venerdì 23 febbraio 2024

UN PROCESSO CON TORTURA IN VAL BORMIDA NEL 1571


 



Tunc fuit conductus ad locum eculei…
. fuit elevatus in eculeo per brachia quatuor vel circa…
in suspenso per notabile temporis intervallum tentus…
fuit tortus igne…

"

 

Leonello Oliveri


Proprietà Letteraria Riservata
Riproduzione vietata

Dedichiamo questo post a un processo celebrato dalle autorità spagnole contro alcuni


valbormidesi  verso la fine del XVI sec. ritenendo che esso possa essere  un interessante esempio di ciò che poteva succedere a quei valbormidesi (ma il discorso non sarebbe diverso per qualsiasi altro contadino dell'Italia settentrionale) che avessero avuto la (mala) sorte di cadere nelle mani di quella che era allora impropriamente definita "Giustizia".

Come avvenivano i processi in quell'epoca? Cosa capitava a chi avesse avuto la ventura di attirare su di sé l'attenzione dei giudici per un qualsiasi motivo? Quali erano i  metodi seguiti nei processi?

Un fortunato rinvenimento di un fascicolo processuale risalente al 1571 riguardante abitanti della Val Bormida e risalente alla fine del XVI sec. ci apre squarci interessanti sull'argomento.

Ma lasciamo la parola agli atti processuali.

 

Che i giudici di un tempo facessero regolarmente uso della tortura per strappare agli imputati confessioni e dichiarazioni più o meno veritiere, non è certo una novità, e i processi per stregoneria ce ne hanno fornito moltissime prove. Imbattersi però negli atti di un processo vecchio ormai di 400 anni e nelle dichiarazioni che gli imputati - ma meglio sarebbe definirli vittime - rilasciarono sotto tortura suscita comunque in noi una certa impressione, soprattutto quando i documenti riguardano gente delle nostre parti, dei nostri paesi, e riportano - con la cruda esattezza dei verbali giudiziari - le drammatiche circostanze in cui le confessioni (?) furono estorte.

La vicenda giudiziaria che si svolse nel 1571 ebbe come protagonisti tre valbormidesi (Alessandro Barlocco di Cosseria, Franceschino de' Airoldi di Montaldo (1) e Michele de' Nigroli di Millesimo), un ufficiale al servizio della Spagna (il cap. Carlo Garofalo), un inquisitore spagnolo (il mag. Pallaresius) e - ovviamente - alcuni addetti alla tortura, di uno dei quali ci è tramandato anche il nome Gatto.

L'azione, o meglio il dramma, si svolge fra Millesimo, Finale, Alessandria e Milano dal 29 aprile al 18 settembre di quel lontano 1571 (2).

L'ACCUSA

Il reato di cui erano imputati i tre valbormidesi era particolarmente grave, ed aveva implicazioni "politiche"; li si accusava infatti di aver cercato il modo di introdurre soldati nel Castel Govone, a Finale, all'interno del quale il marchese Alberto Del Carretto tentava di resistere all'assedio delle truppe spagnole, che miravano all'occupazione del Marchesato. In ciò i tre valbormidesi avrebbero agito su incarico del conte di Millesimo, Nicolò Del Carretto, e il cap. spagnolo Carlo Garofalo sarebbe stato loro complice allo scopo di favorirli e di rendere possibile il transito attraverso gli attendamenti delle truppe spagnole che occupavano Finale e circondavano il castello.

 

Prima di procedere all’esame di quanto successe, è utile cercare di inquadrare la vicenda nel contesto storico e di darne una spiegazione per così dire "politica" : in pratica, sembrerebbe un tentativo, da parte delle Autorità Spagnole, di incriminare i Del Carretto di Millesimo, forse per "liquidarli" dal punto di vista "politico", tentativo che pare delinearsi in alcune circostanze senza però venir condotto fino in fondo. Per cercare di capire qualcosa è indispensabile un ( lungo) passo indietro.

