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Leonello Oliveri
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Dedichiamo questo post a un processo celebrato dalle autorità spagnole contro alcuni
valbormidesi verso la fine del XVI sec. ritenendo che esso possa essere un interessante esempio di ciò che poteva succedere a quei valbormidesi (ma il discorso non sarebbe diverso per qualsiasi altro contadino dell'Italia settentrionale) che avessero avuto la (mala) sorte di cadere nelle mani di quella che era allora impropriamente definita "Giustizia".
Come avvenivano i processi in quell'epoca? Cosa capitava a chi avesse avuto la ventura di attirare su di sé l'attenzione dei giudici per un qualsiasi motivo? Quali erano i metodi seguiti nei processi?
Un fortunato rinvenimento di un fascicolo processuale risalente al 1571 riguardante abitanti della Val Bormida e risalente alla fine del XVI sec. ci apre squarci interessanti sull'argomento.
Ma lasciamo la parola agli atti processuali.
Che i giudici di un tempo facessero
regolarmente uso della tortura per strappare agli imputati confessioni e
dichiarazioni più o meno veritiere, non è certo una novità, e i processi per
stregoneria ce ne hanno fornito moltissime prove. Imbattersi
però negli atti di un processo vecchio ormai di 400 anni e nelle dichiarazioni
che gli imputati - ma meglio sarebbe definirli vittime - rilasciarono sotto
tortura suscita comunque in noi una certa impressione, soprattutto quando i
documenti riguardano gente delle nostre parti, dei nostri paesi, e riportano -
con la cruda esattezza dei
verbali giudiziari - le drammatiche circostanze in cui le confessioni (?) furono estorte.
La vicenda giudiziaria che si svolse nel
1571 ebbe come protagonisti tre valbormidesi (Alessandro Barlocco di Cosseria,
Franceschino de' Airoldi di Montaldo (1) e Michele de' Nigroli di Millesimo),
un ufficiale al servizio della Spagna (il cap. Carlo Garofalo), un inquisitore
spagnolo (il mag. Pallaresius) e - ovviamente - alcuni addetti alla tortura, di uno dei quali ci è tramandato anche
il nome Gatto.
L'azione, o
meglio il dramma, si svolge fra Millesimo, Finale, Alessandria e Milano dal 29 aprile al 18 settembre di
quel lontano 1571 (2).
L'ACCUSA
Il reato di cui erano imputati i tre
valbormidesi era particolarmente grave, ed aveva
implicazioni "politiche"; li si accusava infatti di aver cercato il
modo di introdurre soldati nel Castel Govone, a Finale, all'interno del quale il marchese Alberto Del Carretto tentava
di resistere all'assedio delle truppe spagnole, che miravano all'occupazione
del Marchesato. In ciò i tre valbormidesi avrebbero agito su incarico del conte
di Millesimo, Nicolò Del Carretto, e il cap. spagnolo Carlo Garofalo sarebbe stato
loro complice allo scopo di favorirli e di rendere possibile il transito
attraverso gli attendamenti delle truppe spagnole che occupavano Finale e
circondavano il castello.
LA DIFESA
![]() |
| La prima pagina degli atti del processo |
Alessandro Barlocco, che dei tre valbormidesi appare il più
"compromesso", si difende dicendo di essere sì andato a
Finale e di aver contattato l'ufficiale spagnolo, ma di aver fatto tutto ciò
con l'unico scopo di incontrarsi con l'ufficiale stesso per un accordo che
avevano preso in precedenza; in pratica l'ufficiale avrebbe chiesto al
Barlocco, nel corso di un casuale incontro, se potesse procurargli dei soldati
per servire nella sua compagnia,
nelle file spagnole -
quindi - e non in quelle carettesche. A quanto pare le truppe spagnole erano
caratterizzate da un lento stillicidio di diserzioni (ricordiamo che erano in
pratica milizie mercenarie) e il Garofalo aveva parecchi vuoti fra i suoi
uomini; avvicinandosi il momento di una "mostra", cioè parata
dei soldati, l'ufficiale voleva evidentemente
presentarsi con l'organico al completo. Per questo Alessandro era stato
contattato; il Conte di Millesimo, Nicolò Del Carretto, lo aveva poi in qualche
modo autorizzato a cercare volontari per il Garofalo - cioè
per la Spagna - (3)
e lui era andato al campo
spagnolo con due suoi amici per prendere ulteriori accordi - e l'anticipo sugli arruolamenti - con il Garofalo.
