Leonello Oliveri
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Siamo a Torino, 11 gennaio 1821, teatro di Angennes, un baraccone di legno dove poi sorse il teatro Gianduia. Il teatro era divenuto luogo d’incontro degli studenti universitari,
pubblico forse un po’ rumoroso e talvolta scavezzacollo. Si rappresentava la Gazza ladra con la celebre Marchionni. Fra gli spettatori quattro studentelli universitari con un berretto rosso in testa: risate fra il pubblico benpensante: ”tutti ridevano considerando la cosa come una ragazzata” (1) Ma alcuni agenti di polizia (termine per allora improprio) o militari, non ridono e all’uscita del teatro arrestano uno dei quattro mentre gli altri riescono a fuggire. Motivo: gli agenti “avendo trovato in quei berretti una grande rassomiglianza col berretto frigio (quello dei rivoluzionari francesi di pochi anni prima) credettero di scorgervi un segnale rivoluzionario o una impudente provocazione al Governo “(2). La polizia politica o “alta polizia” era allora “affidata ai carabinieri che formavano un corpo ben pagato, molto disciplinato e fedelissimo; e la direzione spettava quindi al colonnello dei carabinieri. Questi, che era un conservatore convinto, ordinò che fossero arrestati” (3). Un centinaio di studenti si raccoglie quindi davanti al teatro, arrivano i carabinieri ch “distribuiscono a destra e sinistra delle ammaccature e piattonate”. Gli studenti si disperdono. Nelle notte viene arrestato uno dei quattro e altri due si costituiscono. “Il Governo, il quale avrebbe potuto terminare la cosa facendo anche espellere dall’Università i creduti colpevoli (..) quasi a disfida dei compagni facea sotto numerosa scorta attraversare la città a quei miseri e tradurli poscia a Fenestrelle ( sede di una famigerata prigione) . Questa provocazione infiammò lo sdegno nei giovanili petti dei colleghi” (4). La notizia si sparge e crea indignazione fra gli studenti, anche perché gli studenti godevano ancora del “diritto di foro”, ovvero dovevano essere giudicati da una magistratura particolare.
Un centinaio di studenti si riunisce all’Università, allora sita in via Po.
A questo punto occorre fare un passo indietro.
A Torino, nella corte sabauda, la caduta di Napoleone aveva provocato un brusco passo indietro della Storia. Si volle semplicemente “restaurare” la situazione precedente, e nel peggiore dei modi. Furono abolite tutte le leggi, magistrature, ordinamenti di Napoleone, e furono richiamati in servizio tutti i funzionari, ciambellani, personaggi di corte, parrucconi e baciamani etc. etc. di 20 anni prima: una “stolta e poco intelligente restaurazione”. Perfino il generale austriaco Bubna, governatore militare del Piemonte fino al ripristino dell’ autorità regia, derideva chi circondava il re (5). Per Thaon di Revel, Governatore di Torino nel 1821, lo Stato era “un re che comanda, una nobiltà che lo circonda, una plebe che obbedisce”. Solo che la nobiltà era “limitata di idee, scarsa di istruzione, formalista, bigotta. Educata al più assoluto rispetto dell’autorità regia e al più gretto cattolicesimo, aveva in orrore ogni innovazione che sembrasse minimamente toccare il trono o l’altare” (6). Ma ovviamente c’erano anche, in mezzo a loro, le eccezioni, talora eccellenti.
Tra i tanti aspetti di questa restaurazione ci fu una retrograda e bigotta ( ovviamente questa è una mia opinione personale) riforma dell’Università, che allora contava circa 1500 studenti (7). Una quindicina di insegnanti furono epurati e furono introdotte norme miranti a un controllo totale degli studenti per inquadrarli: tutti allineati e coperti, ogni chiodo che sporge va ribattuto..
Rimandando per un’analisi più ampia al riguardo a quanto da noi scritto in questo stesso blog nel post Universitari a Genova nell’età della Restaurazione ci limitiamo a sottolineare l’uso della religione (nelle sue forme più esteriori e bigotte) per controllare gli studenti, riportando un ampio brano dello studio spesso ricordato del Giglio Toss (p. 182 sgg.) “Anche riguardo ai doveri di religione si presero severe disposizioni e con grande rigore questi si facevano osservare, infliggendo non lieve pene a coloro che mostravansi restii del loro adempimento. Il dovere di religione, già considerato dalle costituzioni (universitarie) come il primo ed il più necessario per ottenere l’admittatur, conservò per molto tempo questa capitale importanza e nel 1822 il nuovo regolamento ribadiva le condizioni imposte ai singoli studenti; escludendo inesorabilmente dall’università chiunque fosse mancato agli esercizi spirituali o che avesse tenuto un contegno irriverente. Si ordinò pertanto che “ogni studente dovesse accostarsi mensualmente al sacramento della Penitenza, adempiere al precetto pasquale e fare nei giorni che venivano assegnati gli esercizi spirituali nell’oratorio dell’Università. Gli studenti dovevano perciò presentare in ogni bimestre al Prefetto dal quale dipendevano le fedi dell’adempimento al dovere della confessione mensile ed a suo tempo far pure constatare dell’adempimento al precetto di Pasqua e di aver fatto gli esercizi spirituali (art. 14, 31).
