi 1625/1641. L'annotazione è in parte illeggibile, il testo recuperabile è il seguente: "Dicto anno 1637 25 Julii locus Carcherarum depredatus est, castrum redditum Comiti Verruce generali ducis sabaudie qui sub eius fide publice iurata (sed dedit pcenas statim Vercellis una cum duce Sabaudie et Collonnello de Cerrutis de Montisregalis ac Colonnello de ... ) permisit primo Pedemontanis, deinde Sabaudiis tercio Gallis depredacione huius loci, ex portando pretiosaque una cum vilibus, quod ignominia sic est ( ... ) ecclesite omnes direptce. Ita ut cani possit illud psalmista; facti fuimus obbrobrium vicinis nostris sub (dan?) natis et ( .. .) qui in circuitum sunt. Le scorrerie durarono per più di sette mesi, e tutto il popolo lacrima sfrattando chi in un loco chi in un altro. E nella terra non vi resta che certe donne ( ... ). L'Alfiere spagnolo rese il castello all'apparire del nimico: se prendesse denari o no, incertum est"

[19] ) V SCAGLIONE, Giusvalla etc., cit., p. 38

[20] ) G. GHILINI, op. cit., p. 141.

[21] ) op. cit., pp.88-89

[22] ) V. PALADINO, op. cit., p. 407

[23] )  Carcare, Archivio Parrocchiale, Libro dei matrimoni 1623-1642, ultima pag. Purtroppo il simbolo che indica l'unità di misura, vagamente simile ad una K, è - almeno per me - incomprensibile.

[24]) Ecco come G. Ghilini, Annali di Alessandria, m, 252, ricorda l'avvenimento: "4 ottobre 1644. Il Governatore di Ceva che aveva fatto in quella terra con molta segretezza un ammasso di 1300 fanti, parte francesi e parte piemontesi, uscì la notte antecedente alli 24 aprile e nel far del giorno accostatosi alle Carchere, luogo delle Langhe, vi entrò senza contrasto alcuno non essendo quella né forte né prevenuta di alcune difese, e pensando di entrare con la stessa facilità nel palazzo, che per batteria di mano potendo servire in vece di castello era guardato da pochi soldati, vi fece, ma indarno, qualche tentativo, poiché mentre gli assediati attendevano a valorosamente difendersi, diedero tempo al mastro di campo Giovanni di Castro, governatore di Finale, che venisse in loro aiuto, come di già vi era, con sufficiente numero di fanti, incamminato per combattere i nemici, i quali avvisati della mossa, dopo aver saccheggiato molte case, fecero ritorno a Ceva ", 

[25] ) P. GI0FFREDO, Storia delle Alpi Marittime, cit., VI, p. 615.

[26] )  G. GHILlNI, op. cit., p. 227. La distruzione fu tale, probabilmente, da rendere inabitabile il castello: una cartina genovese di un secolo successiva lo raffigura infatti in pianta definendolo "castello diruto ". Ne rimasero però tratti notevoli tanto che ancora nel 1885 A.G. Barrili ricorda "la grande mole quadrata di rossi mattoni, ma senza tetto e sfiancata, perché le erano andati a rifascio due lati. Ma i due che rimanevano in piedi erano belli nella robustezza delle forme colossali e nella nobiltà dei grossi cordoli di pietra che correvano per tutta la lunghezza dei muri, dando un saggio notevole della forte e severa architettura del Quattrocento" (A.G. BARRlLI, Amori alla macchia, Milano 1885, p. 67). Sopravissuti alle mine francesi, i resti del castello di Carcare non sopravissero invece alle autorità comunali della fine dell'800 che, proprio negli anni della descrizione del Barrili ne deliberarono la distruzione "senza che nessuna commissione artistica ed archeologica abbia protestato, senza che nessun ingegnere, nessun fotografo abbia pensato a conservarcene almeno l'effige" (Ibidem, 68); e così chi voglia oggi immaginare l'aspetto del castello che sorgeva dove ora c'è l'ampia piazza Cavaradossi non ha che gli scarni schizzi eseguiti, intorno al 1880, da Clemente Rovere.

