DA BARRILI A VICO scrittori, politici, scienziati e giornalisti all'ombra del Collegio
"L'Italia l'ho veduta farsi e so com'è;
essa è venuta su quale doveva essere:
il feudo di una classe di furbi, viventi di
mutua assistenza e di mutui salvataggi”
(G. C. Abba)
Leonello Oliveri
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Riproduzione Vietata
Scopo del presente lavoro è ricostruire uno spaccato dell’ambiente culturale valbormidese |
A. de Andrade (1839-1915) "Sulle rive della Bormida a Carcare" |
negli anni compresi fra la metà dell’800 e i primissimi del ‘900, offrendo una breve panoramica dei suoi personaggi per così dire “illustri”, di quanti cioè, giornalisti o scrittori, poeti, romanzieri o politici ricoprirono un ruolo di una qualche importanza in campo culturale e/o pubblico. Si è scelto tale periodo in quanto fu - da questo punto di vista- uno dei più attivi e dinamici per la Val Bormida, con una fioritura di intelligenze, opere e risultati notevole, così da poter veramente definire la seconda metà dell’800 -si licet parvis componere magna - il “cinquantennio d’oro” della Valle.
Saranno trattati non solo personaggi che in Val Bormida nacquero, ma anche uomini (già, sono tutti uomini: e il perché non è certo difficile a capirsi, considerato l'arco temporale oggetto della presente ricerca) che in Val Bormida studiarono, si formarono, vissero: primo fra tutti il Barrili che da Genova passò le sue estati a Carcare dal 1881 fino alla morte (1908).
Parlare dell’ambiente culturale in Val Bormida sullo scorcio del XIX secolo significa innanzitutto parlare del Collegio delle Scuole Pie, istituto fondato nel 1621 da S. Giuseppe Calasanzio con lo scopo principale di fornire un’istruzione, all'inizio gratuita ed allargata a tutti i giovani (
1): l’ambiente culturale valbormidese - e non solo valbormidese- a partire dalla seconda metà del XIX secolo ruotò infatti intorno a questa istituzione culturale, o meglio, fu stimolato dai suoi insegnanti e prodotto in buona parte da persone uscite da questa scuola.
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Col passar dei secoli questa fondazione religiosa, che per i carcaresi era ed è semplicemente “il Collegio”, aveva infatti acquistato un’importanza sempre maggiore, importanza che intorno alla metà dell’ 800 giunse al suo culmine, con una ricaduta sull’ambiente e sull’utenza (come si direbbe oggi) notevole. Possiamo infatti affermare che una parte non marginale di quella che sarà la futura classe dirigente del Piemonte e della Liguria dell’epoca fu formata proprio anche in questa scuola. Per illustrare meglio queste affermazioni basterà ricordare che in tutto il XIX sec. da questo istituto, che contava al massimo poco più di 100 studenti, collocato in un paese che all'epoca dell'arrivo di Barrili (1881) aveva 1381 abitanti, usciranno, oltre a tanti semplici (semplici?) padri di famiglia, 12 fra deputati e senatori, tre professori universitari, due rettori di università, due ammiragli, un ambasciatore, due vescovi, un cardinale, due missionari-esploratori: a questi occorre aggiungere un numero tutto sommato rilevante di personaggi che influiranno, in piccolo ma anche in modo talora non trascurabile, sulle vicende dell’Italia post-unitaria.
Fra tutti ne ho isolato alcuni, che talora sono i più rappresentativi, non raramente sono però semplicemente quelli su cui ho trovato dati e informazioni.
Come punto di partenza, che è anche forse il migliore per spiegare certi risultati ottenuti, è indispensabile innanzitutto ricordare alcuni sacerdoti-insegnanti del Collegio: padre D. M. Buccelli (1778-1842), p. A. Canata (1811-1867) e p. G. B. Garassini (1815 - 1894). Furono insegnanti che lasciarono una traccia non soltanto nella storia valbormidese e non soltanto nella cultura e nella formazione dei giovani in sede locale.
Domenico Maurizio Buccelli
Chierico scolopio (2), insegnante, pedagogo, parendogli " crudeltà gettare di balzo i fanciulli dall'abcd al rosa-rosae" fu l' "inventore"- nel collegio di Carcare!- della cosiddetta "scuola intermedia" "tra la scuola del leggere e scrivere (oggi diremmo la scuola elementare) e quella di lingua latina" (le medie, ma quelle di una volta, e non tanto per il latino!), la prima scuola in cui si insegnava l'Italiano come materia di studio: la scuola di stato italiana dovrà aspettare ancora anni per vedere realizzato qualcosa del genere nel Regno di Sardegna. In un'epoca di chiuso provincialismo scoprì inoltre l'importanza dei contatti con altre realtà scolastiche, con viaggi sia nel più avanzato territorio del Lombardo - Veneto sia in Svizzera e Germania.
Frutto di queste moderne concezioni pedagogiche sarà la sua opera più importante, quella Ragion della lingua per le prime scuole esposta da un individuo delle Scuole Pie, qualcosa di molto di più di una grammatica italiana, che vide la luce nel 1824. Lo spessore e la modestia del Buccelli, ben diverso da tanti arroganti venditori di sé stessi, si vede già nel titolo in cui non compare il nome dell'autore, sostituito da un umile "individuo delle Scuole Pie". Eppure era un'opera veramente nuova, scritta non per esibizione di sapere ma per offrire un valido strumento a insegnanti e studenti. In essa la lingua italiana era presentata "sostituendo il ragionamento alla nuda e inintelligibile autorità". Buccelli voleva "combattere la noia degli alunni, tarlo mortale delle scuole", far sì che le regole grammaticali divenissero una scoperta e quasi una creazione degli allievi: "io ricordar non posso senza fremito gli amari anni miei puerili sotto la barbarie di quell' insegnamento dove l'educazione, guidata dal solo timore, consuma il corpo, affoga l'ingegno e spegne il cuore"… E più avanti "l'idea di far ragionar il fanciullo è ciò che imprendiamo nel presente metodo, l'unico mezzo di riconciliarlo della sua antica iracondia colla scuola". La sua concezione della lingua come sistema precorse i tempi: "Generalmente si considera la lingua come fine e non come mezzo. Occorre invece rintracciare questo filo che lega la lingua, onde nasce un sistema di idee che si comprende sotto il vocabolo di grammatica", e altrettanto moderna fu la consapevolezza (nel 1824!) che gli studenti non sono spugne da riempire ma persone con tempi e interessi che devono essere rispettati: "uno degli inconvenienti delle scuole è obbligare il fanciullo a lavori generalmente troppo lunghi: occorre un'istruzione fondata sulla varietà, 1/2 ora leggere, 1/2 dettare, 1/2 analisi etc."(3). Chissà cosa penserebbe vedendo certe scuole di oggi, nelle quali gli studenti entrano alle 8 del mattino per uscirne spesso alle 16-17 del pomeriggio, carichi di compiti! La stessa necessità di un libro di testo pensato per gli studenti si riscontra nell'altra opera fondamentale del Buccelli, la Gramatica ad uso del Collegio delle Scuole Pie in Carcare per servire spezialmente allo studio della lingua latina, stampata a Torino nel '23. L'affermazione con cui si apre ("sia principal cura del maestro eccitare prima e sempre esercitare nei giovani l'interesse e la curiosità di quegli studi") era necessaria allora ma non inutile anche oggi, considerato quanto spesso in moderne grammatiche i ragazzini quattordicenni vengono scaraventati fin dalle prime pagine in un vortice di isoglosse, sintagmi, lessemi, apofonie etc. "Due sono a nostro avviso - ricordava il Buccelli nel 1823- i difetti dai quali sembra non vada esente niuno dei metodi comunemente usati (nell'insegnare il latino): l'uno è l'esser le grammatiche di troppa mole e farragine, l'altro che in esse non si danno le cose se non per definizioni (..). Si crede generalmente il fanciullo incapace di ragionamento; quindi gli allievi, in fatto di gramatica, si fanno esseri meramente passivi".
Grande pedagogo, quindi, il Buccelli, ma soprattutto uomo che capì che l'insegnamento "è un esercizio di intelligenza ed amore", nel quale l'insegnante non deve dimostrare ai colleghi quanto è bravo, ma condividere con gli allievi (4) : amore verso i propri allievi, siamo nel 1823 e sembra di leggere Pennac del 2007! (5)
Gio Batta Garassini
(Taggia 1815 – Carcare 1894) fu insegnante a Savona, al collegio delle Scuole Piedove studiò anche il Barrili, fino al 1839, rettore a Carcare, Savona e Genova per ben 44 anni e poi Provinciale dei Padri Scolopi. Fu lui a ingrandire il fabbricato del Collegio, dandogli l'architettura che ancora oggi mantiene, ad acquistare e a ingrandire la villa di Cornigliano costruendovi il nuovo Collegio. Si dedicò anche alla poesia, realizzando un Salterio in cui "cantava i suoi dolori e le sue pene, ed erano molte". Negli ultimi anni intrattenne rapporti di amicizia e cordialità col Barrili che ne compose un “ricordo”, in occasione della morte, poi pubblicato su un numero unico a cura degli Scolopi (6), e fu lo stesso Barrili massone ad accompagnarne al cimitero, assieme a tutti i notabili locali, il feretro tenendo fra le mani uno dei cordoni che pendevano, secondo le usanze di allora, dal catafalco. Atanasio Canata
(1811-1867) sacerdote insegnante negli anni infuocati del Risorgimento. "Ingegno sagace e bollente", come lo descrisse p. Isola, fu un “uomo da dipingere, per usare le parole di un suo famoso discepolo, l’Abba, il cairese scrittore garibaldino autore delle “Noterelle di uno dei Mille”, con la spada in pugno (..) se fosse stato al secolo l’Italia l’avrebbe visto morire in qualcuno dei moti dal 31 in poi”(7). Grande “svegliatore di ingegni e di cuori”, per usare sempre le parole dell’Abba, ai suoi allievi trasmise qualcosa di più che la retorica e il latino. Ebbe un piccolo posto anche in campo letterario avendo lasciato cinque volumi di opere (tragedie: fra esse Severino Boezio, Il vecchio della montagna, I masnadieri delle Langhe, versi, prose) pubblicati postumi nel 1888 nei quali fu, secondo il giudizio di Capasso, "poeta non disprezzabile, anche se la nostra epoca senza memoria lo ha scordato" (8) Morì di tifo nel 1867.