Durante le vacanze autunnali di ogni anno scolastico dovevano frequentare con assiduità le funzioni parrocchiali ed accostarsi eziandio in ogni mese al sacramento della Penitenza e far constatare l’adempimento a tal dovere in principio dell’anno scolastico successivo presentando il relativo certificato del Parroco legalizzato dalla curia ecclesiastica (art. 29)”.
Per essere ammessi agli esami ogni studente doveva, fra l’altro, esibire la seguente documentazione (Efisio-Giglio, p. 22): “Attestato del direttore spirituale che il candidato fosse stato sollecito nell’adempimento dei doveri di pietà e religione ed avesse frequentato la congregazione (ovvero l’obbligo degli studenti di riunirsi per udire la messa tutte le domeniche); Attestato del Rettore dell’Università circa la buona condotta del candidato(..) con dichiarazione di non aver notizie di cattiva condotta esterna”. E la polizia ( Giglio, 202) “ nei giorni di domenica andava nel caffè delle Indie dove si riunivano gli studenti ed imponeva che cessassero i giochi leciti per andare in chiesa” : come negli statuti medievali!
Si usava cioè la religione come instrumentum regni per formare dei giovani (e una futura classe borghese) allineata e senza troppi “grilli nella testa”.
E ora possiamo tornare ai fatti di Torino .
Il governatore di Torino, Thaon de Revel, aveva ordinato ai soldati di non caricare i fucili:“Souvenez vous que vous avez à faire à des enfants”, “Ma purtroppo, continua Giglio a p. 68 sg., avrebbe dovuto rivolgere tali parole assennate agli ufficiali di diversi reggimenti che, con finto zelo ma con intendimenti di crudele efferatezza, eransi volontariamente aggregati per far prova e di valore in tanto spargimento di sangue”.
I soldati, in gran parte appartenenti al rgt. Guardie, sorpassano baionetta in canna la debole barricata costruita dagli studenti sulla porta e dilagano nei locali dell’Università, dove erano raggruppati un centinaio di studenti.
Ecco come il Brofferio, Storia del Piemonte, Torino 1847, p. 135, descrisse quanto successe:
“Stavano per suonare le 8 di sera, allorché due battaglioni del rgt. Granatieri Guardie si ponevano a passo di carica e incrociavano le baionette contro un piccolo stuolo di ragazzi che schiamazzavano nelle loro scuole (..) Gli studenti diedero mano alle pietre (..) Ciò bastò perché il fiero governatore desse ordine di atterrare le porte. (..) L’ordine fu eseguito fra il suono dei tamburi e le grida di viva il Re (..) bentosto furono superate le fragili barriere e le armi dei soldati piemontesi cominciarono a bagnarsi di sangue piemontese.
Ai soldati si erano uniti spontaneamente molti ufficiali, e saranno proprio questi i maggiori responsabili di quanto seguì. Così scrisse F. Pinelli, Storia Militare del Piemonte, Torino 1854, p. 538: “al seguito del governatore c’erano (..) alcuni nobili ufficialotti, scemi di cervello, i quali credevano far prova di valore adoprando il vergine brando contro quelli inermi: questi canibali avidi di sangue, gettatisi addosso ai miseri studenti (..) ferendone molti ed inseguendoli nelle gallerie, nelle scuole e perfino nella cappella!.”
Ancora il Brofferio, parole pesantissime ( 8): “Non furono tuttavia i soldati quelli che si macchiarono in più gran copia dello strazio di pochi e disarmati giovinetti; si recarono a gloria parecchi ufficiali di seguitare i passi del governatore, per far pompa sotto gli occhi suoi di devozione alla monarchia assoluta; e fu dalla mano di costoro che vibraronsi i colpi più micidiali. Vedendo quei campioni del trono che i soldati avevano ribrezzo a trafiggere inermi e supplichevoli fanciulli, spingevanli essi alla strage colla voce e coll’esempio. Si videro quei cannibali, indegni del nome di officiali Piemontesi, alzare implacabilmente le sciabole sopra i fuggitivi e divertirsi a far macello degli innocenti; si videro molti di quegli infelici strascinati per i capelli giù per le scale, che irrigavano del loro sangue, di sotto alle panche, alle tavole, alle ringhiere venivano tratti per le gallerie e fatti bersaglio alle sciabole e alle baionette, neppure nella chiesa, neppure sull’altare di Cristo dove alcuni di quei miseri si rifugiarono,venne usata misericordia”. Poi i feriti furono portati all’ospedale. Si vide (Brofferio, p. 136) che le ferite erano ”quasi tutte ferite di sciabola (arma degli ufficiali) e quasi nessuna di baionetta”(arma dei soldati). E Santorre di Santarosa così ricorda :” Non furono dunque le baionette, ma le spade che mostraronsi più sitibonde di sangue (9): come dire, non i soldati, ma gli ufficiali..