La presenza spagnola in Italia settentrionale (Lombardia) risale al 1535 allorché, con la morte dell'ultimo Duca di Milano, Francesco II Sforza, tutta la Lombardia divenne dominio diretto dell'Impero. L'imperatore Carlo V, ritiratosi dal trono nel 1556, divise i suoi possedimenti fra il fratello Ferdinando ( col titolo di Imperatore del Sacro Romano Impero) e il figlio Filippo II (col titolo di re di Spagna) che ebbe, fra gli altri, i domini italiani, Lombardia compresa. Ne seguì una politica concorde tra Madrid e Vienna per oltre 150 anni, mentre la Spagna ereditò la giurisdizione che il Ducato Milanese aveva su diversi centri delle Langhe e della Val Bormida, sui quali si costituì come garante, non sempre richiesta, dei diritti che l'Impero vi deteneva. Tali fatti portarono, fra l'altro, ad una distinzione fra feudi imperiali, investiti direttamente dall'Imperatore a feudatari locali (es. Cengio, Millesimo, Cosseria, Finale) e spagnoli (Prunetto, Levice, parte di Cairo, etc.) investiti dai governatori milanesi (cioè spagnoli). Da qui i tentativi da parte della Spagna di "incastrare" i Del Carretto di Millesimo, tentativi ripetuti per diversi anni proprio fra il 1571 e il 1578.

La situazione è particolarmente confusa a partire dal 1566 quando i finalesi si ribellano, per la seconda volta, contro il malgoverno del marchese Alfonso Del Carretto, appellandosi all’Imperatore Massimiliano II. Per ristabilire l’ordine l’Imperatore inviò dei commissari. Allora Filippo II cercò di approfittare della situazione per mettere le mani sul marchesato, prima proponendone l’acquisto, poi –anche per evitare un intervento francese- inviando un corpo di spedizione spagnolo per occuparlo. E così il governatore spagnolo di Milano, duca d’Albuquerque, alla testa di 8000 uomini, occupò il marchesato assediando il castel Govone. E’ questo lo scenario in cui si inserisce la presente vicenda.


Ma ritorniamo al nostro drammatico processo

 LA DIFESA

La prima pagina degli atti  del processo

Alle accuse gli imputati rispondono sia presentando i fatti sotto una luce totalmente diversa, sia cercando di scindere ruoli e responsabilità degli stessi.

Alessandro Barlocco, che dei tre valbormidesi appare il più "compromesso", si difende dicendo di essere sì andato a Finale e di aver contattato l'ufficiale spagnolo, ma di aver fatto tutto ciò con l'unico scopo di incontrarsi con l'ufficiale stesso per un accordo che avevano preso in precedenza; in pratica l'ufficiale avrebbe chiesto al Barlocco, nel corso di un casuale incontro, se potesse procurargli dei soldati per servire nella sua compagnia, nelle file spagnole - quindi - e non in quelle carettesche. A quanto pare le truppe spagnole erano caratterizzate da un lento stillicidio di diserzioni (ricordiamo che erano in pratica milizie mercenarie) e il Garofalo aveva parecchi vuoti fra i suoi uomini; avvicinandosi il momento di una "mostra", cioè parata dei soldati, l'ufficiale voleva evidentemente presentarsi con l'organico al completo. Per questo Alessandro era stato contattato; il Conte di Millesimo, Nicolò Del Carretto, lo aveva poi in qualche modo  autorizzato a cercare volontari per il Garofalo - cioè per la Spagna - (3) e lui era andato al campo spagnolo con due suoi amici per prendere ulteriori accordi - e l'anticipo sugli arruolamenti - con il Garofalo.

I compagni del Barlocco, in sostanza, confermano la sua linea difensiva e cercano di presentarsi come semplici accompagnatori in quel viaggio.

La difesa dell'ufficiale spagnolo non si discosta nel complesso da quella del Barlocco.