Canata esercitò un’influenza notevole su un gruppo di studenti di questo istituto, i cui nomi ricorreranno più volte in queste note. Ebbe però soprattutto un ruolo come “formatore” di animi di futuri uomini che tanto poi si impegneranno nell’attività politica e risorgimentale di quegli anni cruciali: cercare di suscitare negli studenti un forte amor di patria unito a sinceri sentimenti religiosi fu ciò cui mirò, con risultati eccezionali, almeno per quanto riguarda il primo punto. Per evidenziare il successo che ottennero le sue lezioni, permeate di ardente amore per la patria e la giustizia (9), è sufficiente un dato: fra i 1000 giovani che seguirono Garibaldi nella spedizione in Sicilia o ad essa collaborarono, ben cinque (il cairese Giuseppe Cesare Abba, il piemontese Biagio Caranti, i genovesi Stefano Dapino, Paride Salvago e un quinto che Abba ricorda senza riportarne il nome) furono ex allievi del Collegio delle Scuole Pie di Carcare 10). Il fatto che tra i 1000 originari garibaldini o fautori della spedizione ci fossero ben 5 ex allievi di Carcare, o se vogliamo il fatto che tra i 100 allievi del collegio carcarese ben 5 seguissero Garibaldi, è una spia indicativa del clima che si respirava fra le aule dell’istituzione calasanziana e che permette interessanti riflessioni a proposito di certi sbrigativi giudizi circa l’atteggiamento tenuto da talune istituzioni religiose (di "base"!) nei confronti delle istanze risorgimentali (11).
Se dalla attività di educatore passiamo a quella di letterato, il discorso diviene più complesso. Conosciamo due opere a stampa di Canata di interesse letterario, entrambe edite a cura di un confratello, p. Leoncini: un volume di Tragedie (Torino 1888), uno di versi (Torino 1889).
Il primo contiene cinque opere: Severino Boezio, Roknedino ossia Il Vecchio della Montagna, Mosatte o I Saraceni in Liguria, Saladino e Arrigo degli Alerami ossia I Masnadieri delle Langhe. In tutto 400 pagine di versi fitti fitti, ricche di punti interrogativi ed esclamativi.
Confessiamo che le abbiamo sfogliate, abbiamo anche cercato di leggere l'ultima -a quanto si intravede una cupa storia di sangue, figli perduti e ritrovati, fratelli perfidi e generosi- attratti dai coinvolgenti versi iniziali ("Vita d'inferno è questa: ebbri di colpa io traggo i giorni: mi ricorco a sera coi più fieri rimorsi" e dal fatto che è l'azione è almeno in parte ambientata nelle nostre Langhe e nella "curtis" di Dego, di cui l'Arrigo del titolo è marchese: ma ci siamo fermati alla seconda pagina, di fronte ad un "Sigieri, ancor t'irruga il rio pensier la fronte!" Dopodiché, lo confessiamo, ci siamo limitati a leggiucchiare qua e là.
Certamente più interessante la lettura dei Versi, specchio di un'anima che nella vita deve aver sofferto e provato dolori, delusioni, sconfitte ed invidie, ma confortata da una profonda Fede. Versi robusti, animo talora disilluso ("Per erma solitudine d'affanni/ vommi inoltrando sott'iniqua stella./ Follie nel volgo, né fratelli inganni/, scienza un deliro di ragion ribelle, i popoli divisi, i re tiranni"), echi foscoliani ("contro i raggi del sol arbore amica"), manzoniani (" son lupi che versan le nordiche selve/ son forti leoni che l'austro nutrì./ O figli di forti, volate alla guerra/ o libera o serva sia sempre la terra"), e perfino scapigliati ("E il proclamato premio/del sapiente dov'è?/ Languisca pur d'inedia/ il genio è premio a sé"), forte capacità di sintesi drammatica ("un lanciar d'obliqui sguardi/ un tacer di freddi visi"), e di costruire immagini potenti ("Sopra squallido corsiero/ va la morte galoppando/ l'amarissimo sentiero/ colla falce lor segnando/ai suoi piè la terra oscilla/ Dies irae dies illa); delusioni cocenti (" ti seguiva collo scherno/quella ciurma multiforme/ che sbucataci d'inferno/ che vantando patrio affetto/della patria è poi flagel"; " turba gelida di inetti ingombrava il suol natio/non più fede era nei petti/ non più patria, non più Dio"; attenzione verso i miseri e i diseredati "E il pover chiede un misero /pane ed un pane non ha/ l'orecchio poi ti assordano/ d'amor, d'umanità") e sconsolate domande sempre valide: " che sia suprema la ragion del forte/e la decida delle spade il lampo?". Versi insomma che possono ancora dire e dare qualcosa, e che chi vuole può facilmente leggere nei due volumi presenti nella Biblioteca Civica di Carcare
Visti
alcuni degli insegnanti, passiamo agli studenti.
Fra
questi merita certo almeno una citazione Giovanni
Rivara, studente del Calasanzio fino al 1856
inizierà poi la carriera giornalistica a Genova, diventando un personaggio di
spicco dell’ambiente giornalistico cattolico. Sarà lui a fondare il
quotidiano “Il Cittadino”,
vitale a Genova e in Liguria fino alla fine degli anni ‘70 del XX secolo.
Giorgio Briano
Altro ex allievo di questo istituto, anch’egli personaggio di spicco nel mondo del giornalismo politico cattolico, questa volta però pedemontano, fu il carcarese Giorgio Briano (1812-1874).
Nel 1847 lo troviamo a Torino, amico di Silvio Pellico, di cui scrisse anche una biografia. Impegnato nella redazione del “Risorgimento”, di cui rappresentò la parte cristiano liberale moderata, quando questo giornale si spostò, nel 1849, posizioni che il Briano evidentemente giudicava troppo poco moderate (specie all’epoca della direzione di Balbo e poi del Cavour), se ne andò. Nel 1852 fondò un altro giornale, “La Patria”, da cui fu poi allontanato in seguito a pressioni ministeriali dopo le critiche che il Briano aveva lanciato contro la politica ecclesiastica (o meglio, antiecclesiastica) del governo; nel ‘57 è il direttore del giornale moderato “Italia Conservatrice”, pubblicazione anch’essa osteggiata dal Cavour, nel 1866 diviene collaboratore della “Rivista Universale” dalle cui pagine sostenne l’opportunità della partecipazione dei cattolici alla vita politica.
E’ interessante un carteggio di tre lettere tra il Briano e il Manzoni originato da un articolo del Briano pubblicato sul “Risorgimento” il 16 settembre del 1848. In esso il Briano sosteneva l’eleggibilità al parlamento subalpino dei lombardi e veneti ed avanzava la candidatura del Manzoni per le elezioni suppletive che avrebbero dovuto svolgersi nell’autunno di quell’anno. Per la cronaca il Manzoni rifiutò, ora dicendo di essere “assolutamente inetto, e per più di un verso, a prendere parte a discussioni pubbliche” (lettera del 28/9/48), ora riconoscendo di essere privo di “quel senso pratico dell’opportunità, quel saper discernere il punto dove il desiderabile s’incontri col riuscibile e dell’attenercisi sacrificando il primo con rassegnazione”, ora adducendo perfino - fra gli altri motivi- quello della sua balbuzie che gli avrebbe impedito di parlare in pubblico: “L’uomo che ella vorrebbe far deputato balbetta, non in senso traslato, ma nel senso proprio e fisico, a punto che non potrebbe tentar di parlare senza mettere a cimento la gravità di qualunque adunanza”) (12). Il Briano, ex allievo del Calasanzio, si attiverà anche, insieme ad altri, per salvare l'esistenza stessa del Collegio nel 1866, all'epoca della legge Siccardi che secolarizzava i beni degli Istituti religiosi: scriverà infatti una lettera al Ministro dell'Istruzione Pubblica Berti, suo amico, per presentargli il sindaco di Carcare Ferrero, in missione nella capitale (allora Firenze) per cercare di ottenere il mantenimento della presenza degli Scolopi e del loro convitto a Carcare. La missione avrà buon esito e gli Scolopi resteranno..
Borella Alessandro
Giornalista (fu tra i fondatori della Gazzetta del Popolo) e poi deputato al Parlamento subalpino fu anche Borella Alessandro, nato a Castellamonte (To) nel 1813 e studente a
Carcare nel 1825 (13). Tra i fondatori del giornale piemontese, organo dei liberali, fu anche deputato eletto nel Collegio di Torino e in quello di Cortemilia. Membro della Sinistra costituzionale, si distinse per un attivo impegno nelle petizioni per l'abolizione del foro ecclesiastico, l'abbattimento dei privilegi e l'incameramento dei beni della Chiesa: ciò gli costerà poi "la tenace acrimonia degli avversari", come ricorda V. Castronuovo (14). Convinto sostenitore della necessità prima di un intervento regio per risolvere la "questione romana", poi dello sfortunato tentativo garibaldino del 1867, morirà a Torino il 2 maggio 1868. Lasciò, oltre agli articoli giornalistici, alcune opere "morali", "a metà strada tra le tradizioni filantropiche e i propositi di educazione popolare mazziniani" (15): tra queste particolarmente interessante quella Sulle origini dei beni ecclesiastici del 1852.