[27] ) Così il GHILINI (op. cit., p. 253) ricorda l'avvenimento "Al principio di dicembre avendo già determinato i Governatori (spagnoli) di Finale e del Cengio di scacciare da Millesimo i francesi che vi stavano di guarnigione, quello di Cengio, vedendosi a tempo la buona congiuntura di dargli addosso senza aspettare il Governatore di Finale, li sopraggiunse tanto all'improvviso che ne restarono fra morti e prigionieri cinquanta circa e gli altri furono costretti a salvarsi con la fuga nel Cairo, come anche poco dopo i detti presidi del Finale e di Cengio ruppero una compagnia di francesi che stava acquartierata in Roccavignale, nelle Langhe”

[28])  "L'archivio comunale di Millesimo conserva le liste di tutte le imposizioni di guerra, oltre agli alloggiamenti, cui fu soggetto Millesimo comefeudo dell'Impero" (D. FRACCHIA, Storia di Millesimo, Ginevra 1975, p. 31).

[29] ) La supplica fu pubblicata da E. ZUNINO, Cairo etc., cit., p.137-38. I dati relativi alle "compagnie" sono invece riportati in una relazione a stampa intitolata "Per la terra del Cairo nelle Langhe. Sopra la pretensione dell'Impresaro del Dacio delle Carchere che gli huomini del Cairo sono tenuti pagare il Dacio passando sempre sopra il suo territorio per una stra da che si chiama Ferrania, senza mai toccare il Marchesato del Finale nè altra giurisdizione", s.a., 1671 (colI. priv.). Purtroppo non è chiaro il significato del termine "compagnie ", non si capisce cioè se il numero alluda alle giornate totali di presenza o se indichi gruppi di soldati: nel qual caso dovrebbe evidentemente venir ulteriormente moltiplicato.

[30] )  Nel luglio del 1625 Spigno deve, per riportare un esempio, fornire alle truppe spagnole "120 denari e 50 robiole al dì" (v. G.B. PIO, op. cit., 128)

[31] ) Bibl. Civ. Torino, f. BOSIO, Miscellanea.

[32] ) E il fatto sarà ricordato dal Consiglio Comunale di Cairo che nel 1637, in una supplica al Governatore di Milano, ricorderà come gli abitanti "hanno sofferto pel servizio di S.M. la demolizione delle muraglie e castello. fabriche cospicue e insigni, replicati e barbari saccheggi con rovina ed incendi delle case" (E. ZUNINO, op. cit., p. 141

[33] )  Entrambi i documenti sono pubblicati da V. DERAPALlNO, Un collegio nelle Langhe, Savona 1972, p. 114 e 116.

[34] ) La lettera è pubblicata da F. ISOLA, Carcare e le Scuole Pie, Savona 1897, p. 80.

 [35] ) G. NOVELLA, Carcare nel 600 fra cronaca e storia, Cengio 1991, p. 93

[36] ) V. DERAPALINO, Un collegio nelle Langhe, Savona 1972, p. 98.

[37] ) 45) L' "ingeniero Carlo Morelli" ricordato nel testo è colui che diresse l'opera di costruzione delle fortificazioni che fecero del castello di Cengio un poderoso baluardo (v. O. COLOMBARDO, op. cit., passim).

 [38] ) Il documento è conservato a Torino, Bibl. Civ., f. BOSIO

[39] )S.TICINETO, Il Marchesato di Finale con Carcare, Calizzano etc. sotto la dominazione spagnola nel XVII sec. GRIFL 1999, pp.146-149: 1 rubbo = 8 kg., 1 mezarola  =90 l., 1 staro di grano  = 37 kg (valori approssimativi)

[40]) Riteniamo che questo dato debba (o possa) essere letto come si leggono quelli delle attuali presenze alberghiere; si presuppone quindi che esso sia stato ottenuto moltiplicando il numero dei soldati per il numero delle giornate di presenza di ciascuno.

[41] ) S. TICINETO, op. cit., p. 149:  “il fiorino del XVII sec. Non aveva più  niente a che vedere col fiorino basso-medievale (..) era una moneta di metallo non nobile”; p. 150: “il salario medio di un uomo era 3 fiorini al giorno, alcuni artigiani che esercitavano un’attività specifica e difficile, come i muratori,(..) percepivano un salario giornaliero molto più elevato, pari a 5 -6- fiorini”