Afferma infatti di averlo incontrato casualmente a Cairo allorché, in marcia verso Finale, si era trovato nella necessità di cercare qualche mulattiere che potesse trasportare "le sue bagaglie et armi"; lamentandosi di ciò nel corso di una cena al castello di Cairo, il conte di Millesimo, presente, gli aveva inviato due muli con il mulattiere e il Barlocco. Nel corso del viaggio, parlando con Alessandro, l'ufficiale si sarebbe lamentato con lo stesso "perché ogni ora fuggivano dei soldati".

Alessandro allora gli avrebbe detto che "se io voleva ch 'egli mi conducesse delli soldati me n' havrebbe menato mentre gli stessi a lui qualche avantaggio" (sic!); l'accordo era stato fatto, l'ufficiale aveva preparato una lettera con la quale chiedeva al Conte di Millesimo di permettere l'arruolamento dei soldati, la lettera era stata data al Barlocco il quale, però, si era poi presentato al campo spagnolo con solo due compagni anziché i 30/40 uomini di cui aveva parlato.

Questo era il tutto, non c'erano stati né altri accordi né, tanto meno, progetti di congiure o altro per far entrare soldati di rinforzo all'interno del Castel Gavone assediato dagli spagnoli di Finale.

 

IL PROCESSO

Finale - 28 aprile: interrogatorio di Alessandro

Il 28 aprile di quell'anno, a Finale, vennero consegnati al "mag. Pallaresio" alcuni uomini per essere interrogati. Il giudice inquisitore iniziò con l'esame di Alessandro de Barlochi, luoco de Coseria, contado de Millesimo, al quale furono chiesti i motivi della  sua presenza a Finale e del suo colloquio col capitano spagnolo; sentite le sue spiegazioni, che abbiamo anticipato, l'inquisitore lo congeda - per il momento - e passa all' interrogatorio delle due persone che erano venute a Finale assieme al Barlocco, "Francesco de Airaldis de Montaldo, chiamato il Maschio caporale del luoco de Millesimo" e “Michele de Nogrolis, loco Millesimi” (4).

 

Interrogatorio di Michele

Il primo a passare sotto al torchio è Michele, il quale afferma di essersi limitato ad accompagnare Alessandro a Finale e di non sapere nulla circa il colloquio dell'amico con l'ufficiale spagnolo.

A questo punto appare quella che potremmo definire "conoscenza del mestiere" da parte dell'inquisitore; avendo evidentemente intuito da qualche particolare che Michele era spaventato o comunque intimidito dalla situazione (5), e quindi più fragile, il giudice usa la maniera forte e ordina che l'imputato venga condotto nella stanza della tortura (6). E’ il crollo: Michele prorompe in un "Se mi promettete de non farne danno alcuno io dirò la verità d'ogni cosa che sapevo" e comincia a parlare in preda al terrore (7), dicendo che Alessandro era andato a Finale per esaminare la possibilidi entrare nel castello assediato facendo arruolare nella compagnia del cap. Garofalo alcuni uomini i quali poi, ''facendo la guardia potriamo (sic) facilmente entrare nel detto castello", e  che lo stesso aveva una lettera per il capitano - con il quale si era intrattenuto privatamente a colloquio - da parte del Conte di Millesimo (8).

Lo stesso conte viene ripetutamente tirato in campo da Michele il quale ricorda che Alessandro gli aveva detto "che veniva da parte del (nomen supressum est) et che oltre che saria stato ben pagato, che averessimo fatto piacere ad esso (nomen supressum est)" e che a Millesimo era stato contattato da un altro personaggio (il cui nome parimenti" supressum est", ma che probabilmente era il Podestà) (9). Per quanto lo concerne, Michele ricorda che né lui né il suo compagno erano al corrente dei piani di Alessandro, e che anzi "se noi havessimo saputo che voi (Alessandro) volevate far questo non saressimo venuti".

