mercoledì 19 febbraio 2025

La Guerra del Finale 1447-1452

 Leonello Oliveri

Proprietà Letteraria Riservata
Riproduzione Vietata


Nei lunghi secoli che segnarono la storia della Val Bormida innumerevoli furono le
guerresche si abbatterono sul suo territorio, dalle prime testimoniate, in età romana, alla seconda guerra mondiale, che fra l'altro segnò nei suoi ultimi mesi, anche dopo il 25 aprile '45, pagine fra le più terribili della storia delle nostre terre.
Fra le tante che insanguinarono le nostre valli e i nostri monti ne abbiamo scelta una che si svolse negli ultimi foschi decenni di un medioevo ormai al suo autunno: la "GUERRA DEL FINALE".


Fu una "piccola" guerra combattuta anche in Val Bormida in quegli anni, una guerra tanto piccola che di essa non vi è neppure traccia nei libri. Ma per i nostri paesi fu un susseguirsi di lutti e rovine : fu combattuta dal 1447 al 1452 e vide il carrettesco marchesato di Finale contrapposto alla Repubblica di Genova. Molte sue vicende si svolsero in Val Bormida.


Dal 1447 al 1452 una feroce guerra divampò infatti fra la Repubblica di Genova e il marchesato di Finale .

Profittando di una favorevole situazione contingente (la morte a Milano del duca Filippo Maria Visconti, alleato dei Del Carretto), la Repubblica genovese ritiene venuto il momento di eliminare per sempre quella spina nel fianco costituita dal marchesato carrettesco di Finale, che interrompeva la continuità dei suoi domini sulla costa.

Ma l’allora marchese di Finale, Galeotto Del Carretto, non era certo tipo da lasciarsi intimorire, neppure quando a fare la voce grossa era la superba Genova.

Nè si lasciarono intimorire, in quella occasione, i Del Carretto del ramo valbormidese che, con la sola eccezione dei signori di Calizzano, fecero quadrato intorno al marchese di Finale contro le pretese genovesi.

E fu proprio in Val Bormida, a Millesimo, che si tenne un consiglio di guerra nel castello del marchese Spinetta Del Carretto, signore del paese nonché cugino di Galeotto di Finale.

In tale occasione fu deciso di mandare a Genova un inviato in un estremo tentativo di salvare, a condizioni onorevoli, la pace. Come ambasciatore si autocandidò Damiano Del Carretto, figlio di Marco, signore di Calizzano.

Ma Marco meditava, per interesse, antichi rancori o altri motivi che ci sfuggono, il tradimento: tipico esempio di chi pronto a vendere gli interessi della propria terra per quelli delle sue tasche o del suo orgoglio. Non fu il primo e non sarà, probabilmente, l'ultimo.

A Genova Damiano, già vescovo di Albenga porto' acqua al mulino del partito della guerra, presentando i Del Carretto valbormidesi come divisi e ostili l'un l'altro. Inoltre promise di bloccare i rinforzi che gli altri Del Carretto avrebbero certamente (ma non aveva appena assicurato i genovesi dicendo che i carretteschi erano divisi?) cercato di inviare a Finale tramite Calizzano e Osiglia.

Non contenti dell'appoggio di Marco, i genovesi cercano in Val Bormida ulteriori aiuti, sondando le intenzioni degli Scarampi di Cairo e dei carretteschi di Spigno e Mallare: ma a tradire sarà solo Marco di Calizzano.

Mentre i genovesi costruiscono fortificazioni al valico del Melogno, a Pian dei Corsi e sopra Feglino (loc. Collamonica) nel tentativo di isolare i finalesi, per quest'ultimi arriva in Italia un potente alleato, il francese Duca di Orleans, nipote del duca di Milano Filippo Maria Visconti, morto l'anno precedente.

In realtà costui era sceso in Italia per cercare di sistemare a suo vantaggio la complessa questione della successione nel Ducato di Milano, ma i Del Carretto speravano di poterlo indurre a combattere contro Genova.

Di questa difficile missione di convincimento si incarica il marchese di Millesimo, Spinetta, che si reca nel campo francese a Cherasco: il duca accetta e promette l'invio di soldati.