Domenico Buffa
Giornalista, ma di tutt'altra tendenza, e politico di spicco fu anche Domenico Buffa, nato ad Ovada nel 1818 e studente nel Collegio di Carcare dal 1829.
Proveniente da una famiglia "
di saldi principi religiosi" (quando studiava all'Università a Genova, negli anni del Mameli, il padre lo trasferì in quella di Torino "
temendo i contatti con elementi mazziniani") (16), dopo un primo interesse per lo studio delle tradizioni popolari (fu coautore di una Raccolta di
Canti Popolari del Piemonte pubblicata nel 1858 da C. Nigra) si dedicò al giornalismo collaborando col Subalpino, Il Cimento, Il Parlamento, Il
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Domenico Buffa in una caricatura del giornale satirico "La strega"
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Piemonte.
Nel 1848 fondò un suo giornale, la Lega Italiana, di orientamento neoguelfo e federalista: nella prima pagina spiccavano i motti: l'Italia farà da sé e Dio lo vuole . Eletto deputato nel Collegio di Ovada nel '48, fu chiamato al governo dal Gioberti che gli assegnò il Ministero dell'Agricoltura e Commercio. In questo periodo fu inviato (nel dicembre del 48) a Genova come "commissario straordinario investito di tutti i poteri esecutivi per ristabilire l'ordine compromesso dalle dimostrazioni popolari"(17) Era un incarico altamente scomodo: siamo nel periodo in cui iniziano a Genova (con l'assalto dei genovesi al forte S. Giorgio e a quello del Castelletto) i primi atti di quella ribellione contro i Savoia (o meglio, contro la politica genovese dei Savoia) che avrà il suo culmine nei già ricordati avvenimenti del '49 e nell'attacco dei bersaglieri di La Marmora. In quel frangente il Buffa si comportò con prudenza e moderazione chiedendo l'allontanamento alla città dell'esercito regolare: cosa che gli procurerà le critiche del La Marmora e d'Azeglio.
Negli anni successivi si avvicina al gruppo politico dei sostenitori del Cavour. Nel 1852 fu favorevole ad un progetto di legge presentato dal De Foresta che prevedeva restrizioni alla libertà di stampa, e nello stesso anno ricevette dal Cavour l’incarico di Intendente Generale per la provincia di Genova: incarico molto delicato perché doveva far dimenticare ai genovesi l'assalto del '49. In questa veste fu anche incaricato di procedere, nel ’53, all'interrogatorio di F. Orsini (quello che poi attenterà a Napoleone III), arrestato a Sarzana con l'accusa di promuovere un'insurrezione di stampo mazziniano. Proprio in qualità di Intendente sciolse d’autorità per “attività eversiva” (18 ) la neonata Società Oeraia di Mutuo Soccorso di Lerici. Nel '55, discutendosi alla Camera il progetto dell'abolizione delle Congregazioni religiose, si dimise dalla carica perché contrario a quella legge che stimava inopportuna. Su questo argomento si trovava quindi su posizioni opposte rispetto a quelle di Borella: eppure studiarono nella stessa scuola.
Nel 1856 sostenne l'opportunità della missione militare piemontese in Crimea, l'anno successivo fece numerosi interventi a sostegno di un progetto di legge che puniva la "cospirazione contro la vita dei sovrani e dei capi di stato e l'apologia dell'assassinio politico", legge nata in seguito all' attentato contro Napoleone III. Morì il 23 giugno del 1858.
Bartolomeo BorelliStudente nel collegio di Carcare dal 1838 al '40 fu anche Bartolomeo Borelli.
Nato a Pieve di Teco nel 1829 fu deputato nel 1865 e senatore a vita nel 1892. Ma più che come politico, rappresentante dei cattolici indipendenti, l'ing. Borelli legò
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Borelli in una stampa allegorica del traforo del Frejus |
indissolubilmente il suo nome ad un'impresa per l'epoca ciclopica:
il traforo del Frejus, fra Bardonecchia e Modane. Voluto da Cavour, per motivazioni alle quali non erano estranei anche elementi di visibilità internazionale e prestigio personale, e iniziato il 31 agosto 1857, questo lunghissimo tunnel (12233 m., in parte in territorio italiano in parte in quello francese), fu inaugurato dopo 14 anni il 19 settembre del 1871. In quei 14 anni lo Stato che l'aveva voluto passò da Regno di Sardegna a Regno d'Italia, ci furono due guerre di Indipendenza, l'attentato a Napoleone III, la spedizione di Garibaldi, la Breccia di Porta Pia, la capitale si spostò due volte e capitò anche un'epidemia di colera: ma i lavori non si fermarono. Fu per l'epoca un'opera veramente notevole, nella quale le tecnologie e le attrezzature necessarie furono praticamente inventate "in corso d'opera": fra tutte la perforatrice pneumatica che, collegata ad un uso intelligente delle mine, permise la realizzazione dell' opera in tempi che sarebbero competitivi anche oggi. L'ing. Borelli fu uno degli artefici della triangolazione che permise di iniziare i lavori contemporaneamente dai due versanti (con un errore di parallasse, su 12 km., di soli 40 centimetri) e fu il responsabile del cantiere sul versante italiano e dei 1500 operai che vi lavorarono. Dopo il traforo, come deputato cercherà invano di far realizzare la ferrovia da Ceva a Oneglia: in questo progetto l'ingegnere che aveva vinto il Frejus verrà sconfitto dalla politica e ad essere realizzata sarà invece la Cuneo- Nizza- Ventimiglia.
Morirà nella sua villa del "castello di Borghetto Santo Spirito " nel 1905.
Biagio Caranti
Un altro personaggio, ex allievo di questa scuola, che fece una notevole carriera prima politica, poi statale ed infine finanziaria fu Biagio Caranti (Sezzadio 1839-91).
A partire dal ‘58 fu segretario di quella Società Nazionale che tanta importanza ebbe nel cd. “decennio di preparazione” (1849-1859) e che fiancheggiò concretamente l’operato di Garibaldi. Nel 1858 scrisse il “Catechismo politico dei contadini piemontesi”. Nel 1860 lo troviamo nel Ministero degli Interni, alla segreteria particolare del ministro Rattazzi e poi di Cavour con cui ebbe uno scontro in seguito ad una non meglio precisata lettera che il Caranti gli trasmise (34). A causa di ciò fu destituito. Nello stesso anno Caranti scrive a Garibaldi per raccomandargli Abba quando il poeta si offre come volontario fra i Mille (35). Anche il Caranti si reca dopo pochi mesi in Sicilia per raggiungere Garibaldi, a Napoli, collabora col marchese Pallavicini ad “organizzare” il plebiscito che avrebbe sancito l’annessione delle province meridionali al Regno d’Italia, (36) e a rintuzzare le manovre della sinistra che voleva temporeggiare. Diviene quindi Reggente del Ministero degli Esteri suscitando l’ira del Cavour che si vede ritornare tra i piedi colui che aveva silurato in precedenza.
Nel 1862 per aggirare i problemi legati alla scelta di Roma come capitale (era ancora sotto il papa) suggerisce di fondare una nuova Roma (Vittoria) sui confini italiani del Lazio. Nel 1865 troviamo Caranti come capo divisione del ministero dell’agricoltura. In questa carica sostiene proposte gravide di conseguenze per la nascente industria italiana, essendo un fautore della politica del libero scambio con l’Europa: niente dazi per importare materiale per lo sviluppo industriale e ferroviario italiano, in cambio libera esportazione dei prodotti agricoli, con vantaggi anche per il sud (37). Tale politica sarà cambiata più tardi dalla sinistra e dal Crispi che per favorire lo sviluppo di un’industria pesante al nord (anche per gli armamenti) mise tasse sulle importazioni industriali dalla Francia che rispose con tasse sulle nostre esportazioni agricole, danneggiando l’economia del sud. Sua fu inoltre un’accorta politica di tutela idrogeologica dell'ambiente e di rimboschimento.
Preparò anche un progetto che oggi potrebbe sembrare bizzarro, ma che all’epoca fu tutt’altro che isolato: si trattava di trovare un territorio oltremare adeguatamente fuori mano per istituirvi una colonia penale. Si tenga presente che all’epoca, anche in seguito alla repressione del brigantaggio e della guerriglia nel sud, le prigioni del Regno d’Italia rigurgitavano letteralmente di reclusi (38). Il Caranti approfitta del fatto che la Danimarca aveva “dismesso” le isole Nicobare al largo del Golfo del Bengala per preparare un progetto di acquisizione di tali isole e realizzazione in loco di una colonia penale. Il programma non andò in porto ma comunque non fu più bizzarro di altri, visto che esistevano progetti italiani per la realizzazione di colonie penali addirittura alle isole Aleutine. Del progetto, come si detto, non se ne fece nulla e queste isole, dichiarate “res nullius” dalla Danimarca, finirono logicamente nelle mani della onnivora e onnipresente Gran Bretagna (39).
Nel 1866, quando già si profilava la III guerra di indipendenza, il Caranti cercò di organizzare una spedizione nei Balcani agli ordini di Stefano Turr. Si trattava niente meno che sbarcare in Dalmazia per invadere l’Austria da est. Anche questo progetto rimase sulla carta, ma diede al Caranti l’opportunità di un lungo giro diplomatico per mezza Europa e oltre: Balcani, Costantinopoli, Bucarest, Berlino furono visitate dall’ex allievo del Collegio di Carcare per trovare i necessari appoggi diplomatici, che non trovò.
