lunedì 22 aprile 2024

L’Italia? Un feudo di furbi, viventi di mutua assistenza e di mutui salvataggi (G.Cesare Abba)

 Leonello Oliveri

Proprietà letteraria riservata
Riproduzione vietata


Questa frase ha oltre 100 anni, e il suo autore è un valbormidese illustre del passato: si tratta
G.C. Abba

infatti di Giuseppe Cesare Abba, il cantore “dei mille” di Garibaldi.
A lui, o meglio agli ultimi anni melanconici della sua vita, pieni di disillusioni e di crolli delle speranze per le quali aveva lottato, sono dedicate queste brevi note.
Terminata l'esperienza dei 1000, Abba non segue Garibaldi nella spedizione verso Roma del 1862: le condizioni politiche sono mutate, Vittorio Emanuele II ha stipulato un accordo con Napoleone III, i garibaldini arrestati in Aspromonte con Garibaldi da eroi diventano sovversivi e vengono imprigionati in quelli che qualcuno definì "i lager dei Savoia": 473 nel forte di Bard, 467 in quelli di Genova, 91 a Exilles, 200 nel forte di Vado Ligure, una decina nei gelidi e malsani stanzoni di quello di Fenestrelle.

 


Abba ritorna quindi al suo luogo natio, ma "qui ritrovò il suo borgo ancora immerso in tenebre quasi medievali che permettevano prepotenze e soprusi non più sopportabili dalla gente nuova che aveva diritto ad un po' di libertà di pensiero e di azione. Ma urtare direttamente coi signorotti del luogo non era possibile, e pensò allora di illuminare il popolo traendo  a sé alcuni giovani operai ed eccitandoli a costituirsi in Società di Mutuo Soccorso. Non parlò al deserto e il 1 aprile (1861) veniva fondata la prima Società Operaia  delle Langhe.

Fatto sconvolgente, in quell’aria reazionaria che si respirava in provincia, e infatti “l'annuncio della società nascente mise  in armi tutta la donrodigaglia di allora", come ricordò in una lettera.

 ..il Governo adoperò le manette..

Abba restò nella relativa quiete di quello che  era allora un villaggio contadino fino al 1880, iscrivendosi alla Massoneria nel 1869, occupandosi della vita provinciale in cui  lui, intellettuale con  alle spalle l’impresa di Sicilia, non poteva certo restare anonimo. Lo troviamo così occupato nell’amministrazione del paese di  cui fu  consigliere e, per nove anni sindaco: in tale veste si  interessò all’edilizia pubblica, alla creazione della locale  Società di Mutuo Soccorso, all’istruzione elementare, alla fondazione  di un istituto di credito per i concittadini.

Anche la politica non poteva non  attrarre il nostro ancor giovane  reduce:  per due volte presentò la propria  candidatura  al   Parlamento  ma entrambe fu sconfitto: “l’aedo dei Mille” non  era ancora  conosciuto come tale e non riuscì a raccogliere le  poche decine di voti allora sufficienti per l’elezione.

Furono anni appartati, ma soprattutto di delusioni e di crolli delle speranze.

  Già alla fine dell'impresa dei Mille, in quella che avrebbe dovuto essere  “una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori  grandi e piccoli, che non sono solo a Corte, ma in ogni città, in ogni villa, e che si era invece trasformata in un’annessione, Abba aveva capito che i  veri problemi sarebbero incominciati allora, e che il futuro sarebbe stato, per chi aveva nel cuore gli ideali garibaldini, tutt'altro che roseo: "e mi par che cominci a tirar un vento di discordie tremende", scriveva allora nell'ultima pagina.

Dopo le “leggi Siccardi” e l’incameramento dei beni ecclesiastici si pronunciò per una più attenta ed equa distribuzione delle terre tolte alle soppresse corporazioni religiose, con le quali, se vendute in piccoli lotti, si sarebbe potuto creare un mezzo milione di piccoli proprietari –coltivatori : “quello era il modo  più efficace di cominciare a fare gli italiani, appena finito di fare l’Italia”. Invece i terreni confiscati furono venduti in lotti enormi, finiti ovviamente nelle mani di ricchi aristocratici.

E anche di fronte alle prime proteste operaie la sua posizione è netta: già nel 1863 aveva colto e registrato in questo modo uno dei primi scioperi a Torino:  "una forma d'azione e parola quasi sconosciuta in Italia.. e alla maniera che si reprimevano le manifestazioni politiche violenteil Governo adoperò le manette”.

