Leonello Oliveri.
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romano, Publio Elvio Pertinace, nato nel 126 d.C., morto nel 193, dopo soli 85 giorni di regno: con molta probabilità, in quanto le notizie in nostro possesso ci permettono solo di determinare la zona di nascita con una certa approssimazione, senza individuare la località con assoluta certezza; intesa in senso lato, in quanto il nostro imperatore può essere nato in un qualsiasi punto compreso fra Alba e la costa savonese, anche se diversi elementi rendono possibile individuare la zona alpino-appenninica valbormidese come la più probabile.
| Vada Sabatia e la via Aemilia Scauri |
Le scarne notizie relative alla vita di questo imperato offerteci dai suoi biografi forniscono anche alcuni dati di tipo economico, invero alquanto problematici, sulla terra che lo generò nell'Appennino, dove egli nacque da Helvius Successus, un padre "libertino", figlio cioè di uno schiavo liberato, e quindi socialmente (non economicamente!) in una posizione non brillante, tanto da aver bisogno di un patronus, oggi diremmo un "protettore" cui appoggiarsi (e da cui il padre prese anche il nomen, appunto Elvio, Pertinace ereditò una "tabernam coatciliariam" in cui esercitava la "lanariam negotiationem": in parole povere produceva e commerciava lana, anzi, un tessuto simile al feltro ottenuto lavorando e pressando la lana nel suo opificio. Questo è infatti il significato dei termini usati da Giulio Capitolino. Ma tali due termini hanno alle spalle notevoli vicissitudini, dovute all'incerta grafia -e alle diverse lezioni- con cui ci sono giunte attraverso i codici. Al loro posto, infatti, le vecchie edizioni di questi brani riportavano rispettivamente "coctiliciam" e "lignariam" (7). Ciò portava ad ipotizzare che il padre di Pertinace possedesse un'azienda produttrice di carbone di legna, dallo stesso poi commercializzato. Ora una più attenta lettura dei codici ha portato alle citate (definitive?) modifiche, le quali non sono da poco: non più quindi un panorama fatto di boschi e legna, ma di pascoli, pecore e lana (8): non più silvicoltura ma allevamento ed economia pastorale. L'un e l'altro quadro, però, oltre a non esser necessariamente alternativi, si addicono a quanto conosciamo relativamente alle condizioni della nostra zona nel III sec. d.C. Gli scarni dati biografici ci permettono di ricostruire altri aspetti dell'attività economica di Pertinace: ereditata l'azienda paterna (o materna: nacque infatti "nella villa della madre", non del padre) egli la ingrandì, mantenendo la forma originaria, "con infiniti edifici": l'ingrandimento fu reso possibile dall'aver "acquistato molti terreni" di contadini oppressi dai debiti. Dalle scarne righe di Giulio Capitolino emerge l'impressione che questi piccoli proprietari rovinati fossero suoi debitori e che Pertinace esercitasse l'usura per "estendere sempre di più i suoi possessi", con tanta avidità da essere soprannominato "agrarius mergus" :"predatore di campi" (9). Giulio Capitolino è anzi impietoso nei confronti del nostro Pertinace, che definisce "cupidus lucri", avido di guadagno. Queste notizie hanno anche un' ulteriore importanza: ci forniscono infatti una testimonianza dello sviluppo anche nella nostra terra di quel fenomeno del latifondismo che caratterizzò la fine del II secolo d. C., con i piccoli proprietari oppressi dalle tasse, ridotti in rovina ed estromessi dal loro podere, fenomeno che tante conseguenze negative avrà sulla sopravvivenza stessa del tessuto economico, e quindi anche militare, dell'impero romano.