"tentus in suspensu"
(notare la pietra legata ai piedi)

Terminato l'interrogatorio, per essere sicuro che Michele non avesse altro da dire, il giudice dispone che lo stesso sia "elevatus in eculeo et tentus in suspenso per notabile spatium "; cioè torturato appendendolo per le braccia ad una corda per un certo periodo di tempo, con i piedi appesantiti da una pietra (di 50 libbre, circa 20 chili!) (10), fino a provocare la slogatura delle braccia: in questa situazione, Michele "persevera in iam dictis", conferma ciò che aveva detto.


30 aprile - Interrogatorio di Francesco

Dopo la pausa domenicale (anche gli inquisitori spagnoli rispettavano il riposo festivo!), il processo riprende con l'interrogatorio del terzo imputato, Francesco.

La confessione di Michele, più o meno veritiera, non era stata senza conseguenze, fornendo al giudice quel materiale indispensabile per avere degli elementi concreti da far confessare, grazie alla tortura, agli altri imputati, colpevoli o innocenti che fossero; e così il secondo imputato, Francesco Airaldi di Montaldo, dopo aver detto di essere  andato a Finale solo per accompagnare Alessandro e non per portare soccorso al castello, ed essere stato messo a confronto con Michele (11), fu "elevatus in eculeo per brachia quatuor vel circa ", sottoposto cioè alla già ricordata tortura della corda. Il dolore vince forse l'innocenza, certo la resistenza, e l'imputato "collabora" col giudice: "lasciatemi  giù che dirò la verità" supplica, e dopo essere stato deposto a terra "tutto quello che mi havete letto, che Michele dice, che io ho sentito, è la verità".

Come si vede una resa immediata che ben illustra i metodi utilizzati nei processi di allora; una volta strappata in qualche modo una confessione (o presunta tale) all'imputato più fragile, la si leggeva ai "complici" sotto tortura che, quasi sempre, finivano col confermarla per far cessare i tormenti.

 

Per i giudici era quindi indispensabile avere del materiale da cui partire, soprattutto quando gli imputati erano innocenti; non si poteva infatti pretendere che gli inquisiti si accusassero di fatti o particolari che non conoscevano.

In questo modo dovevano invece limitarsi a confermare quanto veniva loro letto, mettendo però in moto, con le loro ammissioni, una macchina infernale che poi li avrebbe stritolati.

Terminata la confessione, anche Francesco viene nuovamente "elevatus per brachia quatuor et tentus in suspenso per notabile spatium'' per confermare la sua dichiarazione.

 

1 maggio - Interrogatorio di Alessandro

Il giorno successivo c'è il confronto fra Francesco ed Alessandro, che, ovviamente, nega tutto; viene anche lui "pluries cominatus de eum torquendo ", minacciato cioè più volte di venir torturato, ed infine "elevatus per brachia quatuor".

Ancora una volta la tortura ha effetto e anche Alessandro cede; "quello che Michele dice è la verità, et lasiatemi giù che la dirò meglio ".

Come si vede, è evidente che la confessione è collegata alla cessazione della tortura, che del resto a questo doveva servire: "lasciatemi giù che dirò la verità ".

Altrettanto evidente pare essere la lettura della confessione di Michele come punto di partenza per le altre, che ne ripetono perfino i particolari.

Al termine della confessione si ripete la solita procedura con Alessandro, "elevatus in eculeo per brachia quatuor et in suspenso per notabile temporis intervallum tentus" finché la conferma.

Nei giorni successivi vengono ascoltati alcuni testimoni minori e, soprattutto, viene concessa licenza agli avvocati per la difesa del cap. Garofalo, l'unico quindi che potesse contare sull'aiuto di un legale.

L'otto maggio, infine, tutti gli imputati vengono trasferiti ad Alessandria.