 Analogamente si pronuncia in favore dell’istruzione pubblica obbligatoria e gratuita: “credo che il grido testé venuto dall’Inghilterra: “educhiamo i nostri futuri padroni!” debba persuadere i ricchi che l’istruzione  e l’educazione soltanto potranno far scomparire la plebe e renderne impossibili le allegre vendette”. Forse la motivazione era un poco obliqua, ma lo scopo era certo nobile: teniamo presente che quando, dieci anni più tardi, nel Parlamento Italiano si stava dibattendo la promulgazione di una legge a favore dell’istruzione pubblica obbligatoria e gratuita, il Papa Pio IX inviò, il 3 gennaio 1870, una pressante richiesta a Vittorio Emanuele II  con la quale supplicava il Re a non realizzare questo progetto: “Maestà,(..) Vi unisco poi la presente per pregarLa a fare tutto quello che può affine di allontanare un altro flagello, e cioè una legge progettata, per quanto si dice, relativa alla Istruzione Obbligatoria. Questa legge parmi ordinata ad abbattere totalmente le scuole cattoliche, soprattutto i seminari. Oh quanto è fiera la guerra che si fa alla religione di Gesù Cristo! Spero dunque che la V. M. farà si che, in questa parte almeno, la Chiesa sia risparmiata. Faccia quello che può, Maestà, e vedrà che Iddio avrà pietà di Lei. Lo abbraccio nel Signore

 ..dalla parte che doveva reprimere..

Italiani in Africa

A maggior ragione, sul finire del secolo – e della sua vita- la tragica situazione italiana viene avvertita dall'Abba in tutta la sua drammaticità e contraddizione: la miseria devastante di tanta parte della popolazione mentre i monti della Liguria si coronano di costosi ed inutili forti e l'Italia si buttava nell' altrettanto inutile e costosa avventura coloniale, il pane a 45 centesimi al kg. quando un operaio ne guadagnava 18 all'ora, le manifestazioni represse a cannonate dall'esercito, gli ideali garibaldini traditi lasciano traccia in alcune sue lettere.

 

Il figlio Mario, quel figlio che già da ragazzino aveva fatto scrivere al padre:
Mario Abba carabiniere 
            a Massaua nel 1895
"Ma lui mi cresce giovinetto a lato/ che dal tuo seno suscitasti a me/ e già di tutto o morta ha dubitato/ e freddo afferma che il Signor non c'è", è cresciuto, è diventato carabiniere e viene inviato al sud per dare la caccia a quelli che venivano definiti briganti. Allora l'Abba scrive: "Laggiù stava il mio Mario, dalla parte che doveva reprimere, mentre suo padre, quarant' anni prima, v'era dalla parte degli insorti.. e le ragioni del conflitto, le ragioni latenti, sono le stesse. Misera Italia nostra".

I moti dei fasci siciliani dei lavoratori lo portano alla triste considerazione che "i dolori, gli sdegni , i moniti stanno ancora e sempre, … mentre il fatale andare va rendendo sempre più urgenti laggiù le giustizie che in 50 anni avrebbero dovuto essere quasi compiute".

Nessuna illusione infine nei confronti delle velleità colonialiste di un’italietta che non dava il pane ai suoi figli ma voleva un impero coloniale. Lo "sciagurato nostro delirio africano", verso il quale voleva andare anche il figlio Marco, ansioso di partire per l'Eritrea, lo spinge a considerazioni venate di profondo pessimismo: " Mario mi scrive lettere di fuoco da Modena. E' tutto invaso dalla febbre africana. E me ne duole. Combattere? Ma combattere contro di chi e per chi? Stupida pretensione quella di credere opera di civiltà una guerra, che in fondo ha l'ingiustizia”. Per fortuna oggi l’idea di esportare la democrazia con la guerra non passa più per la mente a nessuno…
E al figlio in procinto di partire per l’Africa un’amara considerazione: "In fondo mi è men grave saperti in Africa che qui a reprimere, dove occorra, i moti popolari".

 

gli arrestati vengono condotti 
in tribunale
Quando, alla fine del ’98, a Milano si celebrano contro gli operai i processi per i tumulti del 7 maggio, quelli sedati a cannonate da Bava Beccaris, poi promosso per merito a senatore, processi per "devastazione, resistenza alle autorità, ribellione, violenza, saccheggio e vandalismo”, in Abba solo un cenno in una lettera a F. Sclavo: "Che ti pare di tutti questi guai che affliggono il paese?". Solo guai le cannonate contro chi chiedeva pane e ricevette piombo? Ricordiamo che alle proteste, dilagate in parecchie province, seguì la repressione (una trentina di morti, oltre 300 feriti e migliaia di arresti) e lo scioglimento delle società, dei circoli socialisti e repubblicani e delle società operaie ad essi collegati: a Savona, per fare un solo esempio, tanto subirono la Sezione Socialista, il Circolo G. Mazzini, l’Unione Liberi Operai, il Circolo degli Studi Sociali, la Lega dei Ferrovieri, il Circolo Operaio di Albissola, la Società Generale di Mutuo Soccorso, il Club Operaio di Lavagnola e la Società dei Fabbri Ferrai.