Ricostruire le tappe della carriera di Pertinace è un'operazione interessante, perché ci permette di capire quali potevano essere, durante l'impero romano, le possibilità che un individuo aveva di salire tutta la scala sociale, dal gradino più basso (il padre era uno schiavo) a quello più alto, il soglio imperiale. Nasce quindi, il nostro Pertinace, dal padre Elvio Successo: grazie all'appoggio del "patrono" del padre, “Lollianus Avitus”, personaggio influente in quanto ex console, Pertinace può intraprendere quella che durante l'impero costituiva l'indispensabile trampolino di lancio per ogni giovane ambizioso ma non aristocratico: la carriera militare. Lo vediamo quindi mentre si dirige faticosamente a piedi verso la Siria col grado di Prefetto di coorte (oggi sarebbe un ufficiale inferiore). Distintosi durante la guerra contro i Parti fu trasferito in Britannia, poi in Mesia (provincia romana corrispondente all'attuale Serbia e Bulgaria), quindi in Germania. Qui gli morì la madre, che lo aveva seguito in tutti i suoi spostamenti. Dalla Britannia alla Dacia (Romania), dove fu coinvolto in vicende che lo misero in cattiva luce causandone la destituzione mentre svolgeva l'incarico di esattore del fisco imperiale: forse si trattava di calunnie, comunque l'intervento di un suo potente amico, Claudio Pompeiano, gli procurò la riabilitazione e il favore dell'imperatore Marco Aurelio che lo passò di grado, nominandolo pretore, con il comando della I legione e poi, nel 175, console. Era questo il culmine della carriera militare: più oltre, per un elemento ambizioso, non c'era che l'affascinante, ma pericoloso, salto nel mondo della politica. Il nostro 49enne console guidò le sue legioni lungo le insidiose rive del Danubio, nella Mesia, di nuovo nella Dacia. Infine ottenne il governatorato di una provincia, la Siria. Qui “integre se tenuit”, si comportò rettamente, fino alla morte dell'imperatore Marco Aurelio nel 180. Poi, però, "pecuniae studuit”, come ricorda pudicamente G. Capitolino, incominciò cioè a mostrare una certa propensione per il denaro, interesse di cui avrebbe offerto testimonianze anche in seguito. Fu nominato senatore ma poi cadde in disgrazia. Tornò allora al natio paesello dalle nostre parti in una sorta di esilio durato tre anni. Qui, come già ricordato, comprò molti terreni, ingrandì l'azienda famigliare non disdegnando, come già accennato, di praticare l'usura, ed esercitò la mercatura nella sua ”taberna coactiliaria”. Ma la montana Liguria stava stretta al nostro ufficiale-senatore passato indenne fra i deserti infuocati dell'Asia, le pericolose foreste della Mesia e gli ancor più pericolosi intrighi della corte romana. Con l'avvento dell'imperatore Commodo la carriera di Pertinace ebbe un nuovo slancio: fu inviato prima in Britannia, poi -come proconsole- in Africa, infine nel 192 divenne prefetto di Roma. Era questa una carica importantissima, perché comportava il controllo delle truppe presenti nella capitale, i pretoriani, e quindi la possibilità di condizionare l'operato dello stesso imperatore. E difatti seppe manovrare così bene che, ucciso Commodo alla fine del dicembre del 192, il Senato, convocato in fretta e furia in seduta notturna, non poté che confermare l'ascesa al trono di Pertinace, sostenuto dalle lance dei pretoriani. Arrivato al potere cercò innanzitutto la collaborazione del senato, verso cui mostrò rispetto. Cercò anche di dare soluzione alla grave crisi finanziaria che attanagliava l'impero, attuando una sobria politica di austerità, di cui forniva lui stesso l'esempio: "mentre nei discorsi era molto affabile”, scrisse G. Capitolino, “nel comportamento era frugale e quasi avaro, a tal punto che quando mangiava si faceva servire un cardo e mezzo cespo di lattuga". La stessa austerità che imponeva a se stesso tentò di imporre, da buon ligure, anche al mondo romano che lo circondava, arrivando perfino a mettere all'asta beni ed arredi del suo predecessore per rimpinguare l'esausto tesoro dello Stato. Cercò di imporre rigore e disciplina anche ai legionari che lo avevano mandato al trono, e che da lui volevano donativi e premi. ciò gli fu fatale: ben presto, infatti, la loro insoddisfazione divenne protesta, poi aperta rivolta. Il 26 marzo del 193, 300 soldati, guidati dal loro prefetto Leto, irrompono nel palazzo imperiale. Pertinace si avanza, cerca di rabbonirli, quasi ci riesce. Ma uno di loro, di nome Tausio, "vedendo i suoi compagni in preda al timore e all'ira, scagliò l'asta in petto a Pertinace".
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| L'uccisione di Pertinace in una stampa del'700 |
Invano la sua "guardia del corpo", Ecletto, coraggiosamente si frappone fra gli ammutinati e l'imperatore, uccidendo due assalitori e venendo colpito a sua volta. Allora Pertinace " dopo aver pregato Giove vendicatore, si coprì il capo con la toga” (come aveva fatto Cesare) “e fu ucciso dagli altri". Morì così, massacrato dai suoi stessi soldati, un imperatore romano nato -forse- nelle nostre valli: "fu un vecchio venerabile, dalla barba folta, capigliatura fluente, corporatura imponente. Visse anni 60, mesi 7, giorni 26. Fu imperatore per mesi due e giorni ventisei", come minuziosamente ricorda G. Capitolino.