Anche il Torta (Carlo Torta, La rivoluzione in Piemonte nel 1821, Soc. Ed. Dante Alighieri, |
L'intervento di Cesare Balbo a difesa degli studenti |
1908, p. 65) ricorda il particolare: ” ma i più feroci furono gli ufficiali che, trattenuti a mala pena da alcuni generosi come C. Balbo, menavano sciabolate da orbi per amore del re”. Fra gli ufficiali ci fu però anche chi cercò di frenare questi irresponsabili: le fonti ricordano in particolare il cap. di cavalleria Angelo Olivieri, il Cesare Balbo e soprattutto il coll. Ciravegna che “coll’autorità del grado impedirono maggiori orrori”.
Il risultato fu comunque un massacro : 38 studenti feriti, 45 arrestati e detenuti.
I feriti riportarono quasi tutti ferite multiple, più colpi di baionetta e sciabola (Giglio, p. 92) , con nasi tagliati e dita amputate. Il particolare più agghiacciante è, come ricordato, che le ferite da sciabola furono più di quelle da baionetta. E la sciabola era l’arma degli ufficiali.
I feriti furono ricoverati all’ospedale.
Gli studenti detenuti furono quasi tutti rilasciati intorno alla fine di febbraio. Furono però espulsi dall’Università, rimandati al loro paese (molti non erano di Torino: Giuseppe Forneris anni 21, numerose ferite di sciabola e baionetta, 1 dito reciso e Luigi Giacone , anni 22, 2 ferite da sciabola, erano di Garessio) e sottoposti alla vigilanza della polizia. In poche parole, ebbero la vita cambiata.
I fatti dell’Università suscitarono scalpore in città. Due prof. dell’università (Bertaccini, insegnante di Diritto, e Bouycheron, di eloquenza) furono destituiti, e “All’università fu appeso un cartello con la scritta Macello reale e per la città si sparsero dei foglietti con un elenco degli « Illustrissimi signori sicari che diedero in quell' occasione prova del loro valore » ( divisi, ricorda il Giglio , p. 148, “in tre classi: ufficiali comandati, ufficiali assassini e ufficiali protettori) e primo di essi, gran Mastro dei sicari era annoverato il cavaliere Ignazio Thaon di Revel, conte di Pratolungo”(10).
Circa quello che potremmo definire “l’attivismo” degli ufficiali nel colpire gli studenti ci sembra interessante l’ipotesi di spiegazione avanzata dal Giglio: “Non era adunque esclusivamente lo scopo di tutelare l'ordine che li spingeva a quelle brutalità, ma il sentimento dell'egoismo, la convinzione di dovere opporre la forza alla forza per conservare l'integrità delle loro prerogative e dei propri interessi”.
E poi una convincente annotazione che potremmo definire di moderna psicologia sociale: “ Si aggiunga a ciò un certo sentimento di sorda irritazione e di repressa rabbia verso la gioventù studiosa, della quale dovevano riconoscer la superiorità intellettuale e sopportarne le libere e spesse volte ardite, sarcastiche manifestazioni; e facilmente si potrà arguire che in quel deplorevole fatto di sangue svolgevasi una vera reazione di partito”.
I fatti del 1821 sono blandamente ricordati in una lapide murata nell'ingresso dell'Università ( Lettere), dettata da G. Bovio nel 1884 ma collocata solo nel 1904...
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Questi uomini in divisa con sciabole e baionette, che in una notte di quel lontano gennaio 1821 irruppero in una scuola, ricordano altre uomini in divisa che, sempre nel buio di una notte, irruppero in un’altra scuola in tempi più vicini a noi. Non più con sciabole e baionette ma con caschi, scudi, giubbetti e manganelli ; ricordano altri studenti indifesi, ragazzi e ragazze, colpiti e umiliati senza pietà.
In quella occasione non furono macchiate di sangue solo le aule di una Scuola, ma fu anche ferita una Divisa che Altri, Degni del nostro rispetto e del nostro affetto, hanno portato e portano con Sacrificio, Onore e Dignità.
E l’Italia ci guadagnò una condanna alla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo (11).
Leonello Oliveri
Prop. lett. riserv.
Riprod. vietata
8 ) op. cit. p. 135 : Questo autore, all’epoca
18enne (era nato nel 1802) partecipò al tumulto. Fu “un poeta e politico italiano.. Discendente da
una famiglia di dottori benestanti, ricevette una educazione illuminista e anticlericale. Nel 1821 fu costretto a rifugiarsi nel paese natio per sfuggire alla dura repressione
messa in atto dopo le sommosse antimonarchiche sfociate a Torino sfociate e
alle quali aveva preso parte” (Wikipedia).
9) Santorre di Santarosa, Della rivoluzione
piemontese nel 1821, Genova 1849, p. 62
Nel 1871 la figlia di Thaon de Revel pubblicando le
carte del padre (Mémoires sur la Guerre des Alpes), alle pagg. XLI-XLII,
ricordando questo fatto, scrive che al momento dell’irruzione dei militari nei
locali dell’Università ”plusieurs ètudians, voulant fuir, se précipitèrent
sur les baionnettes des soldats qui entraient, et se blesserént d’eux mèmes”
(!).