..un feudo di furbi..

Poco per volta, mentre i suoi compagni della Sicilia spariscono uno dopo l’altro (non prima però che i 1000 di Garibaldi  fossero diventati, ai fini “pensionistici”, molte migliaia), l’Abba  di­viene comunque un simbolo dell’Italia eroica, chiamato  nelle  principali  città a commemorare Garibaldi: nel 1907 è a Roma, per  pronunciare in  Campidoglio l’orazione ufficiale a ricordo  dell’impresa  dei Mille, e fra i suoi ascoltatori c’è il Re.

Nel 1910, infine, a coronamento della sua vita, arriva la nomi­na a Senatore del Regno: trenta anni prima l’aveva  ripetutamente cercata senza ottenerla, ora -invano (così almeno scrisse)- vorrebbe rifiutarla.

Cinque mesi più tardi, il 6 novembre, Giuseppe Cesare Abba muore all’improvviso in una strada di Brescia. La  sua tomba è nel cimitero di Cairo.

E alla fine della sua vita, una frase che ha il valore di testimonianza del fallimento dei sogni di una generazione intera:  "L'Italia l'ho veduta farsi e so com'è: essa è venuta su quale doveva essere: il feudo di una classe di furbi, viventi di mutua assistenza e di mutui salvataggi " .

Per fortuna oggi, come ben sappiamo, non è più così..


APPENDICE

Quando Abba scoprì di essere morto….

Non a tutti capita di leggere il proprio necrologio 

            Pensiamo che G. C. Abba abbia fatto un bel sobbalzo sulla sua poltrona, quando lesse il VI fascicolo di “”Natura ed Arte, rassegna quindicinale italiana di scienze, lettere ed arti” del marzo 1901. Arrivato alla pag. 432, nella rubrica (dall’incoraggiante titolo)  Gli ultimi scomparsi), dopo il necrologio della vedova di Urbano Rattazzi,  “donna di grande ingegno ma trasse vita disordinata ed avventurosa”, e quello di L. Chirtani “critico prezioso per i giovani ancora incerti e cercanti ansiosi la nuova via da battere”, si annunziava infatti la dipartita di “G. C. Abba,  noto insigne  collaboratore,  patriota, scrittore ammirato ed amato. Chi non ricorda il suo bellissimo libro  Da Quarto al Volturno? E le Noterelle garibaldine? E Alle rive della Bormida? E tanti altri lavori, tanti altri deliziosi lavori di piccola mole? Nato a Cairo Montenotte nel 1838, andò con Garibaldi a Marsala: e nei brevi riposi dei bivacchi di quella meravigliosa spedizione scriveva i versi ai quali poi riuniti diede forma di poema e pubblicò col titolo Arrigo. Fu all’Università di Pisa dal 1864 al ’66: e in quest’anno tornò sotto le bandiere di Garibaldi e, a Bezzecca, guadagnò la medaglia al valor militare. Era da parecchi anni insegnante di letteratura italiana a Brescia. Anche a lui la nostra ammirazione e il nostro sincero rimpianto”.

 Parole lusinghiere, invero: ma alquanto intempestive, visto che il poeta era ancor vivo e vegeto.

Immaginiamo che  Abba, dopo qualche gesto scaramantico, abbia preso carta e penna e chiesta una rettifica, assicurando di essere ancora tra i miseri mortali.

E la comunicazione ebbe il suo effetto, tant'è vero che il numero successivo di Natura ed Arte pubblicò la doverosa rettifica: “ Nel precedente fascicolo, seguendo un errore della stampa quotidiana milanese, annunziammo la morte del chiarissimo nostro collaboratore G. C. Abba, preside del Liceo di Brescia. Da una cartolina pervenutaci, a pubblicazione compiuta, apprendemmo invece che l’insigne letterato e patriota è vivo e vegeto, e non possiamo che congratularci con Lui, sinceramente, come sinceramente l’avevamo pianto fra gli scomparsi. E ad multos annos, carissimo Professore”.

 E così l’Abba ebbe anche il privilegio, comune a pochi mortali, di leggere il proprio necrologio comodamente seduto in poltrona, e magari con un sigaro in bocca!

La morte lo coglierà a Brescia nove anni dopo, il 6 novembre del 1910. E questa volta senza possibilità di rettifica.

Leonello Oliveri

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