Nel ‘76 troviamo di nuovo il Caranti a Torino, dove fonda un quotidiano, “Il Risorgimento” (il secondo di questo nome se non andiamo errati), nel 1877 abbandona la carriera di politica o di sottogoverno per dedicarsi al mondo della finanza. Entra nel Consiglio di Amministrazione della Banca Tiberina di cui è, due anni più tardi, presidente. Sotto di lui la Banca Tiberina si trasforma nel secondo istituto bancario privato d’Italia. Il Caranti la lancia poi nel mercato degli investimenti immobiliari e la Tiberina diviene uno dei principali artefici della speculazione edilizia che si sta realizzando in quegli anni a Roma, in grande sviluppo dopo la sua investitura a capitale del Regno. Per 12 anni la banca ha un’espansione continua, con ricchi dividendi distribuiti agli investitori. Poi inizia prima il declino, infine la crisi: coinvolta nelle difficoltà dei costruttori romani nell’ultimo decennio del XIX secolo, verrà malinconicamente liquidata nel 1895: ma il Caranti era già morto da quattro anni.
Filippo Mellana
Ex allievo del Calasanzio, nonché esponente del mondo politico subalpino, fu anche Filippo Mellana, principe dell'Accademia nel Collegio intorno al 1828.
Nel 1856 fu sindaco di Casale Monferrato e in tale veste promotore della nascita dell'Istituto
municipale "Leardi", prima scuola tecnica d’Italia. Nel 1860 divenne deputato, ricoprendo un ruolo di spicco in un periodo importante per la Storia d'Italia. Dopo la proclamazione del Regno 'Italia (14 marzo 1861) fu uno dei più decisi sostenitori della necessità di coronare l'Unità con la proclamazione di Roma come capitale. Su tale questione il Mellana non condivideva il metodo diplomatico da utilizzarsi ("d'accordo con la Francia e con l'acquiescenza del Papa"): per le sue posizioni radicali fu quindi un fiero oppositore di Cavour (40). Come ex allievo, anzi principe dell'accademia, Mellana fu ricordato anche dall'Abba in "Cronche a Memoria": ricordando i giorni ardenti del '48, "quando nella sua (del Canata) scuola suonarono temi che facevano andar in visibilio i giovanetti, solo a sentirli enunciare", Abba scrive infatti: "il Rettore aveva fin fatto ripulire e dai corridoi meno visitati portar bene in vista il ritratto d'uno, ch'era stato convittore e principe dell'Accademia venti anni avanti e che adesso si avviava a divenire un gran tribuno a Casale, a Torino. E i convittori passavano con rispetto dinanzi al forte faccione dipinto di Filippo Mellana, che pareva uscire da una capigliatura soffocante per guardar loro e tirare il fiato perché la gioventù si destava".
Giuseppe Sapeto
Su questo ex allievo del Calasanzio, poi esploratore in Abissinia, v. qui
Anton Giulio
Barrili vedi qui
Se
Barrili fu il più famoso -e prolifico- autore “valbormidese
d'adozione”, esso non fu però l’unico: negli anni della sua
permanenza nella Valle, diverse
furono infatti le opere prodotte da scrittori locali.
Giuseppe Cesare Abba
Nel settore del romanzo l’autore valbormidese "doc" più noto fu certo Giuseppe Cesare Abba.
Abba, colui che sarà poi lo “storico” della spedizione dei 1000 di Garibaldi, autore di quelle “Noterelle di uno dei Mille" che dell’impresa siciliana dell’Eroe dei due Mondi furono la cronaca e che ricevettero al loro comparire caldi consensi nell’ambiente culturale italiano, nacque a Cairo Montenotte il 6 ottobre 1838.
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Abba nel quadro del Serono già esistente nel
Collegio di Carcare |
L’età giovanile dello scrittore (il cui vero cognome era Abbate) è legata agli anni di scuola passati nel Collegio di carcare che l’Abba frequentò del 1849 al 1854: della sua permanenza in quell’istituto, in cui ancor oggi è ospitato il liceo Classico e Scientifico, restava fino a non molti anni or sono un quadro ad olio del Serono che ce lo presenta, nel 1854, come “principe dell’Accademia”, e che l’autore ricorda di aver visto nei silenziosi corridoi dell’Istituto quando, ma è già passato qualche anno, li percorreva come giovane studente (70).Quelli del Calasanzio, dove giganteggiava l’appassionata figura di p. Canata, furono anni importanti per la maturità “politica” del nostro studentello. Da questo insegnante, che il giorno in cui gli Austriaci sconfissero i Piemontesi a Novara, nel clima ardente della I Guerra di Indipendenza, “ entrò in iscuola -è sempre l’Abba a ricordarlo- pallido e tremante; con voce strozzata annunzò ai giovinetti scolari suoi la grande sventura della patria, cadde sulla sedia e pianse”(71), Abba fu assai influenzato. L’impatto che un tale maestro poteva avere su giovinetti undicenni in quel clima appassionato è infatti facile ad immaginarsi, ed i frutti, come abbiamo ricordato, furono evidenti all’epoca della spedizione di Garibaldi non tarderanno a cogliersi.
Lasciato il Calasanzio l’Abba si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Genova: insoddisfatto, insicuro sulle proprie inclinazioni, probabilmente desideroso di azione, come ricorda un suo biografo, nella primavera del 1859 si arruola volontario nei Cavalleggeri d’Aosta. Anche questa scelta, però, lo delude e pochi mesi dopo, in ottobre, lo troviamo già in congedo. L’anno successivo la sua inquietudine trova uno sfogo nella grande impresa che “nell’attuazione eroica e poi nel commosso ricordo -come scrisse il Mariani- illuminerà tutta la sua vita": conosce Garibaldi -cui Caranti scrisse una lettera di presentazione, per altro mai esibita dall’Abba (72)-, entra nei Mille, parte per la Sicilia. Prima soldato semplice, poi furiere, infine sottotenente, l’Abba può finalmente trovare la sua strada, quella dell’azione: combatte con coraggio a Calatafimi e a Palermo, riporta una menzioneonorevole nella battaglia del Volturno. In questo periodo l’uomo di azione si sposa felicemente all’uomo di penna, e su un taccuino riassume fedelmente, con annotazioni rapide ed essenziali, gli avvenimenti di quei giorni esaltanti. Sarà questo il materiale dal quale usciranno poi la famose “ Noterelle di uno dei Mille”, certo l'opera principale. Esse conobbero una notevole fortuna da parte della critica, con l'eccezione del Croce, che le giudicò un poco studiata e artificiose, "oscillando esse -così scrisse- tra l'immediata testimonianza visiva e il commento letterario". La critica più recente (Trombadori, Mariani, Cattanei) sottolinea invece la necessità di non isolarle dalla restante produzione letteraria garibaldina e di collegarle alla letteratura regionalistica e bozzettistica contemporanea. Terminata l'esperienza dei 1000, Abba non segue Garibaldi nella spedizione verso Roma del 1862: le condizioni politiche sono mutate, Vittorio Emanuele II ha stipulato un accordo con Napoleone III, i garibaldini arrestati in Aspromonte con Garibaldi da eroi diventano sovversivi, e vengono imprigionati in quelli che qualcuno definì "i lager dei Savoia" (73): 473 nel forte di Bard, 467 in quelli di Genova, 91 a Exilles, 200 nel forte di Vado Ligure, una decina in quello di Fenestrelle (74).
Tornato a Cairo dopo alcuni anni trascorsi a Pisa, durante i quali trovò comunque il tempo di seguire ancora una volta, nel 1866, il suo Garibaldi a Bezzecca, Abba restò nella quiete di quello che era allora un tranquillo villaggio contadino fino al 1880, iscrivendosi alla Massoneria nel 1869 (75), occupandosi della poco appariscente, ma viva, vita provinciale in cui lui, intellettuale con alle spalle l’impresa di Sicilia, non poteva certo restare anonimo. Lo troviamo così occupato nell’amministrazione del paese di cui fu consigliere e, per nove anni sindaco: in tale veste si interessò all’edilizia pubblica, alla creazione della locale Società di Mutuo Soccorso, all’istruzione elementare, all’istituzione di un istituto di credito per i concittadini. Anche la politica non poteva non attrarre il nostro ancor giovane reduce: per due volte presentò la propria candidatura al Parlamento ma entrambe fu sconfitto: “l’aedo dei Mille” non era ancora conosciuto come tale e non riuscì a raccogliere le poche decine di voti allora sufficienti per l’elezione. Nella quiete cairese tornò a farsi sentire prepotente in lui il desiderio di scrivere, che già l’aveva accompagnato nelle esaltanti giornate siciliane e negli anni pisani. A Pisa aveva composto quel poemetto,“Arrigo. Da Quarto al Volturno”, tipica opera romantica in poesia, che verrà ben presto ripreso  |
"Le rive della Bormida nel 1794" in un'edizione moderna |
dall’autore con ben altri esiti. A Cairo nascono invece “Le rive della Bormida nel 1794”, in cui Abba paga il suo contributo all’imperante moda del romanzo storico: “faticoso il titolo, scriverà più tardi un critico (76), e faticoso il lavoro, condotto con tutte le cure dell’arte letteraria ma dove si respira l’atmosfera lenta di quella vita da borgo e del chiuso dello studiolo domestico, pur vigilato da uno sguardo dolce di donna, ma non più vivificato dagli entusiasmi e dalle speranze della prima giovinezza”. E’ un giudizio che forse può apparire severo, ma che riteniamo di poter nel complesso condividere. Caratterizzato da modi “sospirosi, verbosi, esclamativi”, secondo una felice definizione del Capasso (77), il romanzo è ambientato all’epoca dell'invasione napoleonica del 1794-96. Protagonista Giuliano, un giovane medico di Dego animato da sentimenti filofrancesi: non potendo sposare la fanciulla di cui è innamorato, promessa dal padre ad un barone austriaco, prima fugge e poi... sposa la cameriera (mentre la neo-baronessa, divenuta opportunamente vedova in seguito alla morte del barone nello scontro di cavalleria che si ebbe nella piana fra Rocchetta e Dego durante la battaglia del 21 settembre 1794, finisce in convento). Fu benignamente definito - dallo stesso autore - “di scuola manzoniana”. Resta all’opera un merito, quello di aver fatto rivivere, anche se in chiave di oleografica epopea romantica, poco rispettosa della verità storica (78), le drammatiche vicende della Val Bormida durante l’occupazione francese del 1794, di cui l’Abba vide però più l’aspetto esaltante delle idee che quello dirompente e ben più drammaticamente reale della fame e della violenza: nel romanzo, è stato recentemente ricordato, "le milizie francesi beneficiano di un'eccessiva idealizzazione. (79).