Ma Spinetta non si accontenta: sa che contro i 15.000 uomini che Genova impiega intorno a Finale le truppe carrettesche sono troppo inferiori di numero e cerca rinforzi. Assolda così Bonifazio Castagnola e Scalabrino, mercenari comandanti di ventura e ottimi soldati.

Saccheggio di Carcare

Se trovare dei soldati era relativamente facile, farli arrivare a Finale, attraverso le strette maglie dell'assedio genovese, tutt'altra cosa. Arrivati a Carcare, anziché scendere su Finale tramite Mallare e il passo di S. Giacomo Spinetta devia su Murialdo per scendere a Rialto dalla Madonna della Neve o dal Melogno. Infatti i Genovesi erano in agguato sul passo sopra Mallare. E così, mentre i rinforzi carretteschi marciano verso Rialto, i genovesi si accorgono di essere stati beffati: da Mallare scendono a Carcare ma lo trovano ormai deserto : fuggita la preda, a far la spesa della rabbia sono alcune abitazioni, che vengono messe a sacco. Sulla via del ritorno sfogano allora la loro rabbia sugli indifesi abitanti di Mallare, che nella notte, secondo le usanze dell'epoca, viene saccheggiato.

Intanto i rinforzi guidati da Spinetta e dal Castagnola sono sopra Rialto. Dall'alto delle montagne vedono la costa presidiata dai genovesi e non osano scendere a valle. I fanti ritornano indietro e solo una piccola colonna di cavalieri decide di tentare la sorte. Dodici uomini coperti di ferro, sui grossi cavalli da combattimento, si buttano così al galoppo, secondo le migliori tradizioni della cavalleria, attraverso le fortificazioni genovesi, le sorprendono, le superano di slancio, sono passati: e con loro, soprattutto, passano 200 muli carichi di grano, che il marchese Spinetta mandava ai finalesi assediati: viveri inattesi arrivati come un dono dal cielo per i finalesi affamati.

I Genovesi accusano il colpo e riorganizzano il blocco tentando di impedire ogni comunicazione fra costa e entroterra: su San Giacomo e altri valichi delle Alpi Liguri abbattono molti faggi per impedire il transito a cavalieri e muli. Ma gli alberi tagliati vengono rimossi dagli uomini di Spinetta: i genovesi ne atterrano altri, e il gioco continua.



Guerra a Calizzano
Intanto il tradimento di Marco di Calizzano è ormai diventato noto, e sul paese cade la vendetta di Galeotto: con l'aiuto dei francesi tenta un'ardita sortita da Finale, raggiunge Calizzano, lo assedia.
I genovesi reagiscono, inseguono Galeotto da Giustenice, valicano il giogo, scendono verso Bardineto e raggiungono Galeotto.
C' è uno scontro, il signore di Finale corre il rischio di essere catturato e viene salvato da un bardinetese, Giacomo Picco, che poi lo tradirà.
In aiuto di Galeotto arrivano anche i francesi, sconfiggono i genovesi, prendono Calizzano, vi lasciano una guarnigione. Siamo fra il giugno e il luglio del 1448.
Nel paese i rapporti fra abitanti e occupanti sono tesi: alla fine di luglio scoppia una rivolta nella quale viene ucciso il comandante della guarnigione, Rodolfo Giunigi, parente di Galeotto e figlio del Signore di Lucca (1).

Da Finale arriva allora Bonifacio Castagnola che punisce severamente Calizzano, i cui abitanti, come ricorda il Filelfo (che di quella guerra fu, oltre che testimone, anche attento cronista) "furono costretti ad andarsene come mendicanti e a cercare il cibo per carità mentre il paese pagò il fio delle malefatte dei suoi padroni", i quali padroni, invece, se la squagliarono rifugiandosi a Osiglia. E così, ancora una volta le colpe dei potenti (o presunti tali) ricaddero sulla gente comune.


