Leonello Oliveri
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Il dato di partenza per questo breve studio è che conosciamo assai poco della situazione della Val Bormida a
La fine dell'Impero Romano significò l'inizio dell'età delle invasioni (anche se, a ben pensare, anche quella romana fu per le nostre terre, un'invasione, e assai sanguinosa, seppur poi vivificata dalla civiltà).
La prima, gravissima, fu quella dei Goti che si impadronirono, con il resto dell'Italia settentrionale, anche di questi luoghi intorno al primo decennio del V secolo. E proprio su terre a noi vicine, a Pollenzo, alla confluenza fra Tanaro e Stura, si svolse nell'aprile del 403 una grande battaglia tra le legioni romane guidate da Stilicone e i Visigoti di Alarico, che furono sconfitti. Tornarono, però, con Ataulfo, fra il 408 e il 410, incendiando e distruggendo fin sulla costa, fino ad Albintimilium (Ventimiglia) e Vada Sabatia (Vado Ligure), con massicce devastazioni ancor oggi chiaramente leggibili nei livelli archeologici dell'epoca.
La reazione romano-bizantina riuscirà poi per breve tempo a ristabilire condizioni di sicurezza, fermando le bande di Radagaiso, non prima però che i saccheggi operati sul territorio ligure-piemontese da questo barbaro retico gli facessero meritare l'appellativo di «bestia, diabolus» col quale viene ricordato nelle omelie del vescovo torinese S.Massimo. E’ possibile che in Val Bormida sia collegata con queste invasioni la scomparsa della mansio di Crixia.
Dopo queste incursioni ci fu un tentativo di ripresa, di cui è una prova, per esempio, la ricostruzione delle mura di Albenga curata fra il 415 e il 417 da Costanzo, che nel 421 sarà poi imperatore; lo stesso riorganizzerà poi la Liguria costiera : constituit Ligures, ricorda la lapide che Albingaunum - Albenga - gli dedicò riconoscente, probabilmente inserendola in parte, compreso il versante valbormidese delle Langhe, in una nuova provincia, quella delle Alpes Cottiae.
Ma neppure negli intervalli tra una invasione e la successiva la situazione di queste terre poteva dirsi tranquilla. Un brano del «De reditu suo» di Rutilio Namaziano recentemente rinvenuto, in cui è descritto il viaggio compiuto da questo funzionario romano dall'Urbe a Tolosa nel novembre del 417 e che riguarderebbe proprio il tratto Tortona/Acqui/Vado lungo quella che era stata un tempo la via Juília Augusta, ricorda infatti che ad Acqui Namaziano avrebbe incontrato il suo amico Marcellino «alto dignitario di corte già celebre per le sue imprese contro i predones»: ritornano quindi i "bagaudi", schiacciati da quell'asfissiante fiscalismo che sarà una delle cause non ultime del crollo del tessuto economico romano, e con essi l'indicazione di uno stato di malcontento e sofferenza tra la popolazione.
E’ un peccato che il brano di Namaziano sia mutilo e non sempre chiaro, e che manchino quei 15 versi descriventi, se è giusta l'ipotesi del Lamboglia, proprio il viaggio da Acqui a Vado attraverso la Val Bormida.
Nel secolo successivo, una nuova guerra, e anche questi luoghi saranno teatro di scontri militari e di voltafaccia diplomatici fra i Goti insediati «con mogli e figli» e i Bizantini, come ci è ricordato da Procopio di Cesarea, che della guerra gotica fu attento cronista. Così lo storico ricorda quei tempi in un brano che concerne un periodo ed una zona di cui non molto si sa. Siamo intorno al 539 e «sulle Alpi che segnano i confini tra Galli e Liguri (i Romani le chiamavano Alpi Cozie) ci sono parecchie fortezze. In esse si erano insediati da gran tempo molti valorosi Goti con mogli e figli e montavano la guardia. Appena Belisario seppe che volevano passare dalla sua parte, mandò uno del seguito, di nome Tomaso, con pochi altri per raccogliere la resa di quei barbari offrendo loro garanzie. Quando quelli arrivarono sulle Alpi, Sisigi, che comandava quella guarnigione, li ricevette in uno di quei castelli, s'arrese e indusse uno per uno gli altri a fare lo stesso. ( .. ) Ma quando (gli altri Goti) seppero cosa aveva fatto Sisigi, si impensierirono per i loro cari e vollero andare colà. Per cui Uraria si recò con tutte le truppe sulle Alpi Cozie e pose l'assedio a Sisigi e Tommaso. Giovanni, nipote di Vitaliano, e Martino, che erano vicinissimi al Po, lo seppero e corsero in aiuto con tutte le loro truppe e dei castelli delle Alpi ne presero alcuni assalendoli con improvvise incursioni». Gioverà ricordare che le «Alpi Cozie» citate da Procopio comprendevano, all'epoca, anche territori prossimi all'attuale Liguria.
I Longobardi
Dopo quella gotica un'altra invasione imporrà un radicale riassetto difensivo di tutta la Liguria costiera, con conseguenze che ricadranno direttamente sulla zona comprendente la Val Bormida e le Langhe: l'arrivo dei Longobardi segnerà infatti l'irrevocabile distacco del territorio oltre lo spartiacque alpino-appenninico dai centri della costa, cui giuridicamente forse apparteneva - almeno in parte - in epoca romana.