I compagni del Barlocco, in sostanza, confermano la sua linea difensiva e cercano di presentarsi come semplici
accompagnatori in quel viaggio.
La difesa dell'ufficiale spagnolo non si discosta nel complesso
da quella del Barlocco.
Afferma infatti di averlo incontrato casualmente a Cairo
allorché, in marcia verso Finale, si era trovato nella necessità di cercare qualche
mulattiere che potesse trasportare "le sue bagaglie et armi"; lamentandosi di ciò nel corso di una
cena al castello di Cairo, il conte di Millesimo, presente, gli aveva inviato
due muli con il mulattiere e il Barlocco. Nel corso
del viaggio, parlando con Alessandro, l'ufficiale si sarebbe lamentato con lo
stesso "perché ogni ora fuggivano dei soldati".
Alessandro allora gli avrebbe detto che "se
io voleva ch 'egli mi conducesse delli soldati me n' havrebbe menato mentre gli
stessi a lui qualche avantaggio" (sic!); l'accordo era stato fatto, l'ufficiale aveva preparato una lettera con la quale chiedeva al
Conte di Millesimo di permettere l'arruolamento dei soldati, la lettera era
stata data al Barlocco il quale, però, si era poi presentato al campo spagnolo
con solo due compagni anziché i 30/40 uomini di cui aveva parlato.
Questo era il tutto, non c'erano stati
né altri accordi né, tanto meno, progetti di congiure o altro per far entrare
soldati di rinforzo all'interno del Castel Gavone assediato dagli spagnoli di
Finale.
IL PROCESSO
Finale - 28 aprile: interrogatorio di Alessandro
Il 28 aprile di quell'anno, a Finale, vennero consegnati al "mag. Pallaresio" alcuni
uomini per essere interrogati. Il giudice inquisitore iniziò con l'esame di Alessandro
de Barlochi, luoco de Coseria, contado de Millesimo, al quale furono
chiesti i motivi della sua presenza a
Finale e del suo colloquio col capitano spagnolo; sentite le sue spiegazioni,
che abbiamo anticipato, l'inquisitore lo congeda - per il
momento - e passa all' interrogatorio delle due persone che erano venute a
Finale assieme al Barlocco,
"Francesco de
Airaldis de Montaldo, chiamato il Maschio caporale del luoco de Millesimo"
e “Michele de Nogrolis,
loco Millesimi” (4).
Interrogatorio di Michele
Il primo a passare sotto al torchio è Michele, il quale afferma di essersi
limitato ad accompagnare Alessandro a Finale e di non sapere nulla circa il
colloquio dell'amico con l'ufficiale spagnolo.
A questo punto appare quella che
potremmo definire "conoscenza del mestiere" da parte
dell'inquisitore; avendo evidentemente intuito da qualche
particolare che Michele era spaventato o comunque intimidito dalla situazione (5), e quindi più fragile, il giudice usa la maniera forte e ordina che l'imputato venga
condotto nella stanza della tortura (6).
E’ il crollo: Michele prorompe
in un "Se mi promettete de non farne danno alcuno io dirò la verità
d'ogni cosa che sapevo" e comincia a parlare in preda al terrore (7), dicendo che Alessandro era andato a Finale per esaminare la possibilità di entrare nel castello assediato
facendo arruolare nella compagnia del cap. Garofalo
alcuni uomini i quali poi, ''facendo la guardia potriamo (sic) facilmente
entrare nel detto castello", e
che lo stesso aveva una lettera per il
capitano - con il quale si era intrattenuto privatamente a colloquio - da parte
del Conte di Millesimo (8).