Potremmo terminare qui la nostra storia, ma quello che successe alla sua morte merita di essere ricordato. E’ infatti una delle pagine più squallide della storia dell'Impero romano: la carica di imperatore venne infatti letteralmente "messa all'asta" dai pretoriani. Leggiamo quando scrisse al riguardo lo storico romano Erodiano nelle sue "Storie" (II,6): "Quando si diffuse tra il popolo la notizia dell'uccisione di Pertinace, tutta la città si riempì di confusione e di manifestazioni di dolore: la gente correva qua e là come impazzita e si cercavano i responsabili . Specialmente i senatori erano disperati, trovandosi privi di un padre amoroso e di un ottimo principe: e si paventava l'avvento di una nuova tirannide favorita dai soldati. (..) Passarono così uno o due giorni. (..) I soldati, quando constatarono che il popolo se ne stava quieto e che nessuno osava vendicare la morte dell'imperatore, pur rimanendo chiusi dentro le mura del Castro Pretorio, mandarono sull'alto del muro quelli che tra loro avevano la voce più forte e annunciarono che mettevano l'impero all'incanto: promettevano di investire del potere colui che desse loro la più alta somma di denaro. (..) La notizia fu portata verso sera a un tal Giuliano, che aveva in passato ricoperto la carica di console e aveva fama di uomo facoltosissimo. Giuliano stava banchettando. Dunque la moglie, la figlia e la folla degli scrocconi presenti al banchetto lo convincono a levarsi da tavola, ad accorrere sotto il muro e rendersi conto di quanto succedeva. (..) Giuliano si mette a gridare e promette che darà loro tutto quello che vogliono. Nello stesso tempo anche Sulpiciano, pure lui ex console e prefetto della città (era suocero di Pertinace), arrivò per comprare l'impero. Ma i soldati non presero in considerazione le sue offerte perché, data la parentela, temevano che tramasse un inganno per vendicare l'ucciso. Perciò, calata una scala, tirarono su Giuliano. Infatti non volevano aprire la porta prima di aver accertato l'entità del donativo che sarebbe stato corrisposto. (..) Giuliano si impegnò a dare a ciascuno dei pretoriani tanto denaro quanto non avrebbero mai sperato e non li avrebbe fatti aspettare, perché i soldi li aveva in casa e li mandava subito a prendere. I soldati rimasero convinti e, soddisfatti in tutti i loro desideri, proclamarono imperatore Giuliano".
Didio Giuliano resterà in carica, prima di essere ucciso, per ben due mesi.
Leonello Oliveri
Propr. lett. ris.
Riprod. Vietata
1 ) Dione Cassio Cocceiano, storico greco (I-III sec d.C.). Fu governatore dell'Africa sotto Alessandro Severo. Scrisse una Storia Romana in 80 libri. La citazione è nel libro LXXIII, cap. 2.
2 ) Sextus Aurelius Victor, De Caesaris, Iuli Capitolini Helvius Pertinax, in Biblioteca Scriptorum graecorum et romanorum teubneriana, Lipzig 1970, VIII, pp.116-127.
3) ibidem, pab.115, 1,2: "natus est Pertinax in Appennino, in villa matri”s.
4) Nell'epigrafe di Millesimo nella prima riga la sigla MVS invece che "Memor votum solvit" (riconoscente, sciolse il voto fatto)veniva letta "Marti votum solvit" (sciolse il voto fatto a Marte), supponendo di conseguenza Millesimo la "villa di Marte"
5 ) INC. AUCTORIS, Epitome de Cesaris, Pertinace, 39:"Pertinax libertino genitus patre apud Ligures in agro squalido".
6) “apud Vada Sabatia oppressis fenore possessoribus latius suos tenderet fines" (9,5), "apud Vada Sabatia mercaturas exercuerit” (13,9), "tabernam paternam manente forma priore infinitis aedificiis circumdedit" (3,4))
7 ) Sulle vicissitudini lessicali-interpretative di questi due termini v. N. Lamboglia, L'azienda e la patria d'origine dell'imperatore Pertinace,in Rivista Ingauna e Intemelia, n.s., anno XXXXI-XXXIII, gennaio 1976-dicembre 1978, n.1-4, pp.1-5..
8) La vocazione "pastorale" delle terre cebano-valbormidesi è testimoniata da diversi autori romani, tra i quali PLINIO, Nat. Hist., XI, 42 che ricorda il "formaggio di Ceva mandato dall'Appennino in Liguria”, prodotto soprattutto dal latte delle pecore chiamate “cevas" e Columella: anche lui ricorda il formaggio fatto "dalle vacche che gli abitanti della regione chiamano cevas, di bassa statura, ricche di latte perchè vengono loro sottratti i vitelli" (De re rustica, VI, 24)
9 ) la definizione di "agrarius mergus", un uccello da preda, era la similitudine retorica usata dal poeta latino Lucilio in riferimento a quei creditori che, come il "mergus", uccello predatore acquatico, depredavano i piccoli proprietari del campicello dopo aver loro concesso dei prestiti.
10) Infelice anche il destino del figlio di Pertinace, dallo stesso nome del padre. Dopo aver iniziato la carriera politica, risalendo i vari gradini del cursus honorum, giungendo ad essere nominato Console nel 213, in quello stesso anno venne messo a morte per volere dell'imperatore Caracalla.
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| L' Impero Romano ai tempi dell 'imperatore Traiano ben evidente l'ex "Mare nostrum" |