 Alessandria - 8/9 maggio: interrogatorio del cap. Garofalo

Nella cittadella di Alessandria, alla presenza del giudice Garzia, si procede finalmente
all
'interrogatorio dell'imputato di maggior spicco, l'ufficiale spagnolo (nel senso che era al servizio della Spagna) Carlo Garofalo, presentato ai giudici "ligatus stricte cum manicis", cioè ammanettato; sulla sua deposizione non ci dilunghiamo, avendo la già riassunta in apertura, ricordiamo solo che essa venne resa in tono molto deciso (parlo liberamente, da gentil'homo et da cristiano") e con espressioni di sdegno per l'accusa rivoltagli ("è un grande assassinamento che mi è stato fatto, et Dio farà venire in luce la verità, questa è la maggiore furfanteria che mai sentissi in vita mia”'); nei confronti dell'ufficiale non venne usata la tortura.


9/10 maggio - Interrogatorio di Alessandro

Viene poi chiamato per un nuovo interrogatorio Alessandro.
Altra pagina degli atti del processo

La sua deposizione è molto diversa da quella rilasciata a Finale; non solo nega i fatti e ritratta quanto precedentemente affermato, ma si scaglia in un vero atto di accusa nei confronti dei metodi e degli inquisitori finalesi, dicendo di essere stato obbligato a confessare ciò che gli viene attribuito: "Il Pallaresio (il giudice di Finale) a volte parlava in spagnolo e io non lo intendevo, ( ... ) mentre che io parlava diceva con voce spaventevole et buttando fiamma: non è cosi, non è così et pareva che mi volesse mangiare et parlava mezzo spagnolo, parte latino et parte in nostra lingua (12). Quello che io ho detto, ho detto per forza di corda ... Il Sig. Pallarese mi fece condurre a lui con le mani legate et con una catena di traverso della vita et mi disse s'io voleva firmare quello che haveva detto alla corda (sotto tortura) over se di novo voleva essere tormentato, et io dissi di si per paura della corda ... Loro hanno potuto scrivere ciò che hanno voluto, che io non ne so niente".

Il giorno successivo prosegue l'interrogatorio, nel corso del quale Alessandro afferma di aver accompagnato un inviato del cap. Garofalo al Conte di Millesimo, al quale doveva chiedere il permesso di arruolare dei soldati.

Circa le affermazioni dei suoi compagni, Alessandro è deciso: "se si trova scritto altrimenti (da quello che io dico) non so che fargli, perché potevano scrivere ciò che volevano, poiché il sig. Pallaresio altro non faceva se non spaventarlo e sbigotirlo et se l'haverà detto alla corda, l'haverà detto per forza di tormenti, ma fuori de tormenti sta certo che non l'ha detto".

Gli inquirenti alessandrini non ritennero di sentire nuovamente Francesco o Michele, - e la cosa va a loro onore, visti i tempi - fecero uso della tortura; tutti gli imputati restarono però in prigione per tre mesi, finché, il 28 agosto, vennero trasferiti a Milano, capitale dei domini spagnoli in Italia, nel carcere del magnificus dominus capitaneus iustitiae.

 

28 agosto - Milano

A Milano viene sentito come teste "sponte constitutus" (13), presentatosi di sua volontà, Matheus de Faciis, Podestà - rappresentante del Conte Del Carretto di Millesimo.

Nella sua deposizione ricorda che era andato dal conte un inviato del cap. Garofalo per chiedere che il Conte autorizzasse l'arruolamento di mercenari per la compagnia del citato capitano; il Conte ufficialmente sarebbe stato d'accordo; in realtà, afferma il Podestà, "secretamente mi disse che niuno modo mi dovesse permettere che alcun soldato andasse a Finale, perché non era sua mente che andassero a far tale offitio".

 

30 agosto . Interrogatorio di Alessandro

A partire dal 30 agosto c'è un nuovo giro di interrogatori, estesi a tutti gli imputati.