Nel 569, infatti, allorché i Longobardi di Alboino conquistano l'Italia settentrionale e tutte le città liguri «tranne quelle che sono poste sulla costa», i Bizantini vengono schiacciati lungo una fascia tra il mare e lo spartiacque. In questa occasione deve essersi effettuato il distacco tra la Liguria costiera e i territori oltre il giogo. L'invasione longobarda portò infatti alla costruzione di un limes, una catena di castelli e posti fortificati per proteggere gli ultimi possedimenti bizantini sulla costa (Taggia, Albenga, Varigotti, Noli, Savona) dalla straripante marea che calava dall'est. Tale linea doveva, per forza di cose, essere aggrappata ad ostacoli naturali e i territori oltregiogo, anche quelli nella bassa Val Bormida, dovettero essere abbandonati.
Per qualche anno i bizantini resistettero dietro le loro difese, sotto la protezione di una serie di fortini e castelli posti sullo spartiacque alpino - appenninico, mentre la cresta attualmente percorsa dall'Alta Via dei Monti liguri dovette essere luogo di incontro e scontro tra le due etnie. Uno di questi avamposti poteva essere, ma gli elementi a favore di questa attribuzione sono assai labili, il "castrum" di S. Nicolò a Bardineto e forse (ma qui l'incertezza è ancora maggiore) Monbasilio, mentre un insediamento longobardo ( o franco) potrebbe essere individuato nella località di Campomarzio, sopra Monesiglio.
Recentemente è stata avanzata l'ipotesi di un'origine
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| S. Bernardo di Millesimo (foto di P. Palazzi da AA.VV, Millesimo e i Del Carretto, Arti grafiche Cairo 2007) |
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| San Bernardo (ibidem). Direi che il contesto in cui sono immersi i resti è ... molto chiaro |
Per
quasi 60 anni Bizantini e Longobardi si fronteggiarono sulla dorsale
che separa la costa, ancora bizantina, dall'entroterra, ormai
saldamente in mano ai nuovi venuti, non lasciando, almeno al livello
attuale delle nostre conoscenze, nessuna traccia archeologica e pochi
indizi nella titolazione di alcune chiese (S. Nicolò bizantino, S.
Michele longobardo) e nella toponomastica (i toponimi “sala/e",
'bando",
“arimania",
“Campomarzio",
"Nigadoi"
di possibile origine longobarda). Al riguardo ci pare particolarmente
interessante, oltre alla "casa
degli arimanni" di
barriliana memoria già esistente a valle di Carcare (e recentemente
demolita) 
Questa è probabilmente l'unica foto esistente della
"Casa degli Arimanni", una volta esistente lungo la strada
fra Carcare e Cairo e distrutta fra l'indifferenza generale
il toponimo “Pertiche", anch’esso, come quello di Nigadoi, in prossimità di Carcare, toponimo che secondo la testimonianza di Paolo Diacono potrebbe indicare (sempre che non sia un cognome) un sepolcreto longobardo: così infatti scriveva, nell'VIII sec., quello storico longobardo: "Quel luogo si chiama Alle pertiche perché una volta lì c'erano delle pertiche conficcate nel terreno, secondo un uso longobardo e per questa ragione: se uno moriva da qualche parte, in guerra o per qualunque altro accidente, i suoi parenti piantavano fra i loro sepolcri una pertica sulla cui sommità poi mettevano una colomba di legno rivolta verso il luogo in cui il loro caro era morto. Ciò per sapere da quale parte riposasse". Ma il luogo cui si riferisce non è quello in prossimità di Carcare
Ma si tratta di tracce quasi evanescenti.
Nel 636 Longobardi riuscirono ad arrivare con un'incursione fino al mare «distruggendo fin dalle fondamenta le mura di tali città (Genova, Savona, Varigotti, Albenga), spogliando e rendendo schiavi gli abitanti». Infine, nel 643, Rotari «conquista tutte le città costiere dei Romani da Luni in Tuscia (a levante di La Spezia), fino ai confini della Francia» .
Le condizioni di vita in quei tempi sono ben illustrate da una lettera che 125 vescovi italiani, tra i quali Valentino di Acqui e Benedetto di Alba inviarono al Concilio Ecumenico di Costantinopoli nel 680, che apre un vivido squarcio su un panorama desolato: «Se parliamo di scienza - scrissero allora i vescovi - non pensiamo che ai nostri tempi si possa trovare qualcuno che possa vantare alta o profonda cultura, dato che nelle nostre regioni ogni giorno ribolle il furore di popoli ostili, ora con combattimenti, ora con scorrerie e saccheggi. Siamo accerchiati e chiusi da turbe di popoli» .
Questa era la situazione nei primi decenni della dominazione longobarda, particolarmente pesante per le popolazioni anche per la diversità di religione tra le comunità cattoliche e gli invasori ariani.
Ma i Longobardi, poi sostituiti dai Franchi, non ritenevano inconciliabile la presenza contemporanea di due religioni ed erano, tutto sommato, pronti ad accettare i principi della civiltà romana su cui si innestarono, condizione irrinunciabile ( e tutt'altro che automatica) se si vuole che due civiltà/popoli possano coesistere.