Intanto a Finale la guerra va male per i Del Carretto: il 5 febbraio del 1449, per il tradimento di Giacomo Picco (2), che di notte apre le porte del castello al nemico, Castel Gavone viene conquistato, dai genovesi. Il Marchese era a letto. Ma lasciamo ancora una volta la descrizione al nostro Filelfo: "Quando Galeotto sentì il rumore dei passi nel castello gridò alla moglie che era a letto con lui: "Sono preso, Bannina", poi si alzo' da letto, e lasciate calzature e abiti e presa solo la spada si infilò nel buco della latrina per calarsi alla base del castello e salvarsi la vita. Ma avendo le spalle più larghe dell'ampiezza dello scarico non potè passare di lì. Allora Antonio Porro, uomo assai robusto, gli corse in aiuto e lo trasse fuori. Presi poi alcuni lenzuoli, legatili assieme e fissatili ad un'inferriata della finestra che riuscirono a scardinare, uscì per quella e discese lungo le mura. Ma quando Galeotto era a poca distanza dal suolo, un lenzuolo si strappò ed egli cadde e si ferì le piante dei piedi e i palmi delle mani. La stessa notte, scavalcando il valico dell'Appennino (quello di S. Giacomo, a 13 km. di distanza) in mezzo alla neve raggiunse Mallare, da qui a cavallo proseguì pel castello di Altare dove finalmente riposò in un letto"(3).
Piana del castel Govone nel 1570


Dopo questa rocambolesca fuga Galeotto tornerà ancora una volta, di nascosto, a Finale per vedere se fosse possibile organizzare un' estrema resistenza e poi si reca a Torino per cercare aiuti.

Con la fuga di Galeotto è nuovamente il Marchese di Millesimo a prendere in mano l'iniziativa diplomatica. Grazie anche all'aiuto del suocero, il genovese Ansaldo Doria (anzi, D'Oria, come allora si scriveva), venuto appositamente a Cengio per esaminare la situazione e cercare una via per una soluzione onorevole, Spinetta può andare a Genova per trattare la pace. Ma le condizioni proposte dai Genovesi appaiono inaccettabili all'orgoglioso Galeotto, che le rifiuta cercando di organizzare la riscossa.

Assolda così due condottieri mercenari che però prendono i soldi e si dileguano. Galeotto non si dà per vinto neppure in questa circostanza : cerca altri condottieri, Giovanni Fontana e Giovanni di S. Severino, cerca aiuto da Ludovico duca di Savoia, che promette di intervenire ma non mantiene l'impegno. Ma tutto è inutile e l' 8 maggio 1449 anche il borgo di Finale e' costretto a capitolare per fame.

A Millesimo i mercenari assoldati da Galeotto, che avevano aspettato i rinforzi promessi, vengono cosi' lasciati in libertà, e la continuazione della guerra viene rimandata in attesa di tempi migliori.

Incominciano allora le vendette: Marco di Calizzano chiama i genovesi ed insieme attaccano Murialdo, rimasta sempre fedele ai Del Carretto di Finale e di Millesimo: "Ma qui - e' sempre il Filelfo a ricordarlo - nulla fecero degno di citazione, curarono solo di bruciare qualche casa e di andarsene": giusto quel tanto, insomma, per far arrabbiare i murialdesi che per reazione " un giorno, con alcuni finalesi, manco' poco che conquistassero Osiglia".

Galeotto capisce che per lui e' tempo di uscire, almeno momentaneamente, di scena: prima però vuole sistemare la situazione di Murialdo, insidiata da Marco e dai Genovesi: al suo controllo designa il condottiero Giovanni Fontana, che avrebbe governato il paese in nome del Duca d' Orleans: la duplice garanzia, quella militare rappresentata dal nome del Fontana, e quelle politica del Duca che gli copriva le spalle, avrebbero dovuto mettere il paese al sicuro da ogni velleità espansionistica genovese.

Genova infatti presenta il conto ai sostenitori di Galeotto: vuole che Giorgio Del Carretto di Zuccarello e Spinetta di Millesimo si presentino in città per prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica, ed essere da lei investiti del possesso di quei feudi che detenevano, soggetti alla sola autorità dell'Imperatore, da 500 anni.