Questa volta, però, il loro comportamento è ben diverso rispetto a quello tenuto a Finale; consapevoli che è in ballo la propria vita, ritraggono tutto e resistono disperatamente alle nuove torture. La loro è una drammatica testimonianza dei metodi inquisitori utilizzati nel XVI (e XVII) secolo, basati sulla tortura, nonché una dimostrazione di dignità e forza  d'animo.

Primo ad essere interrogato è Alessandro, il quale inizia con una eccezione, per così dire, di procedura, contestando il fatto che i giudici finalesi non gli avevano riletto la sua deposizione prima di fargliela firmare. Poi passa ad accusare apertamente il Pallaresio: "Mi leggeva il detto di Michele in quella parte che li pareva a lui, et se io non diceva come lui voleva, mi faceva tirar suso la corda, et io per paura della corda conconfirmai” (14).

 

12 settembre - Interrogatorio di Michele

La deposizione di Michele è in sostanza uguale a quella di Alessandro; dopo la totale proclamazione di innocenza rispetto alle accuse c'è la ritrattazione della deposizione resa a Finale, determinata dalle torture laggiù subite: "fui sforzato a dire ciò che dissi dal Pallaresio - ricorda Michele - se io rispondevo di no lui mi tornava a dire che mi haveria fatto apiccare, io all’hora gli dicea: sig. Pallarese, lo dirò essendo sforzato, ma sarà la bosia”. Alle minacce si alternano le lusinghe: “mi disse che saria andato verso Milano con una catena di ferro et che saria tornato indietro con una catena d'oro (se avesse confermato la deposizione) et io allora risposi: Signor Auditor, non voria star con queste catene, ma state con la verità.( ... ). Dico che hanno fatto un processo falso".

 

Interrogatorio di Francesco

Dello stesso tenore è la deposizione del terzo imputato, Francesco, anch'essa volta ad evidenziare le condizioni in cui furono ottenute le "confessioni" di Finale, con lusinghe alternate  a torture: “Il Pallaresio all’hora mi disse: mira che tengo la barba bianca, che vi importa a voi a dire questa cosa del conte, ditelo che vi farò rimettere  per caporali in una compagnia dè Spagnoli. Io all’hora gli dissi che non volevo dir quello  che non era la verità (..) non voria star con queste catene, ma con la verità”.

Appaiono anche i risvolti umani del dramma personale degli imputati. Francesco, infatti, rivela che alle esortazioni rivoltegli a Finale da Michele dopo che costui era stato torturato (" O Franceschino, vuoi tu che ci facciamo rompere li bracci per nissuno") aveva reagito con un "ah, traditor, vuoi tu che diciamo la bugia?”; piccolo, ma grande particolare che apre uno squarcio sul fondo di dignità di questi uomini, che pur non erano eroi ("io haveva tanta paura", dirà più avanti Francesco).

Lo stesso Michele capisce il male che ha fatto - che è stato costretto a fare - con la sua deposizione strappatagli dalla tortura; Michele, racconta Francesco, "mi domandò anco perdono de quello che mi aveva testificato contro il dovere, et io gli perdonai et dissi che pregasse Dio che gli perdonasse, mentre Alessandro "più presto voleva morire, che un'altra volta dire la bugia; mi voglio stare nella gratia di Dio".

 

13 settembre - Interrogatorio finale.

Il 13 settembre gli imputati vengono chiamati per l'ultimo interrogatorio, e ancora una

"fuit tortus igne"

volta il processo ridiventa dramma; di fronte alla loro ostinata e disperata proclamazione di innocenza ("a Finale habbiamo detto il falso, qui la verità", sarà il succo delle depos
izioni), tutti gli imputati vengono torturati: "fuit tortus igne", fu torturato col fuoco, sintetizza pudicamente il cancelliere verbalizzante.