Lo stesso conte viene ripetutamente tirato in campo da Michele il quale ricorda
che Alessandro gli aveva detto "che veniva da parte del (nomen
supressum est) et che oltre che saria stato ben pagato, che averessimo fatto
piacere ad esso (nomen supressum est)" e che a Millesimo era stato
contattato da un altro personaggio (il cui nome parimenti" supressum
est", ma che probabilmente era il Podestà) (9). Per quanto lo concerne, Michele ricorda
che né lui né il suo compagno erano al corrente dei piani di Alessandro, e che
anzi "se noi havessimo saputo che voi (Alessandro) volevate far
questo non saressimo venuti".
| "tentus in suspensu" (notare la pietra legata ai piedi) |
Terminato l'interrogatorio, per essere sicuro che Michele non avesse altro da dire, il giudice dispone che lo stesso sia "elevatus in eculeo et tentus in suspenso per notabile spatium "; cioè torturato appendendolo per le braccia ad una corda per un certo periodo di tempo, con i piedi appesantiti da una pietra (di 50 libbre, circa 20 chili!) (10), fino a provocare la slogatura delle braccia: in questa situazione, Michele "persevera in iam dictis", conferma ciò che aveva detto.
Dopo la pausa domenicale (anche gli
inquisitori spagnoli rispettavano il riposo festivo!),
il processo riprende con l'interrogatorio del terzo imputato, Francesco.
La confessione di Michele, più o meno
veritiera, non era stata senza conseguenze, fornendo al giudice quel materiale
indispensabile per avere degli elementi concreti da far confessare, grazie alla
tortura, agli altri imputati, colpevoli
o innocenti che fossero; e così il secondo imputato,
Francesco Airaldi di Montaldo, dopo aver detto di essere andato a Finale solo per accompagnare
Alessandro e non per portare soccorso al castello, ed essere stato messo a
confronto con Michele (11), fu "elevatus in
eculeo per brachia quatuor vel circa ", sottoposto cioè alla già ricordata tortura della corda.
Il dolore vince forse l'innocenza, certo la resistenza, e l'imputato "collabora"
col giudice: "lasciatemi
giù che dirò la verità" supplica,
e dopo essere stato deposto a terra "tutto quello che mi havete letto,
che Michele dice, che io ho sentito, è la verità".
Come si vede una resa immediata che ben
illustra i metodi utilizzati nei processi di
allora; una volta strappata in qualche modo una confessione (o presunta tale)
all'imputato più fragile, la si leggeva ai "complici"
sotto tortura che, quasi sempre, finivano
col confermarla per far cessare i tormenti.
Per i giudici era quindi indispensabile
avere del materiale da cui partire, soprattutto
quando gli imputati erano innocenti; non si poteva infatti pretendere che gli inquisiti
si accusassero di fatti o particolari che non conoscevano.
In questo modo dovevano invece limitarsi
a confermare quanto veniva loro letto, mettendo però in moto, con le loro
ammissioni, una macchina infernale che poi li avrebbe stritolati.
Terminata la confessione, anche
Francesco viene nuovamente "elevatus per brachia quatuor et tentus in
suspenso per notabile spatium'' per confermare la sua dichiarazione.
1 maggio -
Interrogatorio di
Alessandro
Il giorno successivo c'è il confronto
fra Francesco ed Alessandro, che, ovviamente, nega tutto; viene anche lui "pluries
cominatus de eum torquendo ", minacciato cioè più volte di venir
torturato, ed infine "elevatus per brachia quatuor".
Ancora una volta la tortura ha effetto e anche Alessandro cede; "quello che Michele dice
è la verità, et lasiatemi giù che la dirò meglio ".