Ma il capolavoro dell’Abba stava ormai per nascere, anzi aveva già mosso i primi passi nelle nervose annotazioni puntigliosamente buttate già durante l’impresa di Garibaldi. Per un intero ventennio quelle note così affrettate furono “l’oggetto amoroso delle cure dello scrittore” che in quelle pagine trovava forse anche il sapore della giovinezza. Un amico mise un giorno l’Abba in contatto col Carducci, allora “gran vate" delle lettere italiane: con “grande tremore” (80) l’Abba gli inviò le sue “Noterelle”. Al Carducci piacquero (le definì anzi “un piccolo capolavoro” e nel 1880 esse videro finalmente la luce. Con la pubblicazione arrivarono i consensi, la fama, la gloria: il Carducci parlò (= raccomandò) del nostro autore al De Sanctis, allora Ministro della Pubblica Istruzione, il quale lo nominò (così andavano le cose, allora) professore di Italiano nelle scuole secondarie, prima al liceo Torricelli di Torino, poi all’Istituto tecnico Tartaglia di Brescia, città in cui l’Abba si trasferì definitivamente.
Già alla fine dell'impresa dei Mille Abba aveva capito che i veri problemi sarebbero incominciati allora, e che il futuro sarebbe stato, per chi aveva nel cuore gli ideali garibaldini, tutt'altro che roseo: "e mi par che cominci a tirar un vento di discordie tremende", scriveva allora nell'ultima pagina. A maggior ragione, sul finire del secolo – e della sua vita- la tragica situazione italiana viene avvertita in tutta la sua drammaticità e contraddizione dall'Abba: la miseria devastante di tanta parte della popolazione mentre i monti della Liguria si coronano di costosi ed inutili forti e l'Italia si buttava nell' altrettanto inutile e costosa avventura coloniale,
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n'emblematica foto di quello che Isola definì "lo sciagurato nostro delirio africano": un soldato italiano con un prigioniero eritreo |
il pane a 45 centesimi al kg. quando un operaio ne guadagnava 18 all'ora, le manifestazioni represse a cannonate dall'esercito, gli ideali garibaldini traditi lasciano traccia in alcune sue lettere. Il figlio Mario, quel figlio che già da ragazzino aveva fatto scrivere al padre "Ma lui mi cresce giovinetto a lato/ che dal tuo seno suscitasti a me/ e già di tutto o morta ha dubitato/ e freddo afferma che il Signor non c'è" (81), è cresciuto, è diventato carabiniere e viene inviato al sud per dare la caccia a quelli che venivano definiti briganti. Allora l'Abba scrive: "Laggiù stava il mio Mario, dalla parte che doveva reprimere, mentre suo padre, quarant' anni prima, v'era dalla parte degli insorti.. e le ragioni del conflitto, le ragioni latenti, sono le stesse. Misera Italia nostra" (82).
I moti dei fasci siciliani dei lavoratori lo portano alla triste considerazione che "i dolori, gli sdegni , i moniti stanno ancora e sempre, … mentre il fatale andare va rendendo sempre più urgenti laggiù le giustizie che in 50 anni avrebbero dovuto essere quasi compiute"(83); lo "sciagurato nostro delirio africano", verso il quale voleva andare anche il figlio Marco, ansioso di partire per l'Eritrea, lo spinge a considerazioni venate di profondo pessimismo: " Mario mi scrive lettere di fuoco da Modena. E' tutto invaso dalla febbre africana. E me ne duole. Combattere? Ma combattere contro di chi e per chi? Stupida pretensione quella di credere opera di civiltà una guerra, che in fondo ha l'ingiustizia" (84).
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| Abba in età avanzata |
Poco per volta, mentre i suoi compagni della Sicilia spariscono uno dopo l’altro (non prima però che i 1000 di Garibaldi fossero diventati, ai fini “pensionistici”, molte migliaia), l’Abba diviene comunque un simbolo dell’Italia eroica, chiamato nelle principali città a commemorare Garibaldi: nel 1907 è a Roma, per pronunciare in Campidoglio l’orazione ufficiale a ricordo dell’impresa dei Mille, e fra i suoi ascoltatori c’è il Re.
Nel 1910, infine, a coronamento della sua vita, arriva la nomina a Senatore del Regno: trenta anni prima l’aveva ripetutamente cercata senza ottenerla, ora -invano (così almeno scrisse)- vorrebbe rifiutarla. Cinque mesi più tardi, il 6 novembre, Giuseppe Cesare Abba muore all’improvviso in una strada di Brescia. La sua tomba è nel cimitero di Cairo.
Di sé nella sua biografia aveva scritto "fece quanto poté umilmente, senza pretensioni, senza ambizioni e senza guadagni" e in una delle sue ultime lettere un' amara constatazione: "L'Italia l'ho veduta farsi e so com'è: essa è venuta su quale doveva essere: il feudo di una classe di furbi, viventi di mutua assistenza e di mutui salvataggi"(85).
Fortuna che oggi, come è noto, le cose sono cambiate.
Fra le sue opere le più convincenti restano, a nostro avviso, oltre alle “Noterelle di uno dei Mille”, del 1880, precedente -fra l’altro- alla ripresentazione dell’opera del Barrili dedicata ai ricordi legati alla spedizione di Garibaldi, le melanconiche Cronache a memoria, mesto bilancio delle delusioni della vita, con però alcune felicissime sintesi di grandi avvenimenti, dal giudizio sulla Costituzione promessa da Carlo Alberto: " Voleva dire che nessun sindaco d'accordo col parroco e col brigadiere avrebbe più potuto perseguitare, far mettere in prigione, mandar in Sardegna nessuno" (p.7) a quello altrettanto chiaro sulla politica di Cavour e sulla "eticità" delle scelte di spesa del giovane Stato italiano: "c'era il generale Lamarmora, di cui le donne e i ragazzi dicevano che era ben brutto. Ma quella faccia asciutta, quasi smunta, dava l'idea d'un uomo che lavorasse giorno e notte pel Re, a fargli spendere in armi e soldati tutto il danaro che il ministro Cavaoro aveva cominciato a spremere dalla povera gente. Cavour, Cavaoro! Giocavano così sul nome del ministro non solo gli sciocchi, e chiamavano lui anche impostore perché metteva le imposte. Ma insomma voleva così il Governo del Re; bisognava rispettare, ubbidire e pagare" (p.13). Nelle Cronache troviamo anche gustose rappresentazioni di figure di provincia: indimenticabili, per es., il parroco e il sindaco di Cairo che all'arrivo di un gruppo di soldati alemanni nel '21, impegnati nel pacato inseguimento dei rivoluzionari coinvolti nei moti di quell' anno, si fanno loro incontro "il parroco a capo scoperto, coprendosi quasi la faccia e il petto col gran cappello, cominciò a dir in latino parole d'ossequio al maggiore e a' suoi ufficiali (…) ma il sindaco bolliva, voleva dire, scoppiò: e invece di chi sa che cos'altro ruminato per via gli uscì gridato: Nos non timemus vos! Tutti tremarono, il parroco sospirò, ma niun male "(p.9). Affettuosa anche la rievocazione di Carcare, "due ciuffi di case sulle due rive della Bormida, un ponte che li congiunge, colli che si profilano chiari sullo sfondo cupo dei monti, ai quali fa da nodo il Settepani, pioppetti lungo il fiume, castagneti a piagge nei colli, macchie d'abeti in quei monti lassù, e lì, fuori un passo dalla borgata, il convento Calasanziano". Troviamo anche una descrizione finalmente non idilliaca del sonnacchioso ambiente campagnolo valbormidese :”Ma pace non v'era tra le famiglie elevate della cittadinanza: queste vivevano divise da invidie e da odii profondi per prevalere e dominare; si designavano tra loro con nomignoli di scherno, contendevano apertamente per cose da nulla: il banco in chiesa un po' più in su verso l'abside era oggetto di vive gare; il non lasciar entrare l'avversario nel Consiglio del Comune, l'impedirgli le vie di divenir sindaco, erano cure astiose; vigilanti a vicenda, tirare ciascuno a far cascare l'altro in disgrazia del Governo era uno studio oscuro, ma voluttuoso. Correvano le lettere anonime”. Vi si riscontrano testimonianze del clima pesante della restaurazione quale fu vissuto anche nelle nostre terre, dove il sindaco, il parroco, il brigadiere erano esecutori zelanti in basso degli ordini delle grandi autorità: "Quando questi tre erano d'accordo nel giudicare male d'un uomo, questi, poveretto lui! E non ci voleva molto a farsi colpire. Un bottegaio non chiudeva bene l'uscio del suo negozio prima dell'ultimo tocco per le funzioni sacre? Guai se si avvedeva il brigadiere. Questi entrava, tirava fuori il disgraziato pel bavero e lo trascinava in chiesa. Ciò lì per lì, ma poi appresso si sarebbe visto che fargli. Dispiaceva a qualcuno che quei tre condannassero troppo? Mormorava? Una buona lettera al comandante della provincia, ed egli era bell'e servito. Per cose poi di maggior importanza in cui entrasse ombra di maltalento verso il Governo, c'era la minaccia sempre paurosa della Sardegna, delle Saline; e si sapeva che di quelli che v'erano stati portati, come si diceva in proverbio, a zappare il sale, pochi ne erano ritornati”.
Proprio le Cronache contengono, inoltre, una delle poche testimonianze arrivate nella letteratura dell'epoca della rivolta antisabauda di Genova nel '49 (86).