 Ma neppure il fuoco li  piega: Michele “ fuit tortus igne (..) autem perseverat, che qui ho detto il vero, et là al Finale la bugia”, Franceschino “pariter eodem modo tortus perseverat: nunc veritatem dixisse”

Tutti  trovano la forza di resistere e mantenere la loro disperata proclamazione  di innocenza

 

LA SENTENZA

li fascicolo processuale da noi rinvenuto termina con un'ultima riga, che ricorda come venisse deciso di concedere gli arresti domiciliari al cap. Garofalo, in attesa della sentenza, e di soprassedere dalla condanna del Conte di Millesimo (15).

Non sappiamo quindi quale sia stata la sentenza definitiva; niente successe al Conte Nicolò, ma del destino di Alessandro, Michele e Francesco non sappiamo nulla. Di loro, colpevoli o innocenti, come pare probabile che fossero, restano solo queste poche pagine, drammatica testimonianza di una vicenda terribile che li vide scaraventati dal loro piccolo paese alle tenebrose segrete di Finale, Alessandria, Milano, in una lunga via crucis fra inquisitori e torturatori, fra il supplizio della corda e quello del fuoco.

Di loro, di questi nostri contadini che seppero difendere la propria dignità di uomini di fronte agli inquisitori spagnoli, delle loro sofferenze, del loro sbandamento iniziale di fronte alla tortura, della loro disperata caparbietà nell'affrontare le tenaglie infuocate, della grande umanidi cui diedero esempio nel saper perdonare le accuse rivolte al compagno dal compagno martoriato, restano solo poche parole su fogli ingialliti, e l'esempio della loro dignità di fronte ad un potere arrogante e suicida.

 

Passeranno duecento anni e un milanese, un certo Pietro Verri, dimostrerà l’inefficacia e l’inutilità della tortura – oltre la sua barbarie – per arrivare alla scoperta della verità, componendo nel 1777 un libretto intitolato Osservazioni sulla tortura: ci vorranno però quasi 30 anni (fino al 1804) perché quest’opera coraggiosa venisse finalmente pubblicata nel 1804.

 

Sono passati  altri 200 anni e non sentiamo più parlare di tortura, ma più pudicamente.. di tecniche di interrogatorio professionale, di tecniche di interrogatorio avanzato, di Waterboarding..

Oppure di Guantanamo...

Leonello Oliveri

 

Propr. Lett. riserv.

Riproduzione vietata



1) Frazione di Cengio (Sv.)

2)  I documenti a stampa, sono conservati all'Archivio di Stato di Torino, Archivio Del Carretto, cart. 114, n. 920, col titolo "Summa processus agitati in causa deten. Mag. Cap. Caroli Garofoli. Die 29 iunii 1571 ". Dovrebbe trattarsi della copia degli atti processuali inviati al Conte Nicolò Del Carretto di Millesimo dalle Autorità Spagnole

3)  Dalla lettura dei verbali dell'interrogatorio di un testimone, Matheus de Faciis, Podestà di Millesimo, pare di capire che il Conte in realtà fosse tutt'altro che entusiasta di questa proposta ma che, in pratica, non potesse opporsi apertamente alla richieste spagnole. Disse infatti il Podestà che il Conte "mi commisse secretamente che in niuno modo mi dovesse permettere che alcuno soldato andasse al Finale, perché non era sua mente che andassero a fare tal offitio (ovvio che il Conte non fosse entusiasta dell'idea di mandare suoi sudditi a combattere contro propri parenti, quali erano i Del Carretto di Finale) ( ... ) e così dissi (ad Alessandro e ai suoi compagni) che se voleva andar per soldato al Finale haveria fatto dispiacere al  Conte, ma per passavolante (forse una sorta di soldato in servizio temporaneo e provvisorio, tanto per riempire le fila al momento della parata?) poteva andargli".