Come si vede, è evidente che la
confessione è collegata alla cessazione della tortura, che del resto a questo
doveva servire: "lasciatemi giù che dirò la verità ".
Altrettanto evidente pare essere la
lettura della confessione di Michele come punto di partenza per le altre, che
ne ripetono perfino i particolari.
Al termine della confessione si ripete
la solita procedura con Alessandro, "elevatus in eculeo per brachia
quatuor et in suspenso per notabile temporis intervallum tentus" finché
la conferma.
Nei giorni successivi vengono ascoltati
alcuni testimoni minori e, soprattutto, viene concessa licenza agli avvocati
per la difesa del cap. Garofalo, l'unico quindi che potesse contare sull'aiuto
di un legale.
L'otto maggio, infine, tutti gli imputati vengono trasferiti ad
Alessandria.
Alessandria - 8/9 maggio: interrogatorio del cap. Garofalo
Nella cittadella di Alessandria, alla presenza del giudice Garzia, si procede
finalmente
all'interrogatorio dell'imputato di maggior
spicco, l'ufficiale spagnolo (nel senso che era al servizio della Spagna) Carlo
Garofalo, presentato ai giudici "ligatus stricte cum manicis", cioè ammanettato; sulla sua deposizione non ci
dilunghiamo, avendo la già riassunta in apertura, ricordiamo solo che essa
venne resa in tono molto deciso (parlo liberamente, da gentil'homo et da
cristiano") e con espressioni di sdegno per l'accusa rivoltagli ("è un grande assassinamento che mi è stato fatto, et Dio farà venire in luce la
verità, questa è la maggiore furfanteria che
mai sentissi in vita mia”'); nei confronti dell'ufficiale non venne usata
la tortura.
Il giorno successivo prosegue l'interrogatorio, nel corso del
quale Alessandro afferma di aver accompagnato un inviato del cap. Garofalo al
Conte di Millesimo, al quale doveva chiedere il permesso di arruolare dei
soldati.
Circa le affermazioni dei suoi compagni,
Alessandro è deciso: "se si trova scritto altrimenti (da quello che
io dico) non so che fargli, perché
potevano scrivere ciò che volevano, poiché il sig. Pallaresio altro non faceva
se non spaventarlo e sbigotirlo et se l'haverà
detto alla corda, l'haverà detto per forza di tormenti, ma fuori de tormenti
sta certo che non l'ha detto".
Gli inquirenti alessandrini non
ritennero di sentire nuovamente Francesco o Michele, né - e la cosa va a loro onore, visti i tempi -
fecero uso della tortura;
tutti gli imputati restarono però in prigione per tre mesi, finché, il 28
agosto, vennero trasferiti a Milano, capitale dei domini spagnoli in Italia, nel carcere del magnificus dominus capitaneus iustitiae.
28 agosto - Milano
A Milano viene sentito come teste "sponte
constitutus" (13),
presentatosi di sua volontà, Matheus de Faciis, Podestà -
rappresentante del Conte
Del Carretto di Millesimo.
Nella sua deposizione ricorda che era
andato dal conte un inviato del cap. Garofalo per chiedere che il Conte
autorizzasse l'arruolamento di mercenari per la
compagnia del citato capitano; il Conte ufficialmente sarebbe stato d'accordo;
in realtà, afferma il Podestà, "secretamente mi disse che niuno modo mi
dovesse permettere che alcun soldato
andasse a Finale, perché non era sua mente che andassero a far tale offitio".
30 agosto . Interrogatorio di Alessandro
A partire dal 30 agosto c'è un nuovo giro di interrogatori,
estesi a tutti gli imputati.