Piacevole poi quella piccola raccolta di brani diversi “Cose vedute”, del 1887, che contiene forse - per es. nella novella “Nunzia”, alcune delle cose migliori, anche se poco note, di Abba (87).
Ernesto Rayper
Ex allievo del Collegio delle Scuole Pie di Carcare fu anche Ernesto Rayper - Genova 1840 –Stella Gameragna (Sv) 1873. Frequentò la scuola scolopica di Carcare a partire dal 1849.
A differenza degli altri personaggi ricordati in queste pagine, non fece carriera né come politico, né come letterato, giornalista, uomo d'azione: Ernesto Rayper fu un pittore. Fu anzi il pittore considerato il fondatore della scuola pittorica dei Grigi. Con altri artisti genovesi o piemontesi (Issel, D'andrade Luxoro,) Rayper forma un gruppo di artisti soliti trovarsi in Val Bormida, a Carcare. Qui, sulle rive di un fiume allora pulito, fra i tonfi sordi e lo sciabordio delle lavandaie, si aprivano quegli ombrelli bianchi e dritti come funghi prataioli dei pittori en plein air ricordati dal Barrili nel già citato Amori alla Macchia. Fu una feconda stagione di artisti che dipingevano traendo ispirazione dal vero. Fu questa la "
Scuola Grigia", così chiamata perché i suoi pittori predilessero i toni smorzati e tenui, i verdi profondi e i grigi delicati, pittori che "
spostarono, come fu notato, la pittura del chiuso degli studi all'aperto della campagna, ritraendo le cose umili attraverso l'osservazione diretta del mondo vegetale e animale". Tra gli olii più famosi del Rayper (diverse sue opere sono conservate nella Galleria dell'accademia Ligustica di Belle Arti (di cui fu accademico nel 1869), per altre abbiamo visto in Internet quotazioni di 30-35000 €, possiamo ricordare “Carcare” (1861) “A Carcare” (1862), “Motivo sulla Bormida presso Carcare” (1863) (88).
Dopo
Barrili, Abba fu il più famoso, ma non l’unico: una nutrita schiera
di scrittori caratterizza infatti l'ultimo scorcio dell'800
letterario valbormidese, un periodo veramente fecondo anche da questo punto di
vista. In gran parte si tratta di opere di storia locale, di
storia patria, ma non mancarono romanzieri.
Ferdinando Isola
Il primo autore che appare è ancora legato al Collegio delle Scuole Pie, in cui insegna: si tratta infatti di padre Ferdinando Isola autore, nel 1897, di Carcare e le Scuole Pie, che ancor oggi ha una sua utilità per ricostruire le vicende di questo paese e del suo Collegio. Nell'opera di p. Isola ci sono anche alcune citazioni concernenti il Barrili, che viene ricordato come il filantropo che aveva comperato il terreno su cui sorgeva la vecchia chiesa parrocchiale, destinata alla demolizione, onde finanziare la costruzione della nuova, oppure come il dotto letterato autore di una iscrizione, ancor oggi esistente nella piazzetta del paese, che ricordava il carcarese G.B. Sanguineti, caduto in una delle primissime battaglie legate all'espansione coloniale italiana in Africa, o, se preferiamo, a quello che l'Isola stesso definì "lo sciagurato nostro delirio africano" (89).
Nicolò Colombo
Un altro scrittore di storie patrie fu il cosseriese Nicolò Colombo, autore di alcuni “Cenni Storici del comune e castello di Cosseria che non senza peritanza perché da lui scritti Nicolò Colombo cosseriese offre come lavoro etc.” (seguono altre 5 righe di titolo) edito nel 1880: ricordato il titolo, si è già detto tutto quello che si poteva dire.
Bartolomeo Mozzone
Dedicò un libro a Cosseria anche Bartolomeo Mozzone, arciprete del paese dal 1887 al 1939, autore di un' alquanto farraginosa (ma è un'opinione personale) "Cosseria descritta nel 1925", operetta alla quale ben si addice il detto “non tutto ma di tutto”. Lo stesso d. Mazzone fu autore di una ponderosa “Monografia di Saliceto" pubblicata nel ‘37 rielaborando un vecchio manoscritto “del dott. L. Mazzone”, salicetese nato nel 1856, morto nel 1922: è un’opera di una certa validità per ricostruire le vicende spicciole di questo comune piemontese.
Gerolamo Rossi
Scrisse sulla Val Bormida, con rigore storico, anche Gerolamo Rossi, più famoso per le sue ricerche sulla città di Sanremo, Ventimiglia e sulla diocesi di Albenga. Nel 1898 viene a Cairo e in questa occasione rinviene nel locale archivio parrocchiale un documento del XV sec. subito utilizzato per una nuova pubblicazione, “Cairo e le rogazioni triduane antiche”, che, redatto con una conoscenza e un rigore storico ignoto nelle opere prima citate, ancor oggi riveste una certa importanza per la ricostruzione delle complesse vicende interessanti questa zona nel periodo di transizione fra la romanità e il medioevo.
Giovanni Battista Salvetti
Romanziere e poeta, oltre che avvocato, fu invece il cebano Giovanni Battista Salvetti autore, nel 1892, di “Federica da Millesimo”, tipica opera ottocentesca ricca di tutti gli ingredienti che caratterizzarono tanti romanzi “storici” ambientati nella stereotipata cornice delle guerre napoleoniche, incentrata sulla solita eroina che, amata senza speranza da un borghese "indigeno", si innamora del solito ufficiale napoleonico, giovane, bello e ferito, ospitato nella sua casa. Il tutto, ovviamente, col solito contorno di fughe ed evasioni, smarrimenti e rinvenimenti, matrimoni segreti e amori senza speranza fino all’immancabile lieto fine: da notare che l’innamorato leale e sfortunato è, anche qui come nel romanzo dell'Abba, un borghese, un farmacista, ed è questo un segno interessante dell’attenzione alle "nuove" (si fa per dire: siamo nel 1892!) tendenze del romanzo),
Edoardo Bormioli
Si sperimentò nella stesura di un romanzo storico anche l'altarese Edoardo Bormioli, autore di Margherita ovvero i quattro fidanzati, "romanzo storico", come lo scrittore lo definì, pubblicato a Savona nel 1882.
Si tratta di un'opera dalla lettura non sempre facile (90), che narra vicende talora complicate di una fanciulla di Cadibona (Sv.), Margherita, contesa fra tre
fidanzati, due buoni, ed uno cattivo. Non sempre semplice la lettura fin nei nomi dei protagonisti: il buono, Elmiro, il cui casato era Lovanio di Cuneo, il cattivo, l'empio Udalrigo, uomo ricchissimo, oriundo della Svizzera ma abitante a Genova-Pra, il semplice, un buon giovinetto che si chiamava Giacomo. Fra i personaggi femminili c'è Clotilde, già promessa a Elmiro e dallo stesso lasciata per la ricordata Margherita.La trama è complessa, anche se risente di modelli storici tradizionali, da Scott o Manzoni. Lo studente di medicina Elmiro, passando "
il giorno 8 di giugno di detto anno 1741" nel borgo di Cadibona,
"luogo montuoso in parte assai fertile ed in parte roccioso", si innamora col classico colpo di fulmine di Margherita,
"per la sua virtù, bontà e bellezza personale la sublime, la regina delle giovani forosette (forse il nostro ha letto Chiabrera?)
di quella borgata", che neppure lo vede. Della bella forosetta si invaghisce però anche l'empio Udalrigo, che rapisce Margherita tenendola segregata per un lungo periodo in una sua cascina (91). Alla fine le complesse e ingarbugliate vicende (nel frattempo c'è stata una guerra -quella di Successione austriaca- un assedio -quello Cuneo- e un'eredità che fa opportunamente ricca Margherita) corrono verso il lieto fine con il matrimonio fra Margherita (che in tutto il romanzo non brilla certo per loquacità) e Elmiro, non prima però che lo stesso si sia "
procurato altri ragguagli riguardo alla condotta di Margherita durante il tempo che rimase nella fattoria di Niagara" cioè prigioniera di Udalrigo.
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| I luoghi del romanzo |
E Udalrigo? Lasciata per necessità Margherita, liberata da un blitz dei gendarmi,
"avendo poscia seriamente pensato ai casi suoi, alla sua vita di prodigalità, e di scostumatezze e di iniquità; svergognato di non aver mai fatto un po’ di bene; vinto così dal pensiero che poi finalmente un giorno si deve render conto d' innanzi al cospetto di Dio di tutte le nostre azioni, venne ben presto nell'ottima risoluzione di mutar metodo di vita": insomma anche lui, come l'Innominato manzoniano, si pente, vende i suoi beni, sposa la donna con cui conviveva, si trasferisce a Basilea dove
"eresse subito una fabbrica per tessuti di panno". Quanto a Giacomo, "
il quale -ricorderete- aveva tanto candidamente amato Margherita negli anni dell'adolescenza" si ritira in buon ordine e riceve in cambio una casetta.
Esposta la trama del romanzo, resta una considerazione: il tutto dà l'idea di un racconto (dilatato per 220 pagine) se vogliamo forse talora un poco ingenuo e opera non certo di un professionista della penna, ma che -per molti particolari- sembra essere la ricostruzione di un reale fatto di cronaca su cui potrebbe essere interessante una verifica (92). Pagine utili, quindi, per conoscere e mantener vive le vicende delle "piccole patrie".
G. G. Vico
Proseguendo possiamo ricordare G. G. Vico che nel 1906 compone "
Mallare o Mallere, memorie storiche". In questo caso siamo di fronte ad un’opera che, pur fra un certo disordine, è condotta con rigore storico, rivelandosi utile miniera di notizie per la ricostruzione della ricca storia (specie del periodo medioevale e pre-ottocentesco) di Mallare.