Giorgio ha paura e si piega. Ma Spinetta e' di tutt'altra pasta, e come risposta si chiude nel castello di Cengio di cui fa rafforzare mura e fossati. A buon intenditor..

I Genovesi capiscono l'antifona e non parlano piu' di giuramenti di fedelta' e investiture.

Nel frattempo Galeotto ritorna a Millesimo, affida la moglie a Spinetta, autorizza il matrimonio della figlia Nicolosina con Carlo Cacherano e si accinge a partire per la Francia, dove sperava di trovare aiuti per riconquistare il marchesato.

Il giorno della partenza Spinetta viene a sapere che dei soldati di Marco di Calizzano stanno aspettando Galeotto sulla strada, nei pressi di Saliceto, per tendergli un'imboscata. Gli fornisce allora una scorta che, attraverso i boschi, lo accompagna fino in val Belbo, da dove puo' continuare sicuro il suo cammino. Arrivera' a Novello, poi a Torino, poi in Francia, sempre cercando alleanze per tornare a Finale e cacciare i genovesi.

Ma a Finale Galeotto non tornera' mai: il 24 maggio del 1450 e' ferito in mare mentre combatte per il re di Francia contro i tedeschi, il 30 muore in seguito alla ferita. Il suo corpo e' tumulato a Vannes, vicino alla tomba di s. Vincenzo.

Intanto a Finale i genovesi completano la loro vendetta con la distruzione di Castel Gavone e delle mura del Borgo: e il Filelfo nota con amarezza come in quest'opera di distruzione, cui assistette Marco di Calizzano, "i piu' accesi di tutti furono coloro che erano venuti da Calizzano e Osiglia".

Vendette anche in Val Bormida: 400 uomini guidati da Francesco di Calizzano e da Giorgino di Saliceto, conquistano Saliceto, da cui Giorgino era stato cacciato, lo saccheggiano e minacciano anche Cengio.

Intanto Spinetta continua nella sua opera diplomatica. Mentre a Finale vengono distrutte le mura, lui si reca a Genova per trattare la liberazione del fratello Giacomo e del cugino Giovanni, fratello di Galeotto. Anche grazie alle pressioni di Francesco Sforza e della potente famiglia dei D ‘Oria, cui Spinetta era imparentato per via della moglie, i due prigionieri sono liberati: e ancora una volta il Filelfo fa tristemente notare che ad opporsi alla loro liberazione e' soprattutto Marco di Calizzano .

Ma se i genovesi pensavano di aver definitivamente risolto, con la forza delle armi, e del tradimento, la questione di Finale, la loro era solo un'illusione: sotto le ceneri covava infatti il fuoco della rivolta.

Con la morte di Galeotto il marchesato era passato a Giovanni Del Carretto, che segretamente organizzava l'opposizione interna ai genovesi, anche con l'aiuto, in verità non disinteressato, dei francesi.

Guerra a Saliceto

E saranno proprio le truppe francesi a portare la guerra in Val Bormida. Già abbiamo ricordato la spedizione di Giorgino e Francesco contro Saliceto. Contro Giorgino si presenta infatti un corpo di truppe francesi comandate da Filiberto di Valdereres, balivo -cioè' governatore- della provincia di Borgogna: il castello di Saliceto è assediato, le mura e una torre vengono fatte saltare con mine, il paese preso. Giorgino con figli e figlie è catturato e portato ad Asti, molti altri, presi prigionieri nel piccolo centro, vengono sbrigativamente impiccati. Nel castello viene anche rinchiuso per quattro mesi "con i ferri alle tibie, sotto stretta custodia, in un carcere pessimo e puzzolente, oscuro e terribile quasi in fondo ad una torre", come ricorderà più tardi il Filelfo, anche il Podestà' di Albenga, colpevole di essere suddito genovese e liberato dopo 120 giorni dietro pagamento di un riscatto di 700 ducati.


L'episodio di Saliceto, in pratica una ritorsione contro chi aveva appoggiato, in Val Bormida, i Genovesi, è un chiaro sintomo che la riscossa si stava avvicinando: Genova non faceva più paura, se mai l'aveva fatta negli anni precedenti, e si poteva presentare il conto ai suoi sostenitori locali.

Dopo Saliceto la vendetta antigenovese colpirà Giusvalla, saccheggiata verso la fine del 1450: sua unica colpa era di appartenere a Marco di Calizzano, in quegli anni non molto popolare fra i Del Carretto.

Intanto il sottile lavoro diplomatico e strate
gico di Spinetta e di Giovanni si avvia alla sua conclusione: il 20 dicembre 1450, al primo assalto, in piena notte, Finale ritorna nelle mani dei Del Carretto. Vi resterà' per altri 150 anni, fino alla sua vendita alla Spagna nel 1598. Fra le truppe carrettesche che entrano in città' ci sono anche i fanti valbormidesi mandati da Spinetta. Giacomo Picco, il traditore, viene ucciso.

Il 7 agosto 1451 Giovanni Del Carretto, nuovo Marchese di Finale, firma la pace con Genova e inizia la ricostruzione del Castello e del Borgo: nell'opera di ricostruzione "i maggiori aiuti e i più' validi vennero da Millesimo, Cengio e Cosseria: gli uomini provenienti da quelle località -scrisse il Filelfo- lavorarono con tale operosità che i finalesi non potevano essere più ferventi"(4).

Castelo Govone, la "torre del diamante"




Per ricordare quella rinnovata concordia, cementata dalle difficolta' della guerra, il Marchese Giovanni fece scolpire, sulla porta della ricostruita cinta muraria, uno stemma dei Del Carretto fiancheggiato da due cuori per indicare che" cuore del Marchese e dei sudditi erano sempre stati concordi".

E forse la quattrocentesca cappella di "Ca' de coi" (=Casa dei cuori) ancor oggi esistente a Cosseria, di cui sarebbe fra l'altro auspicabile un restauro, con la sua lunetta monolitica con lo stemma dei Del Carretto fiancheggiato appunto da due cuori, ricorda quegli avvenimenti ormai lontani (5).
Cosseria, Ca' de coi" (=Casa dei cuori)

NOTE

1) Ricordiamo, per inciso, che dei rapporti tra Del Carretto finalesi e i Guinigi signori di Lucca resta, in quella città, il bellissimo sarcofago, opera di J. Della Quercia, di Ilaria del Carretto di Zuccarello, moglie appunto di un Guinigi, morta di parto a 24 anni


2) Tutta la guerra intorno a Finale, e il tradimento del Picco (o Pico) fornirono allo scritture “valbormidese” (almeno d’adozione) A.G. Barrili (Savona 1836- Carcare


1908) la materia per il suo romanzo storico
Castel Gavone, pubblicato dall’Editore Treves nel 1875, che di quella guerra e delle vicende ad essa collegate è una romanzesca ed avvincente ricostruzione. Per amor di curiosità si potrebbe ricordare che un altro Pico si distinguerà ulteriormente per fedeltà (!) alla sua terra negli anni intorno al 1795, allorchè organizzerà un'intera rete di spionaggio a favore delle truppe francesi, allora penetrate nella neutrale -ma disarmata- Repubblica di Genova e ai danni del Regno Sabaudo (v. E. GACHOT, Histoire Militaire de Massena, Paris 1901, pp. 70 sgg.


3) G . M. FILELFO fu un umanista finalese che alla fine del XV secolo scrisse un’


opera in latino intitolata Bellum finariense anno Cristi MCCCCXLVII coeptum. Avrebbe dovuto essere pubblicata nel ‘700 nell'ambito dei Rerum Italicarum scriptores del Muratori, per l'esattezza nel vol. XXIV, ma ne fu esclusa perchè non politically correct. Vide comunque la luce come fascicolo a sé stante. Il brano qui riportato è nella traduzione effettuata da Pinea (G.M. FILELFO, La Guerra del Finale (1447-1452).Traduzione, riassunti e note di Pinea, Tolezzi ed. , Villanova d'Albenga, 1979).