Questa volta,
però, il loro comportamento
è ben diverso rispetto a quello tenuto a Finale;
consapevoli che è in ballo la propria vita, ritraggono tutto e resistono
disperatamente alle nuove torture. La loro è una drammatica testimonianza dei
metodi inquisitori utilizzati nel XVI (e XVII) secolo, basati sulla tortura,
nonché una dimostrazione di dignità e forza
d'animo.
Primo ad essere interrogato è
Alessandro, il quale inizia con una eccezione, per
così dire, di procedura, contestando il fatto che i giudici finalesi non gli
avevano riletto la sua deposizione prima di fargliela firmare. Poi passa ad
accusare apertamente il Pallaresio: "Mi leggeva il detto di Michele in quella parte che li pareva a lui, et se
io non diceva come lui voleva, mi faceva tirar suso la corda, et io per paura
della corda conconfirmai” (14).
12 settembre - Interrogatorio di Michele
La deposizione di Michele è in sostanza
uguale a quella di Alessandro; dopo la totale proclamazione di innocenza
rispetto alle accuse c'è la ritrattazione della deposizione resa a Finale,
determinata dalle torture laggiù subite: "fui sforzato a
dire ciò che dissi dal Pallaresio - ricorda Michele - se io
rispondevo di no lui mi tornava a dire che mi haveria fatto apiccare, io all’hora
gli dicea: sig. Pallarese, lo dirò essendo sforzato, ma sarà la bosia”.
Alle minacce si alternano le lusinghe: “mi disse che saria andato verso
Milano con una catena di ferro et che saria tornato indietro con una catena
d'oro (se avesse confermato la deposizione) et io allora risposi: Signor Auditor, non voria star con queste catene, ma
state con la verità.(
... ). Dico che hanno fatto un processo falso".
Interrogatorio di Francesco
Dello stesso tenore è la deposizione del
terzo imputato, Francesco, anch'essa volta ad evidenziare le condizioni in cui
furono ottenute le "confessioni" di Finale, con lusinghe
alternate a torture: “Il Pallaresio
all’hora mi disse: mira che tengo la barba bianca, che vi importa a voi a dire
questa cosa del conte, ditelo che vi farò rimettere per caporali in una compagnia dè Spagnoli. Io all’hora gli dissi
che non volevo dir quello che non era
la verità (..) non voria star con queste catene, ma con la verità”.
Appaiono anche i risvolti umani del
dramma personale degli imputati.
Francesco, infatti, rivela
che alle esortazioni rivoltegli a Finale da Michele dopo che costui era stato
torturato (" O Franceschino, vuoi tu che ci facciamo rompere li bracci
per nissuno") aveva reagito con un "ah, traditor, vuoi tu che diciamo la bugia?”; piccolo, ma grande particolare che apre
uno squarcio sul fondo di dignità di questi uomini, che pur non erano eroi ("io
haveva tanta paura", dirà più avanti Francesco).
Lo stesso Michele capisce il male che ha
fatto - che è stato costretto a fare - con la sua deposizione strappatagli
dalla tortura; Michele, racconta Francesco, "mi domandò
anco perdono de quello che mi aveva testificato contro il dovere, et io gli
perdonai et dissi che pregasse Dio che gli perdonasse, mentre Alessandro "più
presto voleva morire, che un'altra volta dire la bugia; mi voglio stare nella
gratia di Dio".
13
settembre - Interrogatorio finale.
Il 13 settembre gli imputati vengono chiamati per l'ultimo interrogatorio, e ancora una
| "fuit tortus igne" |
volta il processo ridiventa dramma; di fronte alla loro ostinata e disperata proclamazione di innocenza ("a Finale habbiamo detto il falso, qui la verità", sarà il succo delle deposizioni), tutti gli imputati vengono torturati: "fuit tortus igne", fu torturato col fuoco, sintetizza pudicamente il cancelliere verbalizzante.
Ma
neppure il fuoco li piega: Michele “
fuit tortus igne (..) autem perseverat, che qui ho detto il vero, et là al
Finale la bugia”, Franceschino “pariter eodem modo tortus perseverat:
nunc veritatem dixisse”
Tutti
trovano la forza di resistere e mantenere la loro disperata
proclamazione di innocenza
LA SENTENZA
li fascicolo
processuale da noi rinvenuto termina
con un'ultima riga, che ricorda come venisse deciso di concedere gli arresti domiciliari al cap. Garofalo, in attesa della sentenza, e di soprassedere dalla
condanna del Conte di Millesimo (15).
Non sappiamo quindi quale sia stata la sentenza definitiva; niente successe al Conte Nicolò,
ma del destino di
Alessandro, Michele e Francesco non sappiamo nulla. Di
loro, colpevoli o innocenti, come
pare probabile che fossero, restano solo queste poche pagine, drammatica
testimonianza di una vicenda terribile che li vide scaraventati dal loro
piccolo paese alle tenebrose segrete di Finale, Alessandria, Milano, in una lunga via crucis fra
inquisitori e torturatori, fra il supplizio della corda e quello del fuoco.
Di loro, di
questi nostri contadini che seppero difendere la propria dignità di uomini di
fronte agli inquisitori spagnoli, delle loro sofferenze, del loro sbandamento iniziale di fronte alla tortura, della
loro disperata caparbietà nell'affrontare le tenaglie infuocate, della grande umanità
di cui diedero esempio nel saper perdonare le accuse rivolte al
compagno dal compagno martoriato, restano solo poche
parole su fogli ingialliti, e
l'esempio della loro dignità di fronte ad un potere arrogante e suicida.
Passeranno duecento anni e un milanese,
un certo Pietro Verri, dimostrerà l’inefficacia e l’inutilità della
tortura – oltre la sua barbarie – per arrivare alla scoperta della verità,
componendo nel 1777 un libretto intitolato Osservazioni sulla tortura: ci
vorranno però quasi 30 anni (fino al 1804) perché quest’opera coraggiosa
venisse finalmente pubblicata nel 1804.
Sono passati altri 200
anni e non sentiamo più parlare di tortura, ma più pudicamente.. di tecniche di
interrogatorio professionale, di tecniche di interrogatorio avanzato, di
Waterboarding..
Oppure di Guantanamo...
Leonello Oliveri
Propr. Lett. riserv.
Riproduzione vietata
1) Frazione di Cengio (Sv.)
2) I documenti a stampa, sono conservati all'Archivio di
Stato di Torino, Archivio Del Carretto, cart.
114, n. 920, col titolo "Summa processus agitati in causa deten. Mag. Cap. Caroli Garofoli. Die 29 iunii 1571 ". Dovrebbe trattarsi della copia degli atti processuali
inviati al Conte Nicolò Del Carretto di Millesimo dalle Autorità Spagnole
3) Dalla
lettura dei verbali dell'interrogatorio di un testimone, Matheus de Faciis,
Podestà di Millesimo, pare di capire che il Conte in realtà fosse tutt'altro
che entusiasta di questa proposta ma che, in pratica, non potesse opporsi
apertamente alla richieste spagnole. Disse infatti il Podestà che il Conte
"mi commisse secretamente che in niuno modo mi dovesse permettere che
alcuno soldato andasse al Finale, perché non era sua mente che andassero a fare
tal offitio (ovvio che il Conte non fosse entusiasta dell'idea di mandare
suoi sudditi a combattere contro propri parenti, quali erano i Del Carretto di
Finale) ( ... ) e così dissi (ad Alessandro e ai suoi compagni) che
se voleva andar per soldato al Finale haveria fatto dispiacere al Conte, ma per passavolante (forse una
sorta di soldato in servizio temporaneo e provvisorio, tanto per riempire le
fila al momento della parata?) poteva andargli".
4 ) Di costui
sappiamo anche la professione; lavorava, come carbonaio, in una ferriera del
Conte di Millesimo
5) Dal verbale
si nota, per es., una certa soggezione dal fatto che Michele risponde ad alcune
domande con un ossequioso "Signor sì". Parimenti si nota anche
una certa differenza di condizione sociale fra gli altri due imputati e
Alessandro a cui essi si rivolgevano, come pare dai verbali, con un rispettoso
voi; evidentemente di tale differenze tenne conto anche il giudice spagnolo,
iniziando ad usare le maniere forti - come spesso accade - dalle persone più
umili
6 ) "Tunc fuit
conductus ad locum
eculei"
7) Il panico dell'imputato
è evidente nel fatto che, forse per convincere
i giudici, in un fiume di parole riempie la sua confessione di particolari minuziosi
e assolutamente inutili o non richiesti (. .. essendo io in un prato
de detto Alessandro lontano da
casa sua circa una archibugiata, avanti il
disnare del lunedì
prossimo passato.
( ... ) Circa
le vint'un hora susa la piaza de Millesimo in uno cantone a man dritta ...
8 ) È interessante notare come ogni qualvolta nel corso degli interrogatori tenuti a Finale (e, più tardi, ad Alessandria) qualche imputato facesse un
nome importante (verosimilmente del Conte di Millesimo), tale nome, probabilmente annotato nel verbale manoscritto, venisse invece cancellato negli atti a stampa del processo (dal quale è tratto il presente studio). Per esempio in questo caso il documento a stampa
riporta che Alessandro portava una lettera "al Cap. Garofalo da parte del (nomen supressum est)". Sembrerebbe quindi che,
almeno in questa prima fase, le Autorità Spagnole non abbiano voluto coinvolgere "nero su bianco" i Del
Carretto di Millesimo, feudatari imperiali e quindi soggetti direttamente ed esclusivamente alla giurisdizione dell'Imperatore, assai superiore a quella del Governatore di Milano.
9 ) Il che farebbe
ulteriormente pensare ad un effettivo
coinvolgimento del Conte di Millesimo in tutta la faccenda
10) Nel corso del processo un carceriere testimonierà che la pietra appesa ai piedi dei torturati "era la più grossa delle due (a diposizione),
et gli pare essa greva (pesante?) come
saria de
cinquanta lire”(libbre).
11) Durante il quale persistette nel negare: "non
lo voglio dire perché non lo so", fu la sua ostinata risposta.
13) E’ però ovvio pensare che il Podestà si
sia presentato su disposizione del Conte di Millesimo, che - verosimilmente
- desiderava chiarire ogni cosa con le Autorità spagnole onde evitare complicazioni o conseguenze.
14) Le torture subite dagli
imputati furono confermate anche da alcuni soldati chiamati a testimoniare; in
particolare uno di loro, il già citato Baldesar de Gattis, circa
la tortura cui fu sottoposto Alessandro
ricorda: “il sudetto Alessandro fu posto alla corda sempre con li contrapesi alli piedi (..) dove
stette per lunghissimo intervallo di
tempo”. Aveva anche avvertito i
magistrati che Franceschino era "aperto" (forse ferito o sofferente
di ernia?) e che quindi non poteva essere sottoposto a tortura: "nondimeno il sig. Pallaresio gli fece dare della corda (
... ) per la quale, attesa detta apertura, gli sono cascate le budella nella
parte in basso". Il particolare fu confermato anche dalla deposizione (o
meglio, dai “capitula producta ad sui deffensam) del cap. Garofalo il
quale aggiunse che, alle esortazioni
alla prudenza rivoltigli dallo stesso soldato incaricato della tortura, il
Pallaresio avrebbe risposto: "fate a modo mio, che voglio che (Francesco)
dica come ha detto il suo compagno Michele, altrimenti l'ho per huomo
morto".
15) "Cap. Garofalus relaxatus est, assignata pro
carcere domo in hac civitate et ordinatum est quod interim suprasedeatur a
condannatione contra comitem Millesimi".