Valentino Paladino
Le vicende storiche di Millesimo, e del suo venerato santuario, furono invece illustrate da
Valentino Paladino, sacerdote di Millesimo, autore nel 1894 di una “
Storia di Millesimo” uscita in una seconda edizione, ampliata, nel 1904. In questa seconda edizione ci sono interessanti e precise notizie riguardanti la storia del periodo napoleonico, spesso riprese -non sempre citandone la fonte, in pubblicazioni anche moderne e confermate da recenti rinvenimenti d'archivio. C’è inoltre, come si è già notato, una interessante ricostruzione della battaglia napoleonica di Cosseria, estratta da un discorso che Barrili aveva tenuto nel 1894, e il testo di un’epigrafe dettata dallo stesso Barrili in quell’occasione e murata fra i ruderi del castello.
Queste sono le opere che vengono pubblicate in Val Bormida durante la permanenza in essa del Barrili, questo l’ambiente culturale e letterario valbormidese, dominato dalla figura del romanziere savonese.
Ci si potrebbe a questo punto porre una domanda: i “letterati” valbormidesi ebbero fra di loro -e soprattutto con il Barrili- contatti o rapporti? Ci furono legami, influenze tra l’ambiente -diciamo così, intellettuale - locale e il famoso giornalista-romanziere?
Abbiamo già ricordato le citazioni di Barrili nell’opera di Ferdinando Isola, che si riferisce al Barrili come al filantropo che aveva comperato il terreno su cui sorgeva la vecchia chiesa parrocchiale oppure come il dotto letterato autore di una iscrizione celebrante il carcarese G.B. Sanguineti, abbiamo ricordato anche i due passi riguardanti il Barrili presenti nel libro di Valentino Paladino. E’ interessante osservare che anche nell’opera del Paladino, come in quella dell’Isola, le citazioni e i ricordi del Barrili ricordano non la sua attività di giornalista, politico o romanziere, bensì un suo discorso commemorativo e un’epigrafe da lui dettata.
La scarsità delle citazioni riguardanti il Barrili esistenti in queste opere, anche in quelle che -presentando settori riservati ai vari “personaggi illustri” della valle- avrebbero ben offerto tale opportunità, insieme alla qualità stessa di queste citazioni (che ricordano il Barrili solo come un filantropo, un dotto conferenziere, un autore di testi di epigrafi, lui che scriverà oltre 80 romanzi!) ci lasciano supporre che ci fosse un cortese disinteresse da parte di quelli che potremmo definire gli intellettuali valbormidesi (in parte sacerdoti) nei confronti di Barrili romanziere ( e massone: ma anche l'Abba lo era) (
93).
Proviamo ora a capovolgere la prospettiva: come il Barrili vedeva l’ambiente “culturale”, certo provinciale e minimalista, in cui aveva scelto di vivere i suoi ultimi anni?
C’è un indicatore abbastanza semplice, in attesa che sia studiata l’enorme corrispondenza dello scrittore esistente nel “Fondo Barrili” presso la Biblioteca civica di Carcare: esaminare i libri della biblioteca personale del Barrili (circa 8000 volumi) e vedere quante opere degli autori sopra ricordati sono presenti fra essi.
Sfogliando il catalogo troviamo le opere del Canata, alcune di Abba ( ci sono “Le rive della Bormida” e “Arrigo. Da Quarto al Volturno” ma mancano le “Noterelle”), il libro di Isola, alcuni testi di Rossi (non però quello su Cairo, bensì quelli concernenti Albenga e Sanremo), e un’opera di Salvetti (non il romanzo ma le poesie (94), troviamo il libro del Paladino, (non l’edizione del 1884 ma quella del 1904 contenente lo scritto di Barrili su Cosseria), troviamo infine i due testi del Sapeto dedicati ai Cussiti e ad Assab. Se però passiamo dal semplice spoglio del catalogo all’esame visivo dei testi sopra ricordati, riscontriamo degli elementi abbastanza curiosi: gran parte di questi testi non sono stati comprati dal Barrili, al quale sono invece stati regalati dagli Autori, come ricordato dalle dediche autografe che essi presentano.
Riportano infatti dediche l’Arrigo di Abba, i volumi d i Isola e di Sapeto (che dedica i suoi libri “al Sig Direttore del Movimento”, giornale di Genova). Si direbbe, quindi, che non ci sia stato un interesse diretto del Barrili verso questi autori, quanto piuttosto un omaggio degli stessi, almeno in un caso -fra l’altro- rivolto al direttore di giornale, magari pensando ad una recensione.
Ma non basta, l’esame diretto degli esemplari posseduti dal Barrili evidenzia l’accoglienza che il romanziere riservò a diverse di queste opere: il libro del Paladino - almeno a giudicare dallo stato di conservazione- sembra non essere mai stato neppure aperto, mentre erano ancora intonsi, al momento in cui furono acquisiti dalla biblioteca di Carcare, l’Arrigo di Abba e le due opere di Sapeto. Soprattutto nel caso delle opere del Sapeto, in ispecie di quella dedicata ad Assab, la mancata lettura da parte del Barrili ci sembra abbastanza indicativa: il lavoro del Sapeto è del‘79, l'ultimo anno in cui Barrili era Deputato. Proprio in quell’epoca si stava dibattendo in sede parlamentare il problema se ampliare o no la possessione italiana ad Assab, se tramutarla o meno da possesso privato della Compagnia Rubattino a base per una conquista coloniale. Se ne parlava in Parlamento, Barrili era un parlamentare ma non si ritenne in dovere neppure di sfogliare quella che era pur sempre, sull’argomento, la fonte di informazione principale, in quanto diretta e di prima mano (anche se, dobbiamo pur dirlo, di lettura non certo facile e leggiera).
L’osservazione conclusiva che mi sembra di poter trarre da questi elementi, certo parziali, è che da parte del Barrili ci fosse, nei confronti dell’ambiente culturale valbormidese, quello che potremmo definire, tutto sommato, un cortese, ma distaccato e superiore, disinteresse. Cortese disinteresse che per altro, almeno a giudicare dalla qualità e dalla scarsità di citazioni riguardanti il romanziere riscontrabili nelle opere di questi autori, era a quanto pare altrettanto cortesemente ricambiato.
Leonello Oliveri
1) Sulle origini e vicende del Collegio della Scuole Pie di Carcare v. p. ISOLA F. Carcare e le Scuole Pie. Memorie raccolte e ordinate, Savona 1897; v. anche DERAPALINO V. S., Un collegio nelle Langhe, Savona 1972, P. D. Casati, Il Collegio di Carcare, Grifl 2007. Fin dai suoi primi anni la Congregazione dei Padri delle Scuole Pie (gli "Scolopi") si segnalò, oltre che per zelo sacerdotale, anche per un'attiva presenza nel campo degli studi, specie in quelli fisico-matematici. Tra gli Scolopi più distintisi in questi settori possiamo ricordare Michelini, discepolo di Galileo cui successe sulla cattedra di Pisa, Beccaria (1716-1781), autore di studi sull'elettricità statica, Fontana (1735-1803), titolare della cattedra di matematica superiore a Pavia, Barletti (1736-1799) collaboratore di Volta e titolare della cattedra di fisica sperimentale a Pavia. A questi possono aggiungersi l'Inghirami, l'Antonelli, il Cecchi, il Giorgi, il Barsanti, il Serpieri, l'Ighina (v. MANTOVANI R., F. VETRANO, L'insegnamento scientifico dello scolopio Alessandro, in Didattica delle scienze e informatica nella scuola, 1991, XXVI, n. 152 pp. 12-19.
2) Nato a Varazze il 22 sett. 1778 a 18 anni entrò nella Congregazione delle Scuole Pie nel collegio di Ovada. Dopo una breve permanenza nel collegio di Carcare, nel 1798 studiò teologia a Genova sotto la guida dell'Assarotti e del Molinelli, entrando quindi in contatto con gli ambienti giansenistici genovesi che saranno poi alla base della sua religiosità antiformalistica e austera. Come altri Scolopi, vide con favore l'instaurazione della Repubblica Democratica Ligure nel '99, anno in cui, ancora chierico, uscì dall'Ordine, con cui mantenne in ogni modo buoni rapporti, per potersi dedicare più facilmente alla sua funzione di educatore. Dal 1804 al 1809 riprese l'insegnamento nel collegio di Carcare, dove ritornò nel 1812 restandovi per molti anni, intervallando la propria attività di pedagogo con diversi viaggi, anche all'estero, per conoscere le diverse metodologie di insegnamento. Nel 1815 rientrò ufficialmente nell'Ordine ma non fu mai ordinato sacerdote. Nel '27 (secondo G. Sarra, Buccelli, in Dizionario Biografico degli Italiani, pp. 754-756) il Buccelli sarebbe stato, probabilmente, il redattore del Prescritto, lettera circolare che si richiamava a molte delle istanze teologico-morali del giansenismo settecentesco, con la quale l'allora provinciale degli Scolopi in Liguria, il p. Carrosio, voleva ricondurre l'ordine alla primitiva osservanza delle costituzioni. Il Prescritto suscitò però l'opposizione di religiosi di Savona e fu ritirato. Nel '34 si ritirò dall'insegnamento trasferendosi ad Ovada dove si interessò al locale ospedale come amministratore, organizzatore ed assistente sanitario. In questa località morì il 18 marzo del 1842. Per ulteriori particolari su questa figura oltre il già citato Dizionario biografico degli italiani vedi il Dizionario biografico dei Liguri dalle Origini al 1990, Genova, Consulta Ligure, 1994, vol. II pp. 292-294. Per contributi più recenti v. G. FARRIS, P. Domenico Buccelli precursore della scuola elementare ed anticipatore della linguistica moderna, in "Miscellanea duemila", Com. Mont. Alta Val Bormida, Millesimo, 2000, pp. 41-45, P. D. Casati, Il Collegio di Carcare, Grifl 2007..