4) Il Filelfo ricorderà Millesimo anche dedicandogli alcuni versi (per l'esattezza i primi setti) della pagina conclusiva del suo scritto, un carme in classici esametri dattilici in cui, congedando la propria opera ed indirizzandola a Spinetta Del Carretto, presenta questa poetica descrizione del paese valbormidese, della sua piazza fuori dalle mura, ai piedi dell'alta torre del palazzo del marchese (attuale palazzo comunale) e dell'alto olmo che allora la ombreggiava:

I celer hinc, turrimque petas o crasse Libelle
Millesimam, in medium platea est edita campo
Ulmus in hac spetiosa satis, nec adhuc pede firmes
Gressum, iter at sequere, quod te deducat in ipsam
Turrim, quam media videas certissimus ulmo,
Haec capite est campi, cunctam quoque prospicit alta,
Pulchraque quantum oculis nostris sit visa per orbem(..)

che potrebbero essere tradotti pressappoco così: "parti di qui veloce, o ricco libretto, e cerca la torre di Millesimo. C'è una piazza davanti ai campi. Lì c'è un olmo veramente bello. Non fermarti, continua la tua corsa, vai fino alla torre che puoi vedere facilmente dirigendoti verso l'olmo. Questa è all'inizio della pianura e si leva alta e bella come non ne ho mai viste in tutto il mondo" (..).

5) La "Cà de coi", casa dei cuori, è uno dei più interessanti e trascurati monumenti tardomedioevali di Cosseria. Deriva il nome, con ogni probabilità, dai due cuori scolpiti sulla chiave di volta in arenaria dell'archetto gotico sovrastante quello che un tempo era il portale d'ingresso dell'edificio, situato di fianco all' importante arteria medioevale che, attraverso val di Cummi, univa Cosseria (e di conseguenza Millesimo) a Cairo.

Ca' de coi" Particolare

L'origine e il significato di tale arricchimento architettonico è stato da qualcuno ricollegato al cognome Core, testimoniato a Cosseria nel tardo medioevo, ma la spiegazione potrebbe però anche essere cercata nella "Guerra del Finale" e nella già ricordata, analoga scultura presente sulla porta della cinta muraria di Finale.

Sulla facciata della "Cà de coi" è infatti presente, al di sopra della lunetta con i cuori, al di sotto di un archetto ogivale in cotto, una monofora monolitica in arenaria riportante lo scudo dei Del Carretto. Ciò potrebbe far pensare non a una dimora privata (magari della famiglia Core), ma ad una proprietà (o ad un giuspatronato) dei Del Carretto. Tale ipotesi verrebbe rafforzata dalla presenza, proprio in mezzo ai due cuori, dell'iscrizione IHS. Questo era un trigramma usato negli edifici o arredi sacri, essendo acronimo di I(esus) H(ominum) S(alvator), cioè "Ges- salvatore degli uomini". Ciò sarebbe un ulteriore elemento a favore di una destinazione non privata dell'edificio, magari appartenente ad un ente religioso su cui i Del Carretto vantavano una giurisdizione, e non una dimora privata.

Resta allora il mistero dei due cuori.

Esclusa, per i motivi sopra accennati, l'arma gentilizia quale può essere il loro significato in un'epoca cos ricca di simboli e di metafore quale il (tardo) medioevo?

Considerata la notevole somiglianza con i motivi celebrativi presenti sulla porta di Finale (cuori e stemma gentilizio), anche la decorazione del piccolo edificio cosseriese potrebbe avere la stessa origine, ricordare cioè una sorta di "gemellaggio" tra la Val Bormida e il Finalesi per celebrare la solidarietà fra i due rami carretteschi cementata dai disagi della guerra contro Genova E' quindi possibile che anche a Cosseria si sia voluto ricordare tale alleanza con un simbolo analogo a quello di Finale, scolpito sulla pietra del portale di quello che poteva essere un edificio civile marchionale (posto fra l'altro non lungi dalla dogana che controllava la strada collegante il feudo imperiale di Cosseria col territorio monferrino di Cairo) o di proprietà di un ente religioso, visto che, per esempio, proprio non lontano da "cà de coi" il monastero domenicano di Finale aveva dei terreni ed una cascina)?

Manca evidentemente la prova inoppugnabile, ma l'ipotesi non pare comunque priva di una sua plausibilità.

Leonello Oliveri



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