4 )  Di costui sappiamo anche la professione; lavorava, come carbonaio, in una ferriera del Conte di Millesimo

5)  Dal verbale si nota, per es., una certa soggezione dal fatto che Michele risponde ad alcune domande con un ossequioso "Signor sì". Parimenti si nota anche una certa differenza di condizione sociale fra gli altri due imputati e Alessandro a cui essi si rivolgevano, come pare dai verbali, con un rispettoso voi; evidentemente di tale differenze tenne conto anche il giudice spagnolo, iniziando ad usare le maniere forti - come spesso accade - dalle persone più umili

6 )  "Tunc fuit conductus ad locum eculei"

7) Il panico dell'imputato è evidente nel fatto che, forse per convincere i giudici, in un fiume di parole riempie la sua confessione di particolari minuziosi e assolutamente inutili o non richiesti (. .. essendo io in un prato de detto Alessandro lontano da casa sua circa una archibugiata, avanti il disnare del lunedì prossimo passato. ( ... ) Circa le vint'un hora susa la piaza de Millesimo in uno cantone a man dritta ...

8 ) È interessante notare come ogni qualvolta nel corso degli interrogatori tenuti a Finale (e, più tardi, ad Alessandria) qualche imputato facesse un nome importante (verosimilmente del Conte di Millesimo), tale nome, probabilmente annotato nel verbale manoscritto, venisse invece cancellato negli atti a stampa del processo (dal quale è tratto il presente studio). Per esempio in questo caso il documento a stampa riporta che Alessandro portava una lettera "al Cap. Garofalo da parte del (nomen supressum est)". Sembrerebbe quindi che, almeno in questa prima fase, le Autorità Spagnole non abbiano voluto coinvolgere "nero su bianco" i Del Carretto di Millesimo, feudatari imperiali e quindi soggetti direttamente ed esclusivamente alla giurisdizione dell'Imperatore, assai superiore a quella del Governatore di Milano.

9 ) Il che farebbe ulteriormente pensare ad un effettivo coinvolgimento del Conte di Millesimo in tutta la faccenda

10) Nel corso del processo un carceriere testimonierà che la pietra appesa ai piedi dei torturati "era la più grossa delle due (a diposizione), et gli pare essa greva (pesante?) come saria de cinquanta lire”(libbre).

11)  Durante il quale persistette nel negare: "non lo voglio dire perché non lo so", fu la sua ostinata risposta.

12) Ecco il tipico esempio della lingua colta utilizzata per danneggiare il prossimo, uso magistralmente ricordato dal Manzoni nei "Promessi Sposi”.

13) E’ però ovvio pensare che il Podestà si sia presentato su disposizione del Conte di Millesimo, che - verosimilmente - desiderava chiarire ogni cosa con le Autorità spagnole onde evitare complicazioni o conseguenze.

14) Le torture subite dagli imputati furono confermate anche da alcuni soldati chiamati a testimoniare; in particolare uno di loro, il già citato Baldesar de Gattis, circa la tortura  cui fu sottoposto Alessandro ricorda: “il sudetto  Alessandro  fu posto alla corda sempre  con li contrapesi alli piedi (..) dove stette  per lunghissimo intervallo di tempo”.  Aveva anche avvertito i magistrati  che Franceschino era "aperto" (forse ferito o sofferente di ernia?) e che quindi non poteva essere sottoposto a tortura: "nondimeno il sig. Pallaresio gli fece dare della corda ( ... ) per la quale, attesa detta apertura, gli sono cascate le budella nella parte in basso". Il particolare fu confermato anche dalla deposizione (o meglio, dai “capitula producta ad sui deffensam) del cap. Garofalo il quale aggiunse  che, alle esortazioni alla prudenza rivoltigli dallo stesso soldato incaricato della tortura, il Pallaresio avrebbe risposto: "fate a modo mio, che voglio che (Francesco) dica come ha detto il suo compagno Michele, altrimenti l'ho per huomo morto".

15) "Cap. Garofalus relaxatus est, assignata pro carcere domo in hac civitate et ordinatum est quod interim suprasedeatur a condannatione contra comitem Millesimi".