3 ) L'opera suscitò ovviamente un'accesa polemica, tanto da essere proibita in tutto il Regno di Sardegna perché conteneva "massime (..) tendenti ad insinuare nei fanciulli la disobbedienza al Governo, il disprezzo dei genitori nonché l'insubordinazione e il disprezzo dei maggiori" (Casati, cit, p. 57), mentre gli Scolopi furono diffidati dal Magistrato della Riforma degli Studi G. Carlo Brignole Sale dal "continuare ad applicare nelle loro scuole i metodi del Buccelli, giudicati troppo difformi da quelli tradizionali in uso nel resto del Regno" (Diz. biogr. degli Italiani, cit. p. 755). Il Buccelli fu anche autore di una tragedia, Ester¸che provocò tra l'altro l'intervento del Vescovo di Savona e del Ministero dell'Interno per aver portato in scena una donna.
4 ) Ecco un esempio del metodo usato dal Buccelli durante le lezioni, basato su un coinvolgimento continuo degli allievi in modo che gli stessi arrivino a formulare le definizioni. Siamo a pag. 87, lezione XII dedicata al "pensiero oggetto" o, come si direbbe oggi, alla frase oggettiva. La lezione è strutturata in domande e risposte fra il maestro (M) e gli studenti (S):
M.: attenti, voi, "I fanciulli ben costumati sanno che non si deve mai fare male a nessuno": quanti pensieri vi sono in questo discorso? (I fanciulli rispondono). Se io dicessi "i fanciulli ben costumati sanno" sarebbe compiuto il mio discorso?
S.: no, non sarebbe compiuto.
M.: perché non sarebbe compiuto?
S.: perché non si saprebbe qual cosa facciano.
M.: volete dire che mancherebbe l'oggetto dell'esprimente (= verbo, n.d.A.) sanno
S.: si
M.: adunque quello che sanno è che non si deve far male a nessuno. E' vero?
S.: si
M.: Adunque l'oggetto dell'esprimente sanno è un intiero pensiero, non è egli vero?
S.: si
M.: qual è?
S.: che non si deve mai far male a nessuno
M.: dunque che non si deve mai fare male a nessuno lo chiameremo pensiero oggetto". Lo intendete?
S.: Sì, lo intendiamo.
Come si vede , al di là di una terminologia ovviamente datata ("esprimente" al posto di "verbo": ma siamo sicuri che fosse peggio?) la spiegazione è lucida e soprattutto coinvolgente: possiamo assicurare che alcune grammatiche moderne non sono certo altrettanto chiare.
5) D. PENNAC, Diario di scuola, 2007, p. 239: “ C’è un metodo (per insegnare)? Non mancano certo i metodi, anzi, ce ne sono fin troppi. passate il tempo a rifugiarvi nei metodi, mentre dentro di voi sapete che il metodo non basta. Gli manca qualcosa.” “Che cosa gli manca?” “Non posso dirlo.” “Perché?” “E’ una parolaccia, (..) una parola che non puoi assolutamente pronunciare in una scuola, in un liceo (..).” “E cioè?” “No, davvero non posso..” “ Su, dai!” “Non posso, ti dico! Se tiri fuori questa parola parlando di istruzione, ti linciano.” (..) “L’amore.”
6) Il p. Gio.Batta Garassini, numero unico a cura del Collegio Calasanzio, tip. Ricci, Savona 1894 p. 3
7 ) ABBA G. C., Ricordi e meditazioni, Biella 1911, p. 165.
8) CAPASSO A., Traversagni, Chiabrera, Abba. Tre scrittori del nostro passato, Ed. Liguria, Sv., 1988, p. 232.
9) Notiamo incidentalmente che il Canata proveniva da Lerici, villaggio in cui il clima risorgimentale era molto sentito e acceso: di Lerici saranno 5 componenti la sfortunata spedizione di Pisacane, e il paese verrà definito dal locale prefetto, a metà dell’800, “pieno di rivoluzionari”.
10) ibidem, cit., pp.3, 21. Ex allievo degli Scolopi (ma di Torino) fu anche un altro dei 1000: Luigi Maria D'Albertis, nato a Voltri il 21/11/41, morto a Sassari l'8/9/1901 (v. DOLDI S., Alle origini della Scienza in Liguria, Genova 1990, Prima Cooperativa grafica Genovese, p.146).
11 Né è sostenibile l'ipotesi che gli ex allievi carcaresi abbiano fatto tale scelta, come altri studenti di altri collegi, per reazione all'insegnamento avuto nell'Istituto: sono infatti note e numerose le attestazioni di stima e di affetto che il più famoso di loro, Abba, dedicò al padre Canata, suo insegnante nel collegio di Carcare. C'è però da dire che non tutto l'ambiente del Collegio era allineato sulle idee "politiche" del Canata.
12) Le lettere del Manzoni al Briano, segnalatemi dal prof. F. Siccardi dell'Università di Genova, sono pubblicate in MANZONI A., Lettere, Milano, Mondadori, 1970, vol. II, nn. 867, 869. Su G. Briano, v. anche DERAPALINO V., op. cit., p. 73' e SCOVAZZI I., Atti della Società savonese di Storia Patria, 1962.
13) Veramente V. DERAPALINO, op. cit., p. 87, ricorda (come ex allievo e Direttore della Gazzetta) un Borella, sì ma Francesco: al contrario l'unico Borella, fondatore appunto della Gazzetta, che noi abbiamo trovato (per la precisione nel Dizionario Biografico degli Italiani) è Alessandro.
14 ) V. CASTRONUOVO, Dizionario, cit., p. 529
15 ) ibidem .
38) BATTAGLIA R., La prima
guerra d'Africa, Einaudi 1996,
pag.66 fornisce al riguardo la cifra di 43-44 mila reclusi.
78) Le ricerche d'archivio effettuate,
che avrebbe facilmente potuto effettuare anche l'Abba, hanno evidenziato come alcuni personaggi storici
(es. il parroco di Dego) rappresentati nell'opera fossero in realtà ben diversi
dal ritratto morale e ideologico datone dallo scrittore. Opportunamente L.
CATTANEI, Abba romanziere (e Manzoni controluce), in "Studi
sulla letteratura in Val Bormida (e dintorni)", Collana di studi
valbormidesi diretta da G.Balbis, Millesimo 2001, p.43 ricorda come sia "inutile
chiedere all'Abba un'indagine o una documentazione storica che vada oltre la
consuetudine con la tradizione orale del paese". Su questo ed altri
aspetti dell'opera di Abba v. A. CAPASSO,
La prosa d'arte e la poesia in prosa in
Giuseppe Cesare Abba, in Traversagni, Chiabrera, Abba: tre scrittori del nostro
passato, Ed. Liguria, Savona 1988, p.237.
84 ) Lettera a F. Sclavo 1/4/1896
86) "Due giorni appresso il Collegio fu tutto
sossopra. Vi era giunta notizia della rivolta di Genova che non voleva più
stare unita al Piemonte, perché questo era stato vinto a Novara, o che se unita
voleva mettersi alla testa dello Stato lei, per continuare la guerra. Voci
confuse, oscure, che misero in subbuglio i convittori liguri e monferrini, gli
uni contro gli altri. Il padre Canata vegliava e pregava pace. Ma che dolore il
giorno in cui per la borgata passò uno squadrone di Aosta cavalleria, che
marciava al Colle di Cadibona per andare all'assedio di Genova! Qualcuno aveva
udito quei soldati a dire che avrebbero fatto in Genova la Pasqua, ma udito a
dirlo con certe parole feroci che adesso non si possono più ripetere. E perciò
collere nuove nel Collegio tra quei convittori, e pericoli di vederli venire
alle mani. Il giorno appresso, il padre Canata salì in cattedra. «Aprite Dante,
Purgatorio, Canto sesto!». Disse così e si mise a leggere. Chi di quei
giovinetti vide poi, udì poi più Sordello, come ascoltando quella lettura, e la
musica tempestosa dell'invettiva all'Italia? E fu pace. (..)si diceva nel
Collegio che dalle cime di Montenotte si udivano le cannonate dei piemontesi
contro Genova; né se gli esageratori voluttuosi del male soggiungevano che anzi
di lassù si vedevano sin le bombe nell'aria e che la gran città era già mezza
in rovine. Poi silenzio e per parecchi giorni più nulla. Gli spargitori e i
cercatori di notizie terribili tacquero. Soltanto quando passarono i bersaglieri
che tornavano da Genova vinta, nei borghi di qua dell'Appennino, le donnicciole
sussurravano che quei soldati dovevano avere gli zaini pieni di gioielli, di
mani tagliate e fin d'orecchi strappati in fretta, con gli anelli ancora alle
dita e coi pendenti ancora appiccati: scellerate menzogne, messe da persone
tristi e matte nelle loro povere teste. Ma furono fatte star zitte dal buon senso".
(p.13).
87) La bibliografia completa
delle opere di Abba, di cui è in corso la pubblicazione integrale ad opera
della editrice Morcelliana di Brescia, è abbastanza ampia. Alle opere già
citate possiamo aggiungere quelle minori, fra le quali ricordiamo In
morte di Francesco Nullo. Canto (1863), Montenotte,
Cosseria e Dego (1884), Le nozze
d'Arcangela (1912), Dogali
(1887), Uomini e Soldati (1890), Le Alpi nostra. Libro di lettura per le
scuole elementari (1899), Vita di
Nino Bixio (1905), Garibaldi.
Discorso letto in Campidoglio il 4 luglio 1907 (1907), Garibaldi nel l° centenario della nascita gloriosa (1907), Ricordi e Meditazione (1911).
89) Su G.B. Sanguineti, morto
sul campo a Coatit (Eritrea), il 13
gennaio 1895 v. G. BATTAGLIA, op. cit., pgg. 594